sabato, settembre 30, 2006

Insonnia (ascolta)





L’insonnia è un lupo, una crosta,
un’impazienza nuda nella luce elettrica,
un ospedale ove sostano
i parenti del morto.


Pier Paolo Pasolini

giovedì, settembre 28, 2006

Maratona di Verona 2005 (3h43'00'')

A Verona ho corso la mia prima maratona. Mi sono tornati in mente alcuni pensieri che avevo annotato poco più di un anno prima, verso il termine dell’estate.

Premesso che non sono un atleta, tantomeno un abile scrittore (ma questo è facile desumerlo), dedico a Piergiorgio Welby e Luca Coscioni queste due righe, scritte stanotte, a più di un mese di distanza. Mi capita spesso di pensare a loro, nei momenti più duri della corsa.
Francavilla al Mare, fine luglio 2004
Sono passate le 9. Fa caldo, ma ho la certezza che se non vado a correre stamattina nel pomeriggio non potrò farlo. Mi preparo in fretta e decido per il “lungo lento”. L’infortunio invernale (pèrone fratturato da un “calcione” durante una partita) è ormai alle spalle: gambe e testa sono allenate a reggere quasi due ore di questo tipo di corsa. Questo è in fondo anche il modo di correre che mi stanca meno. Se riesco a far trascorrere la prima ora senza pensare troppo, le gambe cominciano a girare da sole e i pensieri diventano spesso sereni.
Raggiungo in tre o quattro minuti la zona stadio e proseguo verso il fondovalle Alento. L’Alento è impropriamente definito un fiume: in realtà e poco più che un ruscello. Non ho conoscenza del percorso perché solitamente preferisco correre sul lungomare, per la certezza che il percorso rimarrà piatto e la presenza di numerose fontane. Dopo un paio di chilometri, la stradina asfaltata lascia il posto ad un terreno sabbioso ma abbastanza duro da non affaticare più di tanto l’andatura. La cosa che più mi preoccupa d’estate, quando inizio un percorso sconosciuto, è il non sapere se lungo la strada troverò da bere. Per questo preferisco sempre andata e ritorno: se non altro sono sicuro che il chilometraggio e i tempi di percorrenza non subiranno variazioni. Basta moltiplicare per due e i conti tornano.
Va abbastanza bene perché l’aria è sufficientemente secca. Per nulla affaticato, uno sguardo al cronometro che conferma quanto andavo pensando: sto correndo da circa un’ora. Non ho trovato da bere, ma la presenza di alcune case lungo il percorso mi rassicura. Mal che vada, vincerò la timidezza e chiederò da bere a qualcuno. E’ già capitato, raramente, alcune estati. D’improvviso la stradina curva a sinistra e mi trovo davanti una salita diritta e con pendenza tanto elevata quanto imprevista: saranno trecento metri. E’ il momento giusto per tornare indietro, ho già corso abbastanza, ma all’improvviso mi trovo quasi incoscientemente ad iniziare quella specie di scalata. Non terrò fede alle abitudini e scenderò dal versante opposto: non più andata e ritorno ma percorso ad anello. Altra occhiata, stavolta al cardiofrequenzimetro. Decido di arrivare in cima senza superare i 170 battiti. Ciò vuol dire, in questa situazione, procedere non solo lentamente ma con passi lunghi quanto una spanna. Qualche goccia di sudore in più ed in breve è fatta! Non è tanto la discesa che mi attende, meno amata dai podisti di quanto una persona possa immaginare, a rendermi quasi felice, ma la visione quasi contemporanea di una strada asfaltata e del mare che, pur non vicinissimo, mi rassicura. Poi scorgo la sagoma gialla di un autobus e ho la certezza che questa strada mi ricondurrà verso il centro del paese. Un cartello con il nome della località e la scritta “frazione di Francavilla” mi danno la conferma che non sono poi così fuori rotta. Ancora qualche minuto e intravedo il centro abitato di Francavilla. Decido che dovrò in ogni caso dissetarmi, perché il corpo comincia a chiederlo in maniera sempre più forte: la sete è diventata arsura, ma qui un cane abbaiante, là una persona dalla faccia poco simpatica, più in giù una casa disabitata in breve mi inducono alla rassegnazione. Ho la certezza che fra qualche chilometro, una volta arrivato sul lungomare, troverò acqua potabile a volontà, nel primo stabilimento balneare che incontrerò.
Intravedo gli inconfondibili cipressi di un cimitero: non può che essere quello di Francavilla. Da queste parti i cimiteri hanno sempre acqua potabile e mai come oggi la visione di un camposanto mi rende felice. Ancora poche centinaia di metri e avrò a disposizione tutta l’acqua che desidero. In prossimità del cancello un flash e il ricordo di Antonio. Non l’ho conosciuto personalmente ma non dimenticherò mai la sua voce e i suoi servizi alla radio. Come non aver pensato a lui, fino ad un istante prima? Ho poca fiducia di riuscire a trovare la sua tomba. Francavilla non è una città, ma nemmeno un paese di mille anime. Varco la soglia del cancello e intravedo, poco più avanti sulla destra, la fontana. Bevo a volontà, mi bagno la testa e le braccia mi metto alla ricerca della sua tomba. Do un’occhiata quasi involontaria alle cappelle poste alla sinistra del cancello d’ingresso. Una è intestata “famiglia Russo”.
Il cognome Russo è qui in Abruzzo un po’ come i Rossi a Milano. Mi avvicino alle cappella: è piccola e molto semplice. Lo sguardo attraverso il vetro e… non c’è bisogno di nessuna lettura. Una chitarra appoggiata in un angolo: è molto vecchia e “vissuta”. Due o tre corde sono rotte; è dipinta a mano con la vernice che dalla parte anteriore cola sui fianchi in maniera molto irregolare. Io la vedo viola, ma sono daltonico. Sulla destra, un poster leggermente sbiadito e la foto di Antonio, quella che lo vede attorniato da un gruppo di bambini sorridenti. Poi leggo la scritta: Antonio Russo n. Chieti 1960 m. Tblisi (Georgia) 2000. Commosso, mi fermo qualche minuto e riprendo la corsa verso casa. La sera stessa Radio Radicale manda in onda un suo ricordo. Carezze della vita?

Maratona di Piacenza 2006


http://www.stampalternativa.it/liberacultura/books/maratoneta.pdf

Ho corso questa maratona a pochi giorni dalla scomparsa di Luca Coscioni, presidente dell'Associazione che porta il suo nome. Luca avvertì i primi segnali della sua malattia durante un allenamento, mentre si stava preparando a partecipare alla maratona di New York.
Come iscritto all'associazioe www.lucacoscioni.it l'ho voluto onorare correndola con un logo dell'associazione al petto.
Un passo dal suo libro "Il maratoneta"
La voce degli alberi
Vorrei scendere e camminare e abbracciare il vento, ma non posso. Mi piacerebbe andare incontro al temporale correndo, ma non posso. Vorrei innalzare un inno a questo spettacolo meraviglioso, ma le parole mi nascono nel cuore e mi muoiono in bocca. Dovrei essere uno spirito libero per poter gioire, ora. Sono invece un uomo provato dalla Sofferenza e dalla perdita della Speranza. Non sono solo, ma provo solitudine. Non è freddo, eppure provo freddo. Tre anni fa mi sono ammalato ed è come se fossi morto. Il Deserto è entrato dentro di me, il mio cuore si è fatto sabbia e credevo che il mio viaggio fosse finito. Ora, solo ora, comincio a capire che questo non è vero. La mia avventura continua, in forme diverse, ma indiscutibilmente continua. Nove anni fa, nel Deserto del Sahara, stavo cercando qualcosa. Credevo di essere alla ricerca di me stesso e mi sbagliavo. Pensavo di voler raggiungere un traguardo e mi sbagliavo. Quello che cercavo non era il mio ego o un porto sicuro, ma una rotta verso quella terra per me così lontana dove abitano Amore e Speranza.
La mia malattia
Ci sono malattie con le quali è possibile vivere. Altre con cui è possibile convivere. Infine, ve ne sono alcune alle quali si può sopravvivere. La sclerosi laterale amiotrofica non rientra in nessuna di queste tre categorie, è una malattia che non lascia molto spazio di manovra e che può essere affrontata soltanto sul piano della resistenza mentale. Se, infatti, ci si confronta con essa sul piano fisico si è sconfitti in partenza. L'intelletto è l'unica risorsa che può aiutarti. Per quanto riguarda gli esempi pratici, se ne facessi uno, il lettore potrebbe apprezzarlo così come un cieco al quale è stato chiesto cosa prova nel vedere un tramonto. Scrivere una parolaMediamente, impiego 30 secondi per scrivere una parola. Questo, di fatto, significa che, per me, le parole sono una risorsa scarsa. Rispetto a quando stavo bene e potevo liberamente disporre della mia voce, il mio modo di scrivere, e, in parte, di pensare, ha subito dei cambiamenti. Trovandomi costretto a dover fare economia di parole, devo puntare con decisione a quei concetti che ho definito, per comodità, concetti conclusivi. Certo, questo modo di scrivere ha fatto perdere ai miei scritti una buona parte della loro ricchezza e complessità, tuttavia, è possibile, anche in questa condizione di restrizione della mia libertà espressiva, un vantaggio: il fatto di dover puntare al cuore di un problema, o di un tema, con il minor numero possibile di battute, mi costringe, letteralmente, ad essere chiaro con me stesso, prima ancora di esserlo con gli altri. Come un muto restituì la parola a 50 premi nobelAlcune persone, si contano sulla punta delle dita, sostengono che io sia stato strumentalizzato. A questi, rispondo che proprio io, muto, ho, in realtà, restituito la parola a 50 premi Nobel, e a centinaia di scienziati di tutto il mondo, anche loro resi muti, in Italia, dal silenzio della politica ufficiale e del sistema informativo, su temi fondamentali per la vita, la salute, la qualità della vita, e la morte, dei cittadini italiani (…). La circostanza che una persona gravemente malata, che non può camminare, che per comunicare è costretta ad utilizzare un sintetizzatore vocale, viva pienamente la propria esistenza, questa circostanza, dicevo, rischia infatti di scuotere le coscienze, le agita, le mette in discussione. Il fatto poi che io abbia sollevato una questione politica, che non abbia accettato di rappresentare un cosidetto caso umano, che abbia scelto lo strumento della lotta politica, infastidisce enormemente. Perché, in Italia, la persona malata, non appena una diagnosi le fa assumere questo nuovo status, perde immediatamente, elementari diritti umani, e tale perdita è tanto maggiore, quanto poi più gravi sono le condizioni di salute della persona in questione. La mia, la nostra battaglia radicale per la libertà di Scienza, mi ha consentito di riaffermare, in particolare, la libertà all'elettorato passivo, il poter essere cioè eletto in Parlamento, per portare istanze delle quali nessun'altra forza politica, vuole, e può essere portatrice.
La battaglia che mi ha sceltoLa battaglia radicale, alla quale sto dando spirito e corpo, è quella per le libertà, e in particolare quella di ricerca scientifica. E' una battaglia radicale che non ho scelto, così come Marco Pannella non mi ha scelto e designato alfiere, porta bandiera della libertà di Scienza. E' una battaglia radicale che mi ha, ci ha scelto. La stiamo combattendo, così come si vive un'esistenza, percorrendola, sapendo che non la si è scelta, ma che se ne può essere gli artefici nel suo divenire.
Invettiva agli ipocriti
Voglio affrontare un argomento che credo sia di un certo interesse, almeno lo è, per me. Mi sono spesso domandato quale potesse essere il significato della mia esistenza, e il contributo che avrei potuto dare a me, e ai radicali italiani. La risposta, è al tempo stesso semplice e complessa, così come, semplici e complessi, sono tutti i fatti della vita di una persona. Dopo questo lungo pippone, ho optato per un taglio conclusivo comico, in modo tale da non essere mandato a fare in culo, prima della fine, di questo mio, non breve, intervento.
In primo luogo, il significato della mia esistenza è quello di viverla, così come mi è consentito, punto e basta. Nella mia avventura radicale, la cosa più importante, che penso di essere riuscito a realizzare, è quella di aver fatto di una malattia, una occasione di rinascita, e di lotta politica. Di avere avuto la forza e il coraggio, di trasformare il mio privato in pubblico. Di avere ribadito che la persona malata è, innanzitutto persona, e come tale, ha diritto a vivere una esistenza piena, e libera, contro il senso comune e le ipocrisie quotidiane, che vorrebbero, invece, relegarci in una terra di nessuno.
Che cosa può succedere quando ci si ritrova su una sedia a rotelle e senza voce? Succede di tutto. Il silenzio si fa, però, parola, anche se, parola interiore.
Così, uscendo dall'albergo, per andare a piazza del Pantheon, mi si avvicina una signora, che, guardandomi le gambe, e non negli occhi, mi domanda se sono sordo. Non posso parlare, ma la mia voce interiore le dice, Brutta imbecille, se mi guardassi negli occhi, e non le gambe, non ti ci vorrebbe molto, a capire che ci sento benissimo, anche se non ho nessuna voglia di ascoltare le tue cazzate. Tornando in albergo, il portiere domanda a Maria Antonietta, se posso salire da solo i tre gradini, sui quali non è stata predisposta la pedana di accesso per i disabili. Ma, brutto testa di cazzo, replica la mia voce interiore, ti sembra che se potessi farlo, me ne starei seduto su una sedia a rotelle? A Milano, Vincenzo Silani, un neurologo squallido, che sta facendo di tutto, per opporsi al protocollo di studio, nel quale sono stato arruolato, incontrandomi un anno e mezzo fa, nonostante fossi il paziente più grave, mi ha ricevuto per ultimo, facendomi passare davanti, anche quei pazienti, che avevano un appuntamento successivo al mio. Una volta entrato, non sapendo ancora, chi fossi, mi ha messo nelle mani del suo assistente. Con aria scocciata mi ha poi, spiegato che non c'era niente da fare, che si trattava di una malattia incurabile, come se non lo sapessi già, e mi ha consigliato di tornarmene a casa, dal momento che, di lì a poco, non mi sarei nemmeno potuto più muovere. La mia voce interiore, gli ha risposto: grandissimo pezzo di merda, ho già sepolto uno dei medici che mi ha fatto la diagnosi infausta, e non è detto, che non riesca a sopravvivere anche a te, che con le tue parole false, stai distruggendo la speranza di migliaia di malati, che confidano nella ricerca sulle cellule staminali. La ragione per la quale, tu macellaio, ti opponi a questa sperimentazione è tremenda, non vuoi perdere le parcelle dei tuoi pazienti che, uno dopo l'altro, ti stanno abbandonando.
Ancora, questa volta a Roma, non direttamente a me, ma a Maria Antonietta, c'è qualcuno, che le chiede se posso o no, scopare. La mia voce interiore, risponde, nuovamente: la sclerosi laterale amiotrofica colpisce la muscolatura volontaria, e non le funzioni sessuali. Certo, non posso fare tutte le posizioni del Kamasutra, ma un po' me la cavo anche io, brutto imbecille! La scorsa settimana, mi sono recato in una sanitaria per ordinare la mia nuova sedia a rotelle, quella con il supporto per la testa. Lì, ho incontrato il marito di una malata di sclerosi laterale amiotrofica, che rivolgendosi, chiaramente, sempre a Maria Antonietta, mi ha detto: poverino, non è che al partito ti fanno strapazzare troppo? E quando sei stanco, come fai? La mia voce interiore gli ha risposto: primo, poverino un pezzo di cazzo! Secondo, sono io ad avere deciso di strapazzarmi , non gli altri per me. Terzo, siccome, sono sempre molto stanco, tanto vale dare un senso politico a questa stanchezza. Quarto, nonostante tua moglie sia malata come me, non hai capito minimamente, che tutto quello che sto facendo è anche per lei, e non solo per me. Ma va a fan culo! C'è però, una cosa, che non mi è stata mai detta direttamente: povero andicappato, sei stato strumentalizzato. Il motivo è semplice. La mia voce interiore avrebbe chiamato il mio avvocato, trasformandosi in un messaggio di posta elettronica, per far partire una denuncia per diffamazione. Si sa, il 99 per cento delle persone è senza coglioni, e quando si tratta di affrontarsi a viso aperto, gli occhi puntati negli occhi, non ce la fa proprio, e allora abbassa lo sguardo. Noi che non possiamo aspettareC'era un tempo per i miracoli della fede. C'è un tempo per i miracoli della Scienza. Un giorno, il mio medico potrà, lo spero, dirmi: Prova ad alzarti, perché forse cammini.
Ma, non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo.
E, tra una lacrima ed un sorriso, le nostre dure esistenze non hanno certo bisogno degli anatemi dei fondamentalisti religiosi, ma del silenzio della libertà, che è democrazia. Le nostre esistenze hanno bisogno di una cura, di una cura per corpi e spiriti.Le nostre esistenze hanno bisogno di libertà per la ricerca scientifica. Ma, non possono aspettare.Non possono aspettare le scuse di uno dei prossimi Papi.
Luca Coscioni



Piero a pesca

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Intervento di Piero Welby al congresso straordinario dell'associazione Luca Coscioni
Aprile 2006
http://www.radioradicale.it/modules/archivio/playmedia.php?IdIntervento=1976271&m=

mercoledì, settembre 27, 2006

articolo

Da Repubblica di oggi
Spagna, parla la donna che preparò il cianuro per l’amico: dalla loro storia il film premio Oscar “Mare dentro”
“Così ho aiutato Ramon a morire. Non mi pento, lo rifarei mille volte”.
Madrid- Sono passati otto anni da quel tragico epilogo ripreso da una piccola telecamera, ma quando parla di ramòn Sampedro, del “suo” Ramon, la voce di Ramona “Moncha” Maniero si carica ancora di emozioni e di rimpianti. Che però non lasciano il minimo spazio al dubbio:”Sono molto orgogliosa, lo rifarei altre mille volte”, dice al telefono dalla sua casa di Puebla del Caraminal, un paesino in riva al mare, nella provincia di la Coruna. Fu dalla sua mano che il tetraplegico galiziano ricevette il bicchiere con il cianuro che gli consentì di mettere fine a quasi trent’anni di sofferenze. Un delitto, per la legge spagnola, che Ramona si decise a confessare quando orami era andato in prescrizione, prima con un’intervista-choc a un programma televisivo, poi con la pubblicazione di un libro, “Caro Ramòn”, che racconta i dettagli della vicenda, fino all’agonia del protagonista, rappresentata sugli schermi cinematografici dal film di Alejandro Amenàbar “Mare dentro”, premiato due anni fa con l’Oscar.
La stampa spagnola riferisce in questi giorni il caso di Piergiorgio welby, e Ramona non può fare a meno di rivivere quella storia che le cambiò la vita. "Sì, ho visto, trent’anni immobilizzato a un letto, proprio come Ramòn. E terribile. Spero davvero che parlarne possa servire a qualcosa, a mobilitare le coscienze"

Quando lei conobbe Ramòn Sampedro, il suo era già un caso nazionale. Che cosa la spinse a cercare questo incontro?
Già prima di allora mi ero occupata dell’eutanasia: Avevo seguito con grande commozione il caso dell’attrice madrilena Susan Hernàndez, delle sue sofferenze e del suo desiderio di poter mettere fine ad una vita che non aveva più senso. Quel che richiamava la mia attenzione era proprio questo: sapere che ci sono persone che non sono più in grado di sopportare la sofferenza, ma si trovano in uno stato in cui non potrebbero, neppure se volessero, suicidarsi. Sapevo che Ramòn abitava vicino a casa mia, avevo la curiosità di conoscere, di capire come si vive in quelle condizioni>>.
L’incontro andò come lei si immaginava?
No, tutt’altro. Andai a trovarlo con un’amica. Con un po’ di paura, devo confessare. Era un signore maturo che desiderava morire. Ma dal primo momento, appena mi saluta saltano tutti gli schemi. Lo vedevo subito dal suo sguardo, dal suo sorriso. Scopro che è un lottatore, un gran signore. Un personaggio meraviglioso.
Non era sospettosa davanti al desiderio della gente di conoscerlo?
Sì, parecchio. C’erano molte donne che si avvicinavano a lui, ma lo facevano solo con l’intenzione di proteggerlo da se stesso. E cioè di convincerlo a rinunciare al proposito di mettere fine alla sua vita. Per questo, sin dalla prima volta andò direttamente al sodo:”Voi mi aiutereste a morire?”, mi chiese.
Quale fu la sua risposta?
Io ero d’accordo, ma non era una risposta che gli potessi dare in quel momento. Quello sì sarebbe stato un omicidio. Dovevo sapere di più, conoscerlo meglio, capire se davvero fosse quella l’unica soluzione.
E fu così che cominciò a frequentarlo, con sempre maggiore intensità.
Non potevo davvero immaginare. In poco tempèo nacquero altri sentimenti, mi innamorai di lui. Conobbi un grande Ramòn, una gran persona. Un uomo che voleva essere libero e non poteva esserlo. Lui voleva che si legalizzasse l’eutanasia, non poterla utilizzare subito, ma poter scegliere il momento opportuno. Aveva paura di ammalarsi ancor di più e di ritrovarsi in una condizione che gli impedisse qualsiasi capacità di muoversi e di prendere una decisione.
Non voleva morire subito, però a lei chiese di aiutarlo a morire.
Ramòn decise di accelerare il processo del suo congedo da questa vita per altri problemi, per cose molto brutte che non sono state ancora raccontate. Me ne parlava in una lettera, l’ultima che mi fece avere, ma non ne rileverò il contenuto per rispetto alla sua memoria.
Lei si innamorò, ma per rispettare la sua volontà, dovette compiere il gesto fatale che mise fine alla vostra unione,. Deve essere stato terribile…
Da Ramòn ho appreso molte cose. Non abbiamo avuto molto tempo, però è stato sufficiente per sapere quello che volevamo l’uno dall’altro. Nonostante chiedesse per sé la morte, voleva che la gente lottasse per la vita. Era il primo a darti la forza di andare avanti, con la sua ironia, con il suo carattere forte. Se avessi la tua età e la tua salute, mi diceva, mi mangerei il mondo.

Piero Welby

Una storia semplice

Nel 1963 mi fu diagnosticata una forma di distrofia muscolare progressiva. Le conoscenze sull’evoluzione di questa patologia erano molto approssimative. Inizia il solito pellegrinaggio alla ricerca di una cura ed infine vi è la “sentenza” di un luminare: “Non supererà i venti anni”. Lascio gli studi e, seguendo la corrente del sessantotto, giro l’Europa negli anni che vanno dal 1969 al 1971. Non muoio, ma la malattia si aggrava. L’uso di sostanze stupefacenti mi aiuta a dimenticare. Nel frattempo dipingo, leggo, scrivo, e do ripetizioni. Negli anni ’80 vi è un ulteriore aggravamento; tento la disintossicazione col metadone. La disintossicazione ha luogo, ma non posso più camminare. Mi sposo e aspetto la fine: non arriva; collaboro alla stesura di tre tesi di laurea. Altro aggravamento: insufficienza respiratoria; è l’ultimo stadio della distrofia. Chiedo alla mia compagna di non ricoverarmi per non essere costretto alla respirazione assistita. Perdo i sensi, vado in coma. Mi risveglio nella rianimazione del Santo Spirito. Ultimo round: tracheostomizzato, alimentato da un Sondino Naso Gaastrico, ventilato da un respiratore Eole 3xO. Aspetto e scrivo le ultime pagine del Mein Kampf. Auspico che vi sia la legalizzazione del Testamento Biologico ed una legge sull’eutanasia.
Piergiorgio Welby

(scritto di due/tre anni fa)

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sabato, settembre 23, 2006

La risposta del Presidente Napolitano

Caro Welby,
ho ascoltato e letto con profonda partecipazione emotiva l'appello che lei ha voluto pubblicamente rivolgermi. Ne sono stato toccato e colpito come persona e come Presidente.
Lei ha mostrato piena comprensione della natura e dei limiti del ruolo che il Parlamento mi ha chiamato ad assolvere, secondo il dettato e lo spirito della nostra Costituzione.

Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un'occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più.

Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l'elusione di ogni responsabile chiarimento. Con sentimenti di rinnovata partecipazione,
Giorgio Napolitano

Il mio amico Piero