martedì, novembre 25, 2008

Intervista a Mina


«Separarmi da Piergiorgio è stato duro, per amore ho accettato la sua volontà»

da Il Messaggero del 18 novembre

«Sapevo quali sarebbero stati il giorno e l’ora della sua morte. Me l’avevano detto i medici. Fino all’ultimo, in cuor mio, ho sperato che Piergiorgio ci ripensasse. Per me era difficile lasciarlo andare, non riuscivo a pensare la mia vita senza la sua compagnia. Ma lui aveva scelto e io, per amore, non potevo che accettare le sue volontà».
Mina Welby ha amato suo marito Piergiorgio per quasi trent’anni. Dal 1978 al 2006 quando lui, malato di distrofia muscolare, ha deciso di farsi "staccare la spina" e lasciarsi morire. Dunque lei, signora, non era d’accordo con la scelta di suo marito?
«Avrei preferito andare avanti così come stava anche se mi rendevo conto che lui non ce la faceva più. Ma l’amore per lui mi ha fatto sempre accettare il suo pensiero».
Ha provato a convincerlo a desistere?
«Ho fatto tutto con lui, ho inventato tutto per continuare ad andare avanti superando gli ostacoli che ogni giorno la malattia progressiva ci proponeva. Durante l’ultima settimana gli ho detto: "Non so più che cosa inventarmi!". E lui: "Non c’è più nulla da inventare, hai già fatto tutto". E lì ho capito che non voleva tornare indietro sulle sue decisioni». A quel punto come ha fatto ad accettare, a vivere con il dolore e a stare accanto a lui fino alla fine? «Per amore, solo per amore. Alcuni giorni prima della morte programmata mi passò per la mente di chiamare i carabinieri. Di parlare, di fermare tutto. Poi, in un momento, mi resi conto che gli avrei fatto un oltraggio. Che era puro egoismo. Mi dissi: "Che scema che sei!Fermati"».
Glielo ha fatto capire?
«No, assolutamente no. Non ho voluto mai ostacolarlo. In nome della nostra complicità e della nostra storia. Ho rispettato la dolcezza e l’attenzione che lui ha sempre, avuto per me».
A che cosa si riferisce?
«Finché ha potuto ha minimizzato la sua malattia ai miei occhi. Mi ha confusa, mi ha sempre nascosto quanto stesse male. Fino alla fine, quando non riusciva più a scrivere e a concentrarsi. Fino alla fine con estrema dignità, voleva che gli si facesse la barba, voleva scegliere i vestiti. Non riceveva mai le persone a letto, ma solo in carrozzina».
Quando le ha confessato la sua decisione?
«L’ho capito da tante piccole cose. Dal Belgio vennero a visitarlo alcuni medici, mi resi conto che in quel momento, con lui, potevano decidere qualcosa...». Le parlava della morte? «Negli anni prima non ne parlava mai, Piergiorgio era un inno alla vita. Ad un certo momento ha sperato, sono convinta, che io capissi».
E lei non ha voluto capire?
«Io fatto finta per un po’. Poi ho accettato in nome del nostro grande amore. Sempre, in tutti questi anni. Un giorno mi disse: "Non ti rendi conto come sto? Rischiamo di non capirci più..."». E lei a quel punto è riuscita a sedare il dolore, a mandare via la rabbia e a mettersi da parte per lasciare spazio alle volontà di Piergiorgio? «Ci sono riuscita senza rabbia e senza rammarico. Per lui è stato un sollievo, per me è stata la fine del lutto».
Il lutto era finito? In realtà, iniziava il distacco.
«Per me il lutto è finito quando Piergiorgio ha finito di soffrire. Poi è iniziato un doloroso distacco che ho riempito andando a rileggere e studiare tutto quello che Piergiorgio ha scritto sull’eutanasia e il testamento biologico. Per questo lotto perché questo paese abbia una legge proprio sul testamento biologico. Ora capisco quale era il suo pensiero da molti anni».
Ma non glielo aveva confidato?
«No, finché ha potuto no. Per non darmi un dolore».
Pensava che lei lo avrebbe voluto far desistere?
«Non lo so. Certo è che abbiamo sempre fatto tutto insieme, per gli ultimi quadri che ha dipinto ero io che spostavo la tela sotto il pennello. Tanto che uno l’ha firmato con il mio nome. Sapeva che, qualsiasi cosa lui avrebbe deciso su di sè, io lo avrei accettato. Fidava nella nostra eterna complicità».

venerdì, novembre 14, 2008

Tristi e consolati

"La Repubblica", 14 NOVEMBRE
ADRIANO SOFRI
Una sentenza, davvero definitiva, ci rende tristi e consolati. Tristi, perché pronuncia la sua decisiva e superflua parola, la penultima parola, sull´irruzione intrattabile della disgrazia nella vita di una persona, dei suoi cari, della sua comunità. Consolati, perché rifiuta di piegare la legge alla sopraffazione dell´amore. Niente era detto una volta per tutte in questa vicissitudine, salva una cosa, la più importante: da che parte stesse l´amore. Ancora una volta, una gran parte della gerarchia della Chiesa e dei suoi paladini laici ha mostrato dietro l´oltranza della difesa della vita una mancanza di amore per le persone. Per questo, mi pare, alcune voci prestigiose di quelle stessa gerarchia hanno scelto una discreta differenza, scambiata dai loro avversari come un cedimento al relativismo o addirittura come un sacrilegio. In questa lunghissima agonia, alcuni di noi hanno detto: Con tutto il rispetto per Beppino Englaro, stiamo dalla parte della Chiesa. Altri di noi hanno detto: Con tutto il rispetto per la Chiesa, stiamo dalla parte di Beppino Englaro. E´ stato impressionante vedere quale enorme potenza si misurasse con un uomo solo come lui - solo, con sua moglie e sua figlia, e l´obbligo d´amore verso di lei. Ogni pronunciamento di quella potenza competente per definizione a ciò che è buono e sacro sembrava, più che abbatterlo, passargli sopra e oltre, come a un minimo incidente. "La Chiesa non fa che ribadire l´immutabilità dei suoi principii". Ma i principii che travolgono la singolarità delle persone e delle loro pene possono diventare terribili, summa iniuria. In questi giorni, di fronte all´accanimento retorico sul destino di Eluana, non ho potuto fare a meno di pensare alla questione così tragicamente esacerbata del silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah: il silenzio di fronte allo sterminio di milioni, una tempesta di tuoni addosso al signor Beppino Englaro. Non so come lui non sia impazzito, e forse lo è: ma è un fatto che la sua spropositata solitudine e piccolezza gli ha fatto crescere attorno, al di là della battaglia per un riconoscimento di diritto della sua buona ragione, la solidarietà affettuosa di una comunità civile. Niente di politico, o di ideologico: ma il trasporto di persone via via più decise a mettersi nei suoi panni, a immaginarsi lui o sua moglie - e anche a immaginarsi Eluana. Questa immedesimazione non significa affatto una scelta univoca: stare sempre in favore della sospensione delle cure o dell´alimentazione artificiale, o stare sempre contro. Significa sperare di essere liberi di sé, poter contare sul proprio vero prossimo, non essere espropriati della propria vita e della propria morte. Alla legge, bisogna chiedere di aiutare l´umanità, non di schiacciarla. Genitori che si trovino nella condizione di Beppino e Saturna Englaro, e vogliano assicurare comunque alla propria creatura ogni cura possibile e nell´ambiente più confortevole, devono essere aiutati a farlo. Viva la Casa dei risvegli, che certo non vuol diventare obbligatoria. Persone che, per sé o per i propri cari, vogliano sperare oltre e contro la speranza, devono essere libere di farlo. Così come chi veda che la speranza è impossibile, e voglia adempiere a quella che conobbe provatamente e intimamente come la volontà della persona che ama. Quando leggo documenti come il recente parere definitivo del Comitato di bioetica sul "Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico" e le sue "postille", sono colpito dagli equilibrismi sintattici e lessicali, e mi dico che è inevitabile di fronte a ciò che deve mettere assieme esattezza rigorosa e duttile mediazione. Ma resto interdetto quando sento che non esiste un diritto di morire, ma tutt´al più una libertà di morire. La morale si fa leguleia, il diritto si fa moralista. Noi umani siamo i mortali, siamo condannati a morire. Ma siamo anche liberi di morire. Senza di che saremmo solo condannati a vivere - è questa condanna che l´integrismo religioso chiama "dono", così da proibircene il rifiuto. Posso vivere solo se posso morire, e vivo perché decido di non morire, fino a quando non sia piuttosto la morte a promettersi come una liberazione. Vita e salute sono bensì diritti indisponibili, ma non per ciascuna persona che vive e sta bene e sta male. La peggiore delle tirannidi non è quella che uccide i suoi sudditi: è quella che arriva a impedire loro perfino di uccidersi. Una violenza simile non ha bisogno di una dittatura totalitaria per insinuarsi. Sono stato nutrito da una alimentazione enterale prolungata, che mi ha restituito alla coscienza. Se immaginassi di trovarmi in una condizione irreversibile di incoscienza e di essere alimentato artificialmente per anni - diciassette anni, Eluana - senza che qualcuno potesse liberare, con me, chi mi vuole bene, impazzirei. Questo è quello che pensa e sente un´enorme maggioranza di cittadini: quando è stata la volta di Welby e del suo funerale, o del signor Englaro e della sua domanda alla giustizia. Domanda eroica e spaventosa, perché non è detto che ciò che si fa per amore possa sempre esser fatto per legge. Voglio dire una cosa: che la larga maggioranza di cittadini italiani, di persone, che sta oggi dalla parte dei signori Englaro, non basta ad avere ragione. Le maggioranze, anche e specialmente quelle schiaccianti, possono avere il peggiore dei torti, e farsene forti. E la Chiesa che dice enormità così impopolari e scandalose può, proprio per questo, avere ragione. Bisogna prendere sul serio qualcuno che non esita ad ammonire che da oggi in Italia è in vigore la pena di morte, e per giunta solo per le creature inermi e "inutili". Qualcuno che si spinge a testimoniare che la Suprema Corte a Sezioni Unite è un´accolita di assassini legali. (Mai parole così dure furono pronunciate contro la vera pena di morte, nemmeno quando il Vangelo è lì a suggerirle, nemmeno per la quotidiana lapidazione dell´adultera). Questa insopportabile invadenza sarebbe la più ammirevole e benvenuta, se avesse ragione. Magari fosse praticata con una simile intransigenza contro le tirannidi terrene. Ma non ha ragione. Chiama morte per fame e sete la sospensione di una terapia complessa come l´alimentazione artificiale in uno stato vegetativo senza ritorno. Chiama condanna capitale il desiderio di lasciare andare una vita che si sarebbe spenta da tanto tempo. Chiama fedeltà ai principii il rifiuto di misurarsi con le vicende singolari, e rigore morale il disprezzo per il dolore e la pietà delle persone. A me non pare che la Cassazione abbia autorizzato il tutore di Eluana, suo padre, a interromperne l´alimentazione malamente detta forzata: mi pare piuttosto che si sia astenuta dal vietarglielo. Che abbia così riconosciuto, come avevano fatto prima altre corti di ogni grado, e la stessa corte suprema, che la sospensione delle terapie nel caso di Eluana, di una sua documentata e circostanziata manifestazione di volontà, e di un suo stato irreversibile, era autorizzata dalle leggi vigenti, e dalla stessa Costituzione. La sentenza è stata accolta ieri da molte parole durissime, e alcune furibonde. Persone davvero convinte che non si tratti di interrompere un lunghissimo accanimento terapeutico, bensì di compiere un omicidio - è impressionante che un confine così sottile separi due ipotesi così smisurate - hanno ogni diritto di dirlo con tutto il fiato di cui dispongono. E´ importante il modo. L´altroieri ho letto sull´Avvenire un editoriale di un autore intelligente e profondo, tutto imperniato sulla dichiarazione che la sentenza della Cassazione, rigettando il ricorso, avrebbe sancito esattamente l´introduzione della pena di morte nella repubblica italiana. Lo scrittore trovava incomprensibile l´accanirsi del padre di Eluana "non affinché le cure e la pazienza di altri sopportino le pene e le premure, bensì per la sua morte", e qui si lasciava sfuggire questa frase: "Per toglierla di torno". Ho provato un brivido. Spero che voglia ripensarci. Quelle parole, che davvero mi auguro sfuggite, mostrano per eccesso di che cosa si tratta oggi: della differenza fra chi pensa che il signor Englaro voglia "toglierla di torno", e chi pensa che voglia finalmente adempiere al voto della sua meravigliosa ragazza. Con un pensiero ulteriore e secondario, che tuttavia in tanti devono aver pensato: che cosa, se non l´attaccamento strenuo a quel retaggio, abbia permesso finora a quest´uomo solo di non togliersi di torno.

mercoledì, novembre 12, 2008

Il nuovo potere temporale

da La Repubblica del 12 novembre 2008

di Stefano Rodotà

Di fronte ai segni di un possibile rafforzarsi delle politiche dei diritti la Chiesa interviene con durezza e con un tempismo preoccupante. I giudici della Corte di cassazione sono in camera di consiglio per discutere il ricorso del Procuratore generale di Milano contro il provvedimento che ha autorizzato l’interruzione dei trattamenti per Eluana Englaro. Nello stesso momento il cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la salute, afferma che saremmo di fronte a "una mostruosità disumana e un assassinio". Lo stesso cardinale ha "espresso preoccupazione" per l’annuncio secondo il quale il nuovo Presidente degli Stati Uniti si accinge a revocare il divieto, imposto da Bush, di finanziamenti federali alle ricerche sulle cellule staminali embrionali, sostenendo che "non servono a nulla".

Colpisce, in questi interventi, una aggressività di linguaggio che nega ogni legittimità alle posizioni altrui, presentate in modo caricaturale e criticate con toni sprezzanti e truculenti. Questo atteggiamento, nel caso della Corte di cassazione, si traduce in una assoluta mancanza di rispetto per le istituzioni della Repubblica italiana da parte di un "ministro" di uno Stato estero. Si interviene proprio nel momento in cui la più alta magistratura sta decidendo su una questione della più grande rilevanza umana e sociale, sì che massimi dovrebbero essere il silenzio e il rispetto. Che cosa sarebbe successo se, in una situazione analoga, un qualsiasi governo straniero avesse definito "assassino" un giudice italiano per una sua possibile decisione?

Conosciamo la risposta. La Chiesa agisce nell’esercizio della sua potestà spirituale, dunque ad essa non sono applicabili categorie che riguardano la sfera della politica. Ma, per il modo in cui ormai ordinariamente agisce, la Chiesa si è costituita proprio in soggetto politico, pratica un nuovo "temporalismo", pretende un potere di governo sociale che cancella il principio che vuole lo Stato e la Chiesa, "ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani" (articolo 7 della Costituzione). Due parti autonome e distinte, dunque. E questo, lo espresse con parole chiare e misurate Giuseppe Dossetti all’Assemblea costituente, vuol dire che "nessuna di esse delega o attribuisce poteri all’altra o può, per contro, in qualsiasi modo, divenire strumento dell’altra". Nel mentre esercita il suo potere di fare giustizia, lo Stato italiano ha diritto di pretendere che siano rispettate la sua indipendenza e la sua sovranità perché, in un caso come questo, così vuole la sua Costituzione. Siamo, dunque, di fronte ad una violazione grave che, in governanti forniti di un minimo senso dello Stato, avrebbe dovuto determinare una immediata e ferma risposta.

Se, guardando al di là di questo fondamentale aspetto di politica costituzionale, si considerano le argomentazioni adoperate, lo sconcerto, se possibile, cresce. Nulla del dibattito scientifico sull’idratazione e l’alimentazione forzata è degnato di una pur minima attenzione dalla posizione vaticana. Si tace colpevolmente dei risultati di una commissione istituita da Umberto Veronesi quand’era ministro; delle pazienti spiegazioni mille volte date da Ignazio Marino, mostrando come non corrisponda alla realtà clinica la rappresentazione di una "terribile morte per fame e per sete"; delle opinioni espresse, in tutto il mondo, da autorevoli studiosi. Vi è solo una invettiva, nella quale è vano scorgere le ragioni della fede e, dove, invece, compare un sommo disprezzo per l’intelligenza delle persone, evidentemente considerate del tutto ignoranti, incapaci di trovare le informazioni corrette in materie così importanti.

Non diversa è la linea argomentativa (si fa per dire) della critica a Obama, per l’annunciata volontà di consentire il finanziamento delle ricerche sulle cellule staminali embrionali confondi federali. Cito solo una frase pronunciata ieri dal cardinale Barragan. "Gli scienziati lo dicono chiaramente: fino adesso le cellule staminali embrionali non servono a nulla e finora non c’è mai stata una guarigione". Ma la ricerca scientifica serve appunto a far avanzare le conoscenze, a scoprire opportunità fino a ieri sconosciute, a far diventare utile quel che ieri non lo era, a lavorare perché siano possibili guarigioni oggi fuori della nostra portata. Proprio per questo gli scienziati fanno esattamente l’opposto di quel che ci comunica il cardinale. Ricercano intensamente, esplorano nuove strade, ricevono finanziamenti dall’Unione europea ed è bene che li ricevano anche dall’amministrazione americana, perché la ricerca finanziata da fondi pubblici è più libera, sottratta ai possibili condizionamenti del finanziamento privato (chi vuole informarsi ricorra al recentissimo libro di Armando Massarenti, Staminalia, Guanda, Parma 2008).

Scrivo queste righe con gran pena. Conosco e pratico un mondo cattolico diverso, anche nelle sue gerarchie, aperto al mondo e ai suoi drammi, che accompagna con intelligenza e cristiana pietà. E’ questo il mondo che può darci il necessario dialogo, negato ieri da una cieca e inaccettabile chiusura.

martedì, novembre 11, 2008

Il Paese del demerito

"La Repubblica" 4 novembre
ADRIANO SOFRI
C´è una ribellione di giovani o una congiura di baroni? Non c´è più morale, contessa. L´altro giorno a Firenze, verso la testa di un corteo enorme e tuttavia bello e sparpagliatissimo, c´era una fila di ragazze, e un solo ragazzo, pistoiesi, che portava uno striscione bianco con su scritto: "Anche l´operaio vuole il figlio dottore". Non so quanti, fra le decine di migliaia di sfilanti, sapessero riconoscere la citazione (dalla canzone: Contessa, Paolo Pietrangeli, 1968, rinnovata dai Modena City Ramblers, 1994). Ma l´importante è che l´esclamazione, che all´epoca scandalizzava le contesse, vada ancora bene, anzi forse oggi più di ieri. Perché oggi la giostra si è fermata, ed è già un colpo di fortuna se il figlio dell´operaio riesce a diventare operaio. C´entra la crisi economica, sì, ma non solo. E´ questione culturale, come si dice. Se no non si spiegherebbe come mai, anche in tempi grassi, la democrazia occidentale si sia andata fissando in vere e proprie dinastie. Si è badato troppo poco, nelle facoltà politologiche, alla fortunata successione ereditaria fra Bush padre e Bush figlio, o a quella sfiorata fra Clinton marito e Clinton moglie. E già prima ai Kennedy, descritti da quel titolo ambivalente di clan. La successione dinastica, specialmente se combinata col petrolio, come per i Bush, avvicina caricaturalmente gli Stati Uniti all´Arabia Saudita, benché non viceversa. Ora Obama, che la sua vera partita l´ha vinta quando ha fatto fuori Hillary, è il campione senza precedenti della mobilità sociale, l´americano che si è fatto da sé, partendo dal punto più inverosimile. Come un corteo di ragazzi di Chicago o di Nairobi con uno striscione che dica: "Anche il pastore di capre keniota vuole il figlio presidente degli Stati Uniti". Sto infatti suggerendo una stretta analogia fra la corsa degli studenti italiani e quella di Obama alla Presidenza. Non vi sembri troppo. E´ il minimo. Prima vorrei rivolgere un saluto reverente all´aristocrazia di un tempo. Gran bontà dei cavalieri antichi, Noi fummo i gattopardi e ora verranno le jene, eccetera. Anche tra gli operai si riconobbe un´aristocrazia. Si andava orgogliosi del mestiere che si tramandava di padre in figlio: "mio nonno era falegname, mio padre anche, e io sono falegname". Anche in America, anche i becchini. Alla fine di "Everyman" di Philip Roth un nero scava una fossa. "Ci vuole un´oretta. E´ la parte più difficile del lavoro. Una volta fatto questo, scavo. Prima scavo. Dove il terreno è più duro scava mio figlio, che è più forte di me. Lui comincia quando ho finito io". Il figlio del farmacista, nonostante i decreti Bersani, fa il farmacista. Ma all´inizio del marzo scorso è morto sul lavoro a Genova un portuale: era figlio di un portuale morto sul lavoro. L´aristocrazia cercò o pretese di essere il governo dei migliori. Oggi promozione e cooptazione sociale selezionano i peggiori, con sempre maggior precisione, quanto più si abbassa il livello. Nessuno sa riconoscere a prima vista i peggiori come i peggiori, e farli salire. E´ un luogo comune per la politica, alla quale si è assegnato il nome di casta, ma è vero per tutti gli ordini costituiti e le corporazioni. E´ peculiarmente vero per mafia e camorra: il figlio del boss diventa boss, un po´ più fesso, un po´ più farabutto. Le mafie sono del resto l´esaltazione della "famiglia". Per la politica la cosa fa più impressione, perché una volta il ricambio della classe dirigente e gli "uomini nuovi" venivano attraverso i partiti, l´ideologia, i programmi. Bisognava magari essere servili, ma saperci fare. Oggi partitocrazia e plutocrazia (parola già impronunciabile, ma l´etimologia e la Borsa la riabilitano) promuovono uomini (e donne) nuovi e subito guadagni grazie al populismo, cioè alla demagogia. Si può partire da una speculazione edilizia, o da un trimestre prestato come guardia del corpo. La coincidenza fra politica e patrimonii spinge a garantirsi col vincolo di sangue. E anche la volontà di tutelare la purezza di creature politiche allevate a fideismo identitario. Non dev´essere sempre facile la vita del giovane Bossi. E´ la meritocrazia, alla rovescia. Si dice meritocrazia, si legge demeritocrazia. La legge elettorale le si adegua a perfezione. E´ vietato l´ingresso ai meritevoli e ai cani. La destra – che un tempo si voleva élitaria – ne vive. La sinistra ne muore. Niente di personale, ma la giovane candida candidata in cima di lista (dunque eletta) in Sicilia perché figlia, il cui curriculum si esauriva nel ricordo di una festa in cui a cinque anni aveva sventolato la bandiera democristiana, non fu un grande episodio. Me ne sono ricordato giorni fa, leggendo del ventenne rumeno, in carcere per truffa hackerista, che si è classificato primo ai test di ingresso al Politecnico di Milano. Ecco uno troppo svelto: lo aspetta l´America. Oggi gli "uomini nuovi" sono sempre più spesso mezzo stranieri, come Obama, o l´imperatore Adriano, e donne, cioè mezzo straniere comunque. Nella scuola la rotta è diventata madornale, tanto più se si ricordi che cosa davvero successe al tempo che chiamano il Sessantotto. I baroni lo pagarono caro. Il miglior ´68, semplicemente, non scambiava il merito con la meritocrazia, cioè con la gara a calpestare gli altri. Poi toccò anche a lui la selezione alla rovescia e il premio del baronato. Si diventa baroni quasi impercettibilmente, e senza colpa, come si mette su la pancia. La Lettera di don Milani è la vendetta per Gianni, che a scuola non va perché già lavora a Vicchio del Mugello, contro Pierino figlio del dottore. Pasolini era l´ultimo a crederci davvero, alla "brutta" poesia su Valle Giulia, che scrisse solo per sbrigarsi a scusarsene, e nel ´68 figli di papà ce n´erano davvero tanti, ma se ne andarono da casa, e non sono pochi quelli che non ci sono più tornati. La dinastia più regale d´Italia era quella degli Agnelli, ed ebbe il suo Edoardo. Perciò capita di rimpiangere le prime repubbliche durante le terze, e l´aristocrazia nelle file plebee al casting di Canale 5. La nobiltà trovava regole dure per i secondogeniti, il nepotismo dei primari piazza anche il quintogenito. Ora sentiamo com´è andata con Obama. E poi stiamo a vedere come andrà coi nostri studenti e ricercatori di ogni ordine. Non è detto, ma strada facendo possono anche trovarsi una terza via, cioè una via maestra, fra avventura populista e nepotismo baronale. Reinventare i concorsi, e restaurare un´idea della democrazia come società aperta. Questa democrazia chiusa della dismisura spinge alcuni molto in alto, e schiaccia altri a terra. Scuola e università sono, dopo la presidenza degli Stati Uniti, i luoghi in cui il meccanismo può essere rovesciato. Sarebbe un gran bel risultato. Poi, anche i dottori potrebbero tornare fieri dei loro padri operai, e viceversa.