giovedì, febbraio 26, 2009

La Piccola posta di oggi l'ho ceduta a uno che sa di che cosa parla.

Adriano Sofri

Piccola posta di giovedì 26 febbraio

“La proposta afferma che il rifiuto all’idratazione e alla nutrizione artificiale non può essere inserito nelle dichiarazioni anticipate. Questo perché sono considerate forme di sostegno vitale finalizzate ad alleviare le sofferenze. A parte il fatto che non è vero: in molti pazienti terminali affetti da tumore un’idratazione corretta sarebbe fonte di ulteriore sofferenza. Ma perché se siamo lucidi possiamo rifiutare cibo e acqua, mentre se siamo affetti da una malattia che ci toglie la possibilità di esprimerci allora perdiamo pure questo diritto? La legge afferma che la vita è inviolabile e che quindi nelle dichiarazioni non può essere data indicazione all’eutanasia, ma senza definirla. E questo è pericoloso. Molti affermano che rinunciare a un trattamento salvavita è eutanasia, negando l’articolo 32 della costituzione. Ma allora, su cosa potremo pronunciarci? Io non vorrei mai finire la mia esistenza in stato vegetativo. Perché la società dovrebbe obbligarmi a questo? Il nostro ordinamento stabilisce i diritti e doveri che abbiamo nei confronti degli altri. Non entra nell’intimo rapporto che ognuno ha nei confronti di se stesso. Il tentato suicidio non è reato in Italia. La Costituzione vieta la tortura ma l’autoflagellazione o il cilicio non sono reato. Io mi batterei fino in fondo affinché un mio concittadino ammalato che desideri andare avanti con tutti i trattamenti possibili (ventilazione, nutrizione, dialisi e quant’altro) possa riceverli gratuitamente dalla società. Ma mi batterò fino in fondo affinché la stessa società non imponga a nessuno un trattamento che questi non voglia ricevere, in qualsiasi condizione egli si trovi”.
Guido Bertolini. Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Ranica (Bergamo).

venerdì, febbraio 20, 2009

Ascoltate Paolo VI

di Luigi Manconi - da "Europa"

Intervistata dal “Giornale”, la senatrice Dorina Bianchi ha affermato che la vita umana appartiene «ai cittadini e alla collettività». La risposta è stata evidentemente equivocata (vedi che succede a non farsi rileggere le interviste, specie quelle su temi tanto delicati), perché non può esser stata Bianchi a offrire una risposta così “sovietica” (come direbbe il presidente del consiglio). Cosa vuol dire, infatti, che della vita umana può disporre «la collettività»? Se si intende che alle decisioni relative alle scelte di fine vita del soggetto possano concorrere il sistema di relazioni, la rete familiare, i mondi vitali, la comunità della quale si è parte, sono interamente d’accordo.
Ma nel caso più controverso, quello di Eluana Englaro, la sola comunità che potesse venire considerata sua era quella rappresentata dai suoi genitori. E la scelta di questi è stata limpida e inequivocabile. Dunque da rispettare incondizionatamente. Oppure – ma non posso credere che questo sia il pensiero di Dorina Bianchi – la “collettività richiamata è quella rappresentata dalle istituzioni dello Stato (il Parlamento e le sue leggi).
L’intera cultura cattolica su questo punto è – dovrebbe essere – univoca nell’affermare il primato della persona. E’ questo il nodo cruciale. E infatti rispetto a scelte fondamentali, è pacifico che la decisione individuale si confronti e si integri, quando possibile, con la decisione di più soggetti: ma questi ultimi devono essere parte di un’esperienza condivisa (quale quella familiare, ad esempio).
Ma nel caso di una contrattazione tra persona e “collettività” (compresa quella familiare) così come nel caso di conflitto aperto tra stato e persona, è giusto che sia la volontà di quest’ultima, infine, a prevalere. Anche se tale scelta può turbare, anche se entra in conflitto con i nostri più profondi convincimenti. Se, dunque, è auspicabile che “nessuno sia lasciato solo” e che la decisione ultima sia l’esito di scelte condivise all’interno della vita di relazione, può accadere che ciò non sia possibile: e in tal caso, non riesco ad immaginare altri cui affidare quella decisione estrema e dolorosa, se non in diretto interessato.
D’altra parte, quando leggo le prese di posizione di molti parlamentari cattolici del PD che si dichiarano favorevoli alla legge della maggioranza sul testamento biologico, mi chiedo perché mai – a parte rarissime eccezioni – l’orientamento di quei parlamentari tende a coincidere con quello di Camillo Ruini e non con quello, per esempio, di Giovanni Reale e di Vittorio Possenti, di monsignor Casale e di Vito Mancuso. Questi ultimi sono tra le voci più acute e intelligenti, e insieme fedeli e stimate, del cattolicesimo italiano. Sono credenti a pieno titolo e a pieno titolo ubbidienti nei confronti di Santa Romana Chiesa. Ma vogliono affrontare con spirito di verità i dilemmi etici che il nostro tempo pone. E offrono risposte a quei dilemmi, appunto, in spirito di verità. Con argomenti come questi: la Chiesa “giungerà ad accettare la libertà del soggetto rispetto alla propria (alla propria, non quella di altri!) vita biologica”, dal momento che è “propriamente evangelica l’identificazione tra libertà di coscienza e principio di autodeterminazione”. In altre parole “spetta alla persona decidere; non ai medici (che vanno ascoltati), non ai vescovi (che vanno ascoltati), ma alla persona, a ognuno di noi” (Vito Mancuso).
Sullo sfondo le inequivocabili parole di Paolo VI che, nel 1970, diceva: “Il carattere sacro della vita” è ciò che obbliga il medico “a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che naturalmente volge verso il suo epilogo”.
Perché mai molti cattolici che militano nel PD non ascoltano queste parole e preferiscono ad esse le parole di chi definisce “mano assassina” quella di Beppino Englaro? Certo, sono i convincimenti individuali di ognuno a ispirare le opzioni di quei cattolici, ma penso che vi sia anche dell’altro: come sempre accade, il bisogno d’identità, tanto più quando tutte le identità rivelano la propria debolezza, induce a cercare rassicurazione nel discorso delle istituzioni, nelle certezze delle gerarchie, nella solidità delle grandi organizzazioni monolitiche (che, in realtà, monolitiche non sono affatto). A scapito dell’autonomia, dell’elaborazione individuale e in ultima analisi della libertà di coscienza, che è – se non sbaglio – il fondamento della “libertà dei cristiani”.

Piccola posta 20 febbraio

ADRIANO SOFRI
I miei amici Grazia e Franco, che hanno casa a Paluzza, e hanno visitato il cimitero, hanno visto, fra i tanti, i fiori mandati dai “Detenuti dell'Alta Sicurezza del carcere di Sulmona”.
nota mia
a Paluzza riposa Eluana Englaro

Piccola posta 18 febbraio 2009

ADRIANO SOFRI

L’altro giorno avevo qui parafrasato così una frase celebre: “Il cristianesimo è troppo importante per essere lasciato a una Chiesa”. Naturalmente, non era un’idea molto ambiziosa. Però un lettore (mi scuso di non ricordarne il nome ora) ha scritto ironizzando: Sofri ha ragione, ha detto, infatti va lasciato alla Chiesa. La battuta ha regalato un senso migliore alla mia frasetta. Infatti il cristianesimo, oltre che appartenere in varia forma a una vastissima e varia umanità, credente o no, vive di più Chiese diverse, ovvia realtà della quale in Italia ci si dimentica assai più facilmente che altrove, e non solo per il carattere minoritario delle altre Chiese cristiane. Chi non segua, per ragioni di insonnia, la rubrica Protestantesimo, troverà poche occasioni per sapere che cosa pensino, per esempio, della vicissitudine della famiglia Englaro la pastora Maria Bonafede, moderatrice della Tavola valdese, o il Collegio pastorale battista eccetera. Questa distrazione porta perfino persone autorevoli e dotte come il direttore di Avvenire a definire Gustavo Zagrebelski, senza nominarlo, come “il Grande Valdese”, lapsus notevole, dal momento che Zagrebelski non è privo di grandezza, ma valdese non è. Dunque, approfittando dell’ironia del lettore, riscriverò la mia parafrasi: “Il cristianesimo è troppo importante perché lo si lasci a una Chiesa”.

giovedì, febbraio 19, 2009

Quella libertà di mangiare e bere

la Repubblica, 14 febbraio 2009

di ADRIANO SOFRI


Non so ancora quanti di noi abbiano afferrato la questione dell´idratazione e della nutrizione artificiale. E non perché sia difficile da capire, ma perché è difficilissima da credere.
Riuscite a immaginare che qualcuno, a voi maggiorenni e capaci di intendere, venga a intimare di mangiare e bere? La libertà di mangiare e bere, o quella, assai meno ragionevole, ma complementare, di non mangiare e non bere, è un ingrediente primario dell´autonomia personale. Ciascuno di noi non si nutre, né si mette a dieta, per legge. Nemmeno le controutopie più tetre vorrebbero fantasticare di uno Stato che dispone la nutrizione dei suoi sudditi umani, e somministra loro, per maggior efficienza, un pastone completo per via enterale o parenterale. Bene. Immaginiamo ora che, siccome la disgrazia o la malattia è in agguato nelle esistenze umane, qualcuno di noi sia privato della propria facoltà di volere. Io, per esempio. Ho una certa probabilità, sono anziano, ho subito cinque interventi chirurgici in tre anni, potrebbe capitarmi una ricaduta, benché non immediatamente mortale. Sarei portato in una rianimazione, cioè in uno di quei luoghi in cui donne e uomini ammirevoli, medici e infermieri, fanno di tutto per strappare vite umane a una morte incombente. Possono farcela, e allora io sarei grato dell´orribile tempo trascorso nelle loro mani, e del ripugnante pastone che in tutto quel tempo mi è stato infilato da un tubo in un buco della pancia. Può darsi che non ce la facciano, e che io muoia nelle loro mani. Oppure ancora, può darsi che nelle loro mani io perda irreversibilmente coscienza e sensibilità, benché resti tecnicamente vivo, con un ventilatore che respira per me, una macchina per la dialisi che lavora per i miei reni, farmaci che sostengono il battito del mio cuore, e quella sonda che mi nutre. In quella condizione, non sarei in grado di decidere se voglia o no far durare la mia esistenza così mutilata. Ma posso farlo prima, dal momento che una delle facoltà umane è di prevedere e, sebbene sia fin troppo umana la riluttanza a prevedere per sé e per i propri cari un futuro così sventurato, non posso fare a meno di guardarmi attorno e di ammettere che può succedere. Allora userò della mia - più o meno vacillante, più o meno spensierata - salute di oggi per stabilire che cosa non sono disposto ad accettare per me domani. E posso volere le cose più diverse: che mi si lasci morire, o che mi si tenga in vita a oltranza, perché tutto è meglio della morte, o perché non si sa mai. È affar mio, e non mi vergognerò nemmeno del pensiero più irrazionale, più superstizioso, più egoista. Dopotutto, è la mia morte.

Fino a poco fa, non ci pensavamo tanto. Per fiducia nell´aldilà, o per una rimozione - tutti dobbiamo morire, ma proprio io! - o per un fatalismo - "lascia fare a Dio". E perché le rianimazioni non facevano ancora i miracoli. C´era l´incubo opposto, quello della morte apparente, d´essere sepolti vivi. Se ci pensavamo, ci affidavamo ai nostri cari. Avessero loro cura di noi, quando non fossimo più autonomi. E poi ai medici, finché esistano i medici di fiducia. È ancora così, di fatto. Il testamento biologico, o le disposizioni di fine vita, dovrebbero assicurarmi di non essere travolto, quando disgrazia e malattia abbiano invaso la mia vita, che la mia volontà sia rispettata. Ho dalla mia la Costituzione, che ignorava le meraviglie a venire delle terapie intensive, ma aveva una buona idea, pochissimo sovietica, dell´autonomia della persona. Sicché all´art. 32 dice: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Dunque posso dettare le mie volontà quanto alla mia esistenza corporale. Questa possibilità rende inquiete alcune autorità religiose e politiche, per una ragione buona, e una pessima. Buona, e da condividere, facendone un motivo di cautela, è la preoccupazione che si faciliti l´indifferenza o l´insofferenza verso la vita debole e invalida, e si riapra la via alle infamie dell´eugenetica - bimbi sani, bimbi belli, e vecchi ricchi, e gli altri al macero. Pessima è la gelosia per la posta intima del potere, cioè il comando sui corpi, col quale coincide anche il comando sulle anime, come insegna, prima ancora che i capitoli bui della storia delle chiese, la storia degli uomini padroni di donne. Queste autorità allarmate e spodestate reagiscono, quando non ce la fanno più a opporsi alla domanda di una legge, simulandone l´accettazione, per svuotarla e metterle i bastoni fra le ruote. Per esempio, esigendo che le volontà di fine vita siano registrate presso un notaio: condizione decisamente esosa. E oltretutto contrastante con l´obiezione secondo cui della vita non si può far testamento, perché non è un oggetto proprietario. È un dono di Dio, e alcuni credenti vogliono attribuire a Dio una gelosia proprietaria, da donatore con riserva. Anche i non credenti credono che la vita sia "indisponibile", che poi vuol dire che ogni vita sia trattata come un fine e mai come un mezzo: solo che alcuni fra loro si spingono a condividere l´invadente idea dogmatica che anche la mia vita sia indisponibile a me stesso che la vivo. Bizzarra acrobazia logica, tesa a escogitare una terra di nessuno, una "zona grigia fra la vita e la morte", come quella scaturita dalla tecnica medica, in cui prepotenza clericale e autodeterminazione laica (cioè di credenti e non credenti laici) riconoscano per eccezione una libertà di far testamento per sé. La bizzarria logica è anche un´illusione politica: perché l´invadenza clericale non se ne accontenta affatto, e vuole inghiottire tutto. Allora proclama che la nutrizione artificiale - sondino nasogastrico e aghi nelle vene e tubo nella pancia - non è una terapia, non è una azione medica. Smentita dalla stragrande maggioranza delle autorità mediche, questa pretesa è a prima vista inconsulta. Il suo scopo è evidente: sottrarre la nutrizione artificiale (rendendola così forzata) al dettato della Costituzione. Si tratta di un espediente, un gioco di parole escogitato per annullare l´esito legale della vicissitudine della famiglia Englaro. L´espediente si traduce, in mala o buona fede, nello slogan sull´uccidere un disabile per fame e per sete. «Mai più in Italia nessuno sarà condannato a morire di fame e di sete», tuonano personaggi che non distinguerebbero un´iniezione intramuscolare da un dentifricio. Ma siccome c´è una maggioranza piena di sé, che fa del diritto della maggioranza un compiaciuto arbitrio e benedetto, un´assurdità come la nutrizione artificiale mutata in "sostegno vitale" è destinata a passare. Che cosa fa l´opposizione, che a sua volta, con qualche ottima eccezione, non ha voluto sapere di argomenti simili, che, nelle sue scuole di partito, "non erano nel programma", e dunque ha ritenuto che il suo compito si esaurisse nel rivendicare la necessità di arrivare a una legge? Che cosa fa, ora che la maggioranza, con tanto di benedizione, ha fatto mostra a sua volta di volere una legge, e se la aggiusta a propria misura, così da peggiorare inauditamente la situazione rispetto a quando della morte nostra la legge non si occupava? Combatte una battaglia sacrosanta e perduta attorno all´evidenza per cui la nutrizione artificiale è una terapia. E si guarda dallo spiegare ai cittadini di che cosa davvero si tratti. A cominciare dal fatto che, quand´anche la si desse vinta alla pretesa insensata che la nutrizione artificiale non sia una pratica medica, e la si assimili al "sostegno vitale", al naturale mangiare e bere di ciascuno di noi, resta che ciascuno di noi è padrone di quanto, quando, come e se mangiare e bere. E dunque sarà d´ora in poi lo Stato, l´ineffabile avanguardia dello Stato italiano nel mondo, a decidere e imporre a ciascuno di noi, quando fossimo in un coma irreversibile o paralizzati dalla testa ai piedi o in uno stato vegetativo persistente da diciassette anni, quanto e come e se mangiare e bere? Lo Stato carcerario nutritore?

Non solo questa enormità mina alla sua radice prima la responsabilità e libertà personale che sono la premessa della legalità. Ma sopraffà ogni legge. Nessuna autorità può imporre di mangiare e bere, nemmeno più nelle galere, che sono laboratori specializzati di tortura e di arbitrio, e fino a poco fa il ricorso nonviolento al digiuno veniva punito e, in condizioni estreme, violato dal Trattamento sanitario obbligatorio, cioè appunto dall´alimentazione forzata. Solo in casi di accertata - e arduamente accertata - necessità psichiatrica si può disporre un´alimentazione forzata, come sa chi fa i conti con la tragedia dell´anoressia nervosa. Ed ecco che diventiamo tutti, alla condizione di restar vittime di una disgrazia o di una malattia irreparabile, potenziali oggetti della nutrizione forzata per legge, espropriati del nostro corpo e della nostra dignità. Forse, si dirà, il ricorso urgente alla nutrizione artificiale non è il soccorso pietoso a chi abbia creduto di non poter sopportare una sventura, e domani ci sarà grato di averlo trattenuto al mondo? Forse che non ci adopereremmo comunque per trattenere chi, ubriaco o disperato, stia per gettarsi giù da una spalletta, e tenerlo stretto finché non ripensi? Certo: ma all´ubriaco la sbronza passerà, il disperato forse metterà a confronto il vuoto che gli è stato davanti con lo spiraglio di una nuova mattina, la ragazza forse proverà a risalire la corrente. E se no, la spalletta sarà ancora lì, basterà scegliere un´ora più rada. Io non vorrò, quando si siano accertate alcune condizioni, sopravvivere in un modo che sento indegno di me, e intollerabile per chi mi vuole bene. E qualcuno sta decretando che penetrerà nel mio corpo e disporrà della mia degenza in vita? L´Italia era, fino a oggi, lo Stato che non ha riconosciuto il reato di tortura nel suo codice, benché impegnata solennemente a farlo. Da domani, sarà lo Stato che ha decretato la tortura dei sopravviventi incapaci di intendere, o anche solo incapaci di procurarsi la liberazione con le proprie mani e con la propria bocca. Il prossimo passo sarà un cartello che dice: «È severamente vietato il suicidio». Questo è il punto. Che punto, eh?

domenica, febbraio 15, 2009

Piccola posta 14 febbraio 2009

di Adriano Sofri

Ci si può interrogare su buona e mala fede? Si può infatti pensare che non ci sia nessuna differenza, e che tutti siano in buona fede, magari di più quando sanno di essere in mala fede. Farò –con tutto il rispetto!- qualche esempio dai giorni correnti. Quando Gad Lerner dice a Paola Binetti: “Ma è vero o no che mentre io non voglio il sondino voi me lo volete infilare per forza?”, e Binetti farfuglia qualche frase oscura sulla relazione medico paziente, e poi dice a Gad: “Hai imbrogliato...”, io mi interrogo. Quando Emma Bonino dice a Eugenia Roccella: “E’ vero o no che mentre io non voglio il sondino voi me lo volete mettere per forza?”, e Roccella mena il can per l’aia accennando all’ulteriore discussione parlamentare, io eccetera. Quando Pier Luigi Bersani dice a Roberto Formigoni: “E’ vero o no...?”, e Formigoni risponde: “L’alimentazione e la idratazione non si negano a nessuno” io, che non vedo Formigoni da moltissimi anni, ma un po’ lo conobbi, e scommetterei che conosca ancora la differenza fra “non negare a nessuno” e “obbligare ciascuno”, mi interrogo eccetera. Alla fine, ho due domande. Davvero questi bravi signori vogliono questo per sé? Davvero questi bravi signori vogliono questo per me?

martedì, febbraio 10, 2009

Quella ragazza che amavamo


ADRIANO SOFRI
da Repubblica.it di oggi

Ormai la diversità dei pensieri si era tramutata in una dannazione reciproca, una messa al bando, una insofferenza esasperata. E neanche ora, neanche in hora mortis nostrae, si rimarginerà, temo. Ma, forse solo per un piccolo risarcimento, forse perché è la cosa più importante, possiamo riconoscerci tutti - quasi tutti - in un acquisto dapprincipio imprevedibile, e che non era nei propositi. Abbiamo tutti - quasi tutti: non fa bene ignorare il cinismo e la cattiveria vera - voluto molto bene alla ragazza Eluana. Le abbiamo voluto sempre più bene, man mano che passavano gli anni e la ferita si esacerbava mille volte di nuovo e noi intanto diventavamo grandi o vecchi, nascevamo e ci ammalavamo e, qualcuno, morivamo: e quel viso di ragazza continuava a guardarci illeso dal tempo e dalla sventura. Prima della fotografia, i ritrattisti delle famiglie del nord d'Europa, di quelle che potevano permetterselo, dipingevano una volta all'anno il gruppo di famiglia, sicché sulle pareti domestiche scorrevano le generazioni, i bambini diventavano adulti, gli adulti vecchi, matrimoni rinnovavano la scena, nuovi nati facevano la loro comparsa. In quelle gallerie di quadri ricordo, c'erano alcune figure di bambini o di giovani che non cambiavano più aspetto, il tempo non le lavorava più, perché erano morti giovani o bambini, e una rossa crocetta dipinta sopra la testa avvertiva della loro perdita, ma non si aveva cuore di espellerli dal gruppo. Il signor Englaro, rifiutandosi, contro la propria presumibile convenienza, di esporre le fattezze di Eluana se non fino al punto in cui l'ebbe perduta, ha suscitato in tutti noi lo stesso risultato pieno d'affetto e di rimpianto. Abbiamo voluto bene a quella ragazza meravigliosa, al modo in cui i suoi occhi continuavano a guardarci così da lontano, così da vicino, e l'abbiamo rimpianta come una nostra compagna di viaggio insieme perduta e illesa. Abbiamo voluto bene, ogni giorno di più, anche alla Eluana che non vedevamo, che non abbiamo mai visto, nella quale la ragazza dagli occhi profondi si continuava e si consumava, e abbiamo avuto pietà di lei e di noi. Quel padre che, chiuso in un suo cerchio senza uscita, combinava e ricombinava senza ostentazione e senza falso pudore le belle fotografie della sua creatura, come per ricominciare ogni volta a far scorrere la vita della sua carissima figlia prima che la promessa si spezzasse, ce l'ha fatta amare, senza proporselo.
Senza proporsi altro se non di avere la legge dalla propria parte, e le persone, perché una buona legge dev'essere dalla parte delle persone e del loro dolore. L'ha conservata così, nella memoria di una comunità che l'aveva adottata, benché si lacerasse sul suo destino. Se c'è una sottile speranza che l'Italia non esca più amara e incattivita da una vicenda oltraggiosamente accanita, è in questo amore condiviso. Il signor Englaro non ha mirato a nessuna convenienza. Non ha fatto conti. Ha fatto quello che sentiva come il suo dovere. Se fosse stato un uomo politico - cioè un politico, oltre che l'uomo che è - si sarebbe sottratto alla piccola trappola della gara col tempo, che metteva in scena nel rullo di tamburi del precipitoso finale il copione degli uni che bruciavano le ore per salvare una vita, degli altri che bruciavano i minuti per sacrificarla. ("Il sacrificio non sia vano": frase pronunciata ieri sera in Senato, non so con quanta consapevolezza, bestemmia più enorme di tutte, che accusa di un sacrificio umano, e pretende di riscattarlo, per giunta con una legge folle). Si sarebbe esposto alle intemperie sulla cima di un campanile friulano per protestare: dopotutto il capo del governo si era spinto, non so con quanta consapevolezza, a dire che quella sua figlia perduta avrebbe potuto partorire. Avrebbe fatto uno sciopero della fame e della sete, per replicare a chi lo accusava di voler assassinare per fame e sete la sua creatura. Li avreste visti volare, allora, i sondaggi, angeli custodi della superstizione e della demagogia contemporanea. Verrebbe voglia di dire che bisogna tutti sforzarsi di richiudere questa ferita, ma non sarà così. Le ferite non si chiudono. Non si chiuse quella di Moro. La disputa sul corpo di Eluana è per l'Italia del nuovo millennio una tragedia senza catarsi, senza redenzione, come fu quella sul corpo di Moro per la fine del secolo scorso. Ho guardato il minuto di raccoglimento al Senato: sembrava piuttosto, per quei grami presenti, la concentrazione nell'angolo prima dell'ultimo round. Certi uomini politici - cioè certi politici, prima degli uomini che dimenticano di essere - fanno molti conti. Vedrete: anche ora che il corpo di Eluana non è più perquisibile dai Nas, mostreranno di voler procedere per la loro strada. Legislatori tutti d'un pezzo, pronti a decretare la mia, la vostra, l'impossibilità di ciascuno di rifiutare per sé la nutrizione artificiale, una volta che ci trovassimo privati senza ritorno della nostra coscienza. Pazzia. Silvio Berlusconi ha voluto dire che lui, nella condizione di Beppino Englaro, non potrebbe mai "staccare la spina". Sia risparmiata la prova a lui e a noi. Tuttavia la prova è stata imposta a tanti, e qualunque sia la loro scelta, compresa quella di non rassegnarsi mai al commiato, dev'essere rispettata, amata e sostenuta. Ma provi Berlusconi a immaginare un'altra eventualità: che tocchi a lui di uscire da una rianimazione in una condizione vegetativa irreversibile. Vorrebbe o no poter decidere, finché il senno e la fortuna siano dalla sua, come debba chiudersi la sua esistenza, o preferisce lasciarne il peso ai suoi figli, per giunta votando ad horas l'obbligo a nutrirlo artificialmente senza fine? Questo era già il punto, ora lo è ancora più nitidamente. Mettete via i cartelli opposti che intimano: "Giù le mani da Eluana". Salutiamola, Eluana, con l'amore che si sapeva riservare alle ragazze perite, tenerelle, pria che l'erbe inaridisse il verno. Quanto a noi, scriviamo ciascuno sul proprio cartello: "Giù le mani da me, per favore".

(10 febbraio 2009)

domenica, febbraio 08, 2009

Noi radicali nonviolenti contro il Concordato

da Left del 6 febbraio 2009

di Carlo Patrignani

Marco Pannella ha uno scatto di contentezza, quando gli chiediamo di parlare del Concordato. L`11 febbraio è vicino, è l`anniversario dei Patti Lateranensi tra Mussolini e Pio XI che subito dopo la firma, definì il duce "l`uomo della Provvidenza" perché quel testo resta la scaturigine delle molte provvidenze intascate dalla Chiesa. Il leader radicale sorride,l`argomento è suo: lo è dal 1977 quando da "non violento" propose il referendum abrogativo respinto, il 2 febbraio1978, dalla Corte costituzionale per incostituzionalità. Perché i Patti Lateranensi il 25 marzo 1947 con il noto art.7 votato insieme dalla De di Alcide De Gasperi e dal Pci di Palmiro Togliatti, più la destra,erano stati "elevati" a norma della Costituzione repubblicana, nata dalla lotta antifascista e antinazista. Al buon Dio pare che ci sia: 35 anni fa si occupò di portare a Paolo VI l`errore di fare il referendum sul divorzio e siccome il buon Dio non paga il sabato, quella domenica,il 12 maggio 1974, fu...». Si arresta,come a prendere la rincorsa. Lo anticipo:un disastro? «Sì, per loro, però». E una vittoria, «ma per noi, per il fronte divorzista».Quella vittoria, i Radicali l`hanno sempre festeggiata: le ultime due volte nel 2007 a Piazza Navona e nei 2008, con il convegno "Amore civile".
E oggi, domenica primo febbraio? «Pare che il buon Dio ci venga ancora incontro», aggiunge Pannella. L`eco dell`anatema domenicale,l`ennesimo, di papa Ratzinger contro eutanasia,aborto, fine e inizio vita, libertà di cura, è ridondante. «A conferma delle nostre previsioni sullo Stato Vaticano: una"monarchia assoluta", che però pare non trovare adesioni nel popolo, dove la "resistenza"cresce in termini di vissuti, sentimenti,empatia con noi». Una sintonia tra il popolo e uno sparuto gruppo di«500-1.000 partigiani, scrivi così – quasi mi ordina Pannella - che dagli anni Cinquanta fanno "resistenza" non violenta,responsabile, liberale e libertaria al regime: è ora di voltare pagina».Torna la `non violenza`, il cavallo di battaglia di Pannella che non lo molla, lo ripete,ogni volta, da decenni e decenni ...«C`è bisogno di voltar pagina, di costruire un`alternativa liberale, democratica,"non violenta" a questo regime che ci porta allo sfascio». Ma dove però, «il potere,l`ingerenza del Vaticano si fa più forte: l`infame linea di Ratzinger che tuona contro i fautori della morte, solo loro, ripete,sono perla vita». Il popolo sembra non seguirlo stando ai sondaggi: l`80 percento è favorevole a una morte dolce, e poi alcuni intellettuali "credenti" come il presidente del Comitato nazionale di bioetica, Paolo Casavola, dicono che forse è il caso di dar corso alla sentenza della Cassazione su Eluana. "Sì, ho letto e gli dico bentornato, una volta, ma tanti anni fa, quando mi battevo per riportare la legalità parlamentare sulle nomine, Casavola scrisse: possibile che è sempre necessario che ci dia il suo contributo Pannella con i suoi scioperi non violenti della fame e della sete?».
Andiamo avanti: si dice che il papa ha diritto di... Mi interrompe subito: «Il nostro è un Paese dove il capo della Chiesa si esprime in quantità e in qualità senza precedenti al mondo. Il giochetto di dire "non s`è fatto parlare il povero papa" non sta in piedi: sarebbe come voler raccontare che nell`Italia degli anni`30 si toglieva la parola a Mussolini». Insomma, la presenza"pervasiva" del Vaticano c`è eccome "fin dentro le case" degli italiani. «Senti, oggi chiunque vuole celebrare l`11 febbraio, l`anniversario del Concordato clericofascista,non può non discutere in questa occasione del suo peggioramento - sottolinea -. Con la tecnica di Margiotta Broglio che poi fece sua, Bettino Craxi, per motivi opportunistici, scelse l`orrida riedizione del Concordato senza toccare i trattati, non rinnovò i trattati,come gli chiedevo insistentemente, che era la parte più manifestamente di tentativo di uno Stato, diciamo, con due componenti: quella vaticana e quest`altra». Il leader radicale si riferisce agli Accordi di Villa Madama, ratificati dal Parlamento italiano il 25 marzo 1984, tra il suo"amico Bettino", ci tiene a rimarcarlo, allora presidente del Consiglio e mons. Casaroli. «Lì c`è scritto che il Vaticano, la Chiesa, e lo Stato italiano assieme si univano per il bene dell`Italia: ma come? Ma dove sta scritto? Per me è un`eresia. In sé il costantinismo era ufficiale, formale,ma non puoi dare per scontato che la Chiesa e quindi la Cei, la Conferenza episcopale italiana, sia delegata, al pari del Parlamento, a vegliare sul bene del popolo italiano, del nostro amato popolo».
Nessuno fiatò, nemmeno il Pci di Enrico II "patto" dell`84:«La Chiesa e l`Italia assieme si univano per il bene del Paese:ma come?Per me è un eresia» Berlinguer pronto invece a organizzare un referendum sul taglio di quattro punti allascala mobile: ovviamente,tranne i Radicali che ripropongono oggi, a distanza di 25 anni, la questione. «Persino a Teheran c`è un presidente laico, Ahmadinejad: qui da noi invece. C`è quel cardinale di Torino che interviene prima, mentre in Parlamento si discute...». E di ingerenze simili la lista è lunga e tocca persino la concertazione tra governo e sindacati... «E io allora mi rivolgo al presidente della Repubblica, Napolitano: siamo assassini perché abbiamo legiferato sull`aborto e siamo responsabili di una shoah permanente... presidente, ancora oggi un capo di Stato estero ha detto che è indegno quanto la magistratura italiana ha fatto in una certa occasione e continua adire che loro governano il monopolio della vita contro le ideologie, le posizioni di morte». Sì, Ratzinger se l`è presa con il presidente della Corte d`appello di Milano, Grechi, che a proposito del caso Eluana ha ribadito che "le sentenze" vanno rispettate.«Anch`io, a suo tempo, ho votato e fatto votare per Napolitano, e lei non è presidente neanche dell`Italia Pci, non dico comunista-stalinista, vorrei lo tenesse bene a mente: ognuno ha la sua storia,allora mio compito è farle sapere chela "razza" dei liberali, degli antifascisti, anche perché anticomunisti, quella razza lì è ancora organizzata e, pur non disponendo di elettorati passivi, è viva, c`è nella società». Il rischio di una deriva autoritaria perché muore lo Stato di diritto c`è. «È un fiume che sta stravolgendo il nostro Paese... Ci vuole dopo 60 anni di regime partitocratico un`alternativa liberale, bisogna voltar pagina nel segno della nonviolenza». Liberandosi della "zavorra" catto-comunista, il Concordato.

mercoledì, febbraio 04, 2009

Quel corpo conteso

da La Repubblica del 4 febbraio

di Adriano Sofri

Al costo di trasformare un acquisto della cura ? la nutrizione artificiale ? in alimentazione forzata per volontà di Dio e legge dello Stato. I cittadini italiani che stanno dalla parte di Beppino Englaro sono tanti, incomparabilmente più numerosi di quelli che si raccolgono a gridare "assassini" al passaggio di un´ambulanza, o di quell´uno che si concede la bravata di sdraiarsi sul cofano dell´ambulanza. Non basterebbe questo, non basta essere maggioranza, e stragrande maggioranza, per stare dalla parte buona. E c´è sia in loro che negli altri rispetto vero, affetto e compassione veri. Quello che decide è l´immedesimazione nella vicenda di quella famiglia. Che cosa vorrei per me, che cosa vorrei per le persone che amo? E qualunque risposta particolare dia a questa domanda, c´è una cosa che non posso volere: che altri, autorità di ogni rango, ministri dello Stato e della Chiesa e della Scienza, mi esproprino della mia libertà di vivere e di morire. È perfino buffo che si deprechi la presunta sfrenatezza "individualista" di questa strenua volontà. Non si vive soli, e sarebbe piuttosto il sequestro di una legge o di un macchinario a far morire soli.Il chiasso delle convinzioni assolute e delle invasioni dei corpi non impedisce di avvertire questa nuova consapevolezza. La politica ci arriva tardissimo e malissimo, persuasa com´è stata per antica tradizione che la propria lussuosa competenza sia l´incompetenza, e che bazzecole come nascita e morte, malattia e dolore fossero affari di preti e di medici, o tutt´al più di radicali. Ma è questo uno degli ambiti in cui le persone sono molto più avanti: perché le persone si ammalano, conoscono l´odore degli ospedali, si improvvisano infermieri, sanno che cosa vuol dire diventare così vecchi, si stringono, ragazzi coi motorini, nell´anticamera di una rianimazione in cui uno di loro sta fra la morte e la vita, e quale vita. Principi della Chiesa rincarano le loro incrollabili prescrizioni. Ma anche il loro vocabolario scricchiola. "Eutanasia", ha ripetuto Benedetto XVI domenica, "falsa risposta alla sofferenza". Forse non intendeva rispondergli il presidente della Repubblica, quando ha detto asciuttamente che nella vicissitudine di Eluana non si tratta di eutanasia. Non è eutanasia. È l´interruzione di una cura non voluta ? diciassette anni dopo! ? lecita e buona quanto la prosecuzione di una cura voluta. Ci sono anche altri segni, nella lingua. Non conosco il presidente della Camera, e l´idea che me ne sono fatto negli anni derivava anche da certi suoi tic retorici: «Non v´ha dubbio alcuno che...», «Di tutta evidenza...». Ieri ha detto di aver solo dubbi, e nel dubbio di affidarsi ai primi responsabili: «Personalmente ho solo dubbi, uno su tutti: dov´è il confine tra un essere vivente e un vegetale? Penso che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di fornire una risposta. E avverto il dovere di rispettarla». C´è un bellissimo pensiero, forse il più umano dei pensieri, nel discorso che il Papa ha voluto dedicare domenica all´ennesima condanna dell´eutanasia. «Nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio». Un pensiero così bello, la ribellione alla dilapidazione delle lacrime non asciugate, non viste, non ascoltate che bagnano la terra, ha tuttavia santificato in passato e vorrebbe giustificare ancora una rassegnazione alla sofferenza. Rifiutare il dolore, curarlo, lenirlo, ridurne l´aggressione alla dignità dei corpi e delle menti, è un compito decisivo. Non basterà a cancellare la sofferenza dalla condizione umana: quella sofferenza che, anche senza cercarne il riscatto in un Dio, vissuta da ciascuno e da ciascuno immaginata, permette agli umani di sentirsi prossimi e fraterni. È questa solidarietà il senso della nostra sofferenza. Oceani di lacrime inondano la terra. Se non c´è un Dio a raccoglierle, e tanto meno ad amarle come un sacrificio umano a lui offerto, ciascuno di noi può prendersene una parte.Nei prossimi giorni si vorrà inscenare l´impressionante gara di angeli e demoni che si contendono il corpo di Eluana, come in un Trionfo della Morte del medioevo contemporaneo, che vuole celebrare nell´aldiquà il suo giudizio universale. Sceso dal suo viaggio di accompagnamento di Eluana, l´Eluana com´è oggi, non quella delle fotografie, il primario di anestesia udinese ha detto parole toccanti: «Sono profondamente devastato come uomo, come padre, come medico e come cittadino. Tutta la società civile dovrebbe riflettere sullo scollamento tra il sentire sociale e la posizione della politica e della chiesa sul tema della vita vegetale». Il Parlamento andrà avanti a discutere di una legge sulla fine della vita, che vorrà forse sfidare la libertà e la volontà della grande maggioranza dei cittadini, costringendoli vita natural durante, e anzi innaturale, alla alimentazione forzata. Se avvenisse, la legge colmerebbe un vuoto con un pieno assai peggiore.

martedì, febbraio 03, 2009

Una incredibile storia vera di trent’anni fa.

di Adriano Sofri

da Notizie radicali

A trent’anni dalla pubblicazione, domani esce la riedizione del “Diario di una giurata popolare al processo delle brigate rosse” di Adelaide Aglietta.
La pubblicazione, per i tipi della Lindau Edizioni di Torino, comprende, oltre al diario vero e proprio delle convulse e tragiche giornate del primo processo alle BR scritto da Adelaide, la prefazione che scrisse allora Leonardo Sciascia e una nuova, molto pregnante premessa di Adriano Sofri.
Il volume è inoltre corredato da un inquadramento storico di Paolo Borgna, da un inserto fotografico e da alcune significative testimonianze, come quelle del Presidente del Tribunale Guido Barbaro e dell’avvocato Gianpaolo Zancan.
Il recupero di questa preziosa memoria con la ristampa, la distribuzione nelle librerie e - nelle prossime settimane - la diffusione nelle biblioteche civiche ed universitarie piemontesi è stata possibile grazie al lavoro dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta, alla disponibilità dell’editore Ezio Quarantelli ed all’intervento dell’Assessore alla Cultura della Regione Piemonte, Gianni Oliva.
Quella che segue è appunto la prefazione scritta da Sofri appositamente per questa nuova edizione.

Più che una premessa è un’avvertenza, come si dice. Un avvertimento. Quella che segue è una storia vera, verissima, di quelle che a ogni passo vi fanno tirare il fiato ed esclamare: Incredibile! E’ successa trent’anni fa o poco più (già? appena?) ma sembra appartenere a un’altra epoca, a un altro mondo. Farà questo effetto ai giovani, che la incontrino per la prima volta, e ne ricevano una rivelazione enigmatica e allarmante sul tempo dei loro padri e madri e, ormai, nonni; ma lo farà anche agli anziani, quelli che “c’erano”, e non seppero, o seppero solo un pezzo, il loro pezzo, e comunque poi dimenticarono e rimossero, e a ritornarci sopra, come cagnolini presi per la collottola e portati sul luogo del delitto, si sentono spaventati, mortificati e quasi offesi. Ha fatto questo effetto a me stesso,
per intenderci.



A quel tempo fu coniata una famigerata massima di comportamento, o piuttosto di astensione: “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Per chi inizialmente la formulò, persone di quella Lotta Continua che nel 1978 si era sciolta da due anni e resisteva in un giornale quotidiano “del movimento”, era un ponte verso l’addio definitivo alla violenza politica; altri intendevano che per opporsi alle malefatte brigatiste non fosse necessario sventolare la bandiera dello Stato. Io, per esempio, non mi riconobbi in quella formula, proprio per il suo “astensionismo”: irrisolto anche nella versione emendata per combattività, “Contro lo Stato e contro le Brigate Rosse”, perché non c’era un modo autonomo di fermare davvero la sfrenatezza terrorista, come mostrarono più tragicamente i 55 giorni di Moro, e quella dissociazione equidistante, o quel far parte per se stessi, si condannò di fatto a un’estraneità pilatesca. Però ridurre il contrasto fra chi stava senz’altro dalla parte dello Stato e chi se ne faceva obiettore, alla differenza fra il coraggio e la viltà, era troppo facile e, in molti casi almeno, ingiusto. E’ vero che personalità pubbliche della cultura, letterati, artisti, giornalisti, si barcamenarono nei confronti della minaccia brigatista e delle altre formazioni “armate”, per le quali mutilazioni e omicidi diventavano sempre più capricciosi e facili. Ma c’erano anche persone che, fedeli a se stesse, rifiutarono ogni soggezione e censura, esponendosi apertamente: così, per restare al retaggio di Lotta Continua, il Marco Boato che al convegno bolognese del 1977 (e in tante altre occasioni, compreso il processo di Torino di cui qui si tratta) si rivolse a viso aperto ai fautori della violenza, o l’Enrico Deaglio (e i suoi collaboratori) che da direttore del giornale rispose alle minacce fornendo la lista dei propri orari e itinerari. E’ un fatto che per alcuni anni la vita delle persone finiva in gioco per niente, che lo scegliessero o che la sorte le mettesse nel posto sbagliato, e molte volte furono quelli che non avevano scelto per sè la professione del rischio a reagire con ammirevole dignità e coraggio. Fra quelli che più rigidamente propugnavano il dovere di stare dalla parte dello Stato, e anzi di “farsi Stato”, venivano primi molti dirigenti del Pci, mossi da un duplice impulso. Uno, il più ovvio e meno essenziale, ad allontanare da sè il sospetto di una infedeltà “nazionale”, scotto della residua obbedienza all’universo comunista e alla sua incarnazione reale nell’Unione Sovietica. L’altro, più solido e rigoroso fino alla superstizione, a prendere su sé la supplenza a uno Stato dichiarato sempre incompiuto, familista e vacillante nelle mani della Dc e del suo sistema di alleanze, e di una intellighenzia disfattista e “nicodemita”, come volle chiamarla Giorgio Amendola, rievocando le controversie religiose cinquecentesche. (Nicodemo era il fariseo che andava di notte a visitare Gesù, e di giorno si mostrava osservante dei precetti ortodossi). Di questa divisione del lavoro –il Pci che sta addosso alla Dc per impedirle di cedere e costringerla al senso dello Stato- i giorni e le notti del sequestro di Moro diedero una rappresentazione tragica e farsesca insieme. Leonardo Sciascia, che con più chiarezza si pronunciava e dunque diventava protagonista e bersaglio prediletto della polemica pubblica, fu associato alla formula “nè con lo Stato nè con le BR”, benchè forse più di lui le corrispondessero Alberto Moravia o Eugenio Montale. Più di lui, che precisava con puntiglio: Né con questo Stato. “Per questo Stato non farei il giudice popolare. Se fossi estratto a sorte accetterei per coerenza nei confronti di me stesso e dei valori nei quali credo”. Precisazione che non era cavillosa o retorica. Proprio nella ricostruzione di che cos’era questo Stato e come veniva sentito da tanta parte della società italiana –com’era stato sentito dal Pasolini del processo al Palazzo- è la possibile comprensione di una posizione che altrimenti non sarebbe che codardia o pazzia. Non provo nemmeno a misurarmi qui con questo tema cruciale, a partire dalla questione dello “Stato delle stragi” (lo faccio in un mio libro appena uscito per le edizioni Sellerio, “La notte che Pinelli”): piuttosto, il diario di Adelaide Aglietta e le sue appendici documentali sono un contributo impressionante alla questione. Più esattamente, alla comprensione del “contesto”. (Il “contesto” che induceva i brigatisti al delirio di accusare Aglietta e i radicali di “farsi Stato imperialista”!)
Si può cominciare, per esemplificare, da un testo diverso, la memoria, resa pubblica postumamente da moglie e figlia, del giudice Guido Barbaro, che può esser letta come un diario complementare a quello di Adelaide. Ho usato l’aggettivo: incredibile. Ebbene, lo ripeterete a ognuna di quelle pagine. Guido Barbaro è morto il 3 febbraio 2004. Aveva 78 anni. Dopo la pensione, era stato nominato e poi confermato difensore civico del Comune di Torino. Magistrato, era arrivato a capo della Corte d’assise torinese, e in quella veste aveva presieduto la giuria nel processo al “nucleo storico” delle Brigate Rosse -53 imputati, di cui 20 detenuti, nessuno per omicidio- aperto nel 1976, svolto e concluso nel 1978. Barbaro (lo ebbi per giudice in un processo torinese del 1970 cui arrivai da imputato dopo tre mesi di carcere, e fui assolto per non aver commesso il fatto –una manifestazione di senza casa cui davvero non avevo partecipato) era un magistrato conservatore e scrupoloso, legato all’Arma dei Carabinieri, con una carriera limpida, toccata più tardi dalla notizia dell’iscrizione alla P2. Si legge, nel suo memoriale, la frase di chiusura della lettera di auguri per la Pasqua del 1977 speditagli dal Questore di Torino: “Colgo l’occasione per comunicarle che verrà ucciso”!
Incaricato del processo allora più importante, Barbaro ricorda di essere stato lasciato solo al punto di dover contare sulla privata e taciuta cooperazione del Banco di San Paolo per procurare una copia delle carte processuali e assicurarne la protezione in una cassetta di sicurezza. Nel mezzo del suo incarico, mentre si susseguono gli omicidi di magistrati avvocati poliziotti e agenti penitenziari (16 morti ammazzati durante lo svolgimento del processo, fra loro l’avvocato Croce, il maresciallo Berardi, l’agente Cotugno), Barbaro si vede improvvisamente revocata la scorta, e solo per la sollecitudine di un ufficiale dei carabinieri ottiene un milite che gli faccia da autista fino al ripristino del servizio. Era così, questo Stato.

Il ritratto che Adelaide Aglietta fa di Barbaro è cauto dapprima, poi affettuoso. “Ha un’aria sorniona ma decisa, molto educato, formale, sorridente e un po’ paternalista”. Le ricorda in effetti suo padre, fin nell’abbigliamento. Ironicamente paternalista è, come quando ricorda la difficoltà a spiegare ad alcuni dei giurati “la differenza fra la banda armata e la banda musicale”. “Dà la sensazione – osserva più in là Aglietta- di sentirsi solo, lasciato solo a portare il carico e le responsabilità di questo processo”. Solo com’è, il giudice impiega ogni momento di pausa del processo per attaccarsi al telefono con sua moglie...
La memoria di Barbaro è punteggiata di episodi amari quanto caricaturali. Così l’evocazione di “quella volontà che da Roma mi veniva trasmessa anche per tramite del Consiglio Superiore, organo preposto anche alla tutela dei magistrati: dovere io evitare che gli imputati inveissero ‘contro questa disgraziata Italia’, come se fosse stato in mio potere divinatorio la previsione
di quanto sarebbe stato detto. Potevo sì interrompere una dichiarazione, come avvenne nel tentativo della rivendicazione dell’omicidio Coco /Francesco Coco, Procuratore Generale di Genova/ il 9 giugno 1976, ma non di più. Mi guardai bene dal prendere atto di questi segnali, lanciati da persone che forse un’aula penale non avevano mai neppure visto...”. Così, più grottescamente (più incredibilmente) la storia del falso comunicato del lago della Duchessa: “E non sapevo allora quanto con estrema amarezza e indignazione avrei appreso molti anni dopo con senso di ironica rabbia, e cioè che il comunicato Br n. 7, che nell’aprile 1978 segnalava la presenza dell’onorevole Moro in un lago ghiacciato dell’Abruzzo e che conteneva la postilla ‘stiano attenti i vari Sossi e Barbaro che sono soltanto in libertà provvisoria’, era stato redatto per determinazione dei servizi alle dipendenze di quello stesso Ministro dell’Interno”... Questo Stato.
A “questo Stato” si sentivano estranei e stranieri i radicali e la loro segretaria politica di allora, Adelaide Aglietta. Al contrario dei praticanti della lotta armata che sognavano di far prevalere la propria violenza su quella, vera e immaginata, dello Stato, i radicali erano da sempre fautori della nonviolenza e difensori strenui della legalità contro l’illegalità di fatto dello Stato. A loro modo, un modo opposto allo statalismo hegelian-poliziesco del Pci, volevano incarnare la cittadinanza di uno Stato di diritto e imporre con l’esempio allo Stato di conformarsi alle sue stesse leggi. Non solo non respingevano la “giustizia borghese”, ma ne pretendevano, a proprie spese, l’adempimento coerente. “Siamo imputati in centinaia di processi e chiediamo che essi si celebrino, così come ci battiamo perché si facciano quelli contro gli uomini di regime coinvolti nelle truffe, nei peculati di Stato, nella strategia della tensione. Altrimenti muore anche la speranza dello Stato di diritto”.
Pensavano di proporre, e di essere, l’autentica alternativa alla venerazione della violenza politica “rivoluzionaria”, nella quale denunciavano, al di là del riconoscimento della spinta iniziale a un mondo giusto, la parodia e il complemento della violenza delle istituzioni. La lotta armata era ai loro occhi il nemico che l’illegalità dello Stato prediligeva e assecondava per nutrirne il proprio disprezzo per la democrazia. Fra le innumerevoli cose che troverete “incredibili” in questa lettura ci sarà forse una dissociazione radicale (uso questo aggettivo, radicale, nel riferimento a quel partito) da questo Stato spinta a rivaleggiare con quella rivoluzionaria e armata, e a rivendicarsene ben altrimenti profonda. Ci si chiederà come quella rivendicazione di nonviolenza avrebbe potuto fermare o arginare una deriva sfrenata della violenza politica, trasportata ormai da un rincaro convulso di ferocia e gratuità, e vinta solo dalla forza pubblica militare e dall’implosione della tempra umana dei suoi militanti. La risposta è realisticamente facile se la si commisura al contesto cui le cose erano arrivate, per esempio in quel 1978, è indefinibile se si risale all’indietro, come ogni interrogativo sulle origini, su “che cosa è cominciato prima”. Sta di fatto che in misura e forma diversa, anche decisivamente diversa, l’adesione alla violenza politica ha impregnato pressoché tutte le correnti ideali e le forze politiche della nostra storia, compresa gran parte del mondo cristiano e cattolico, e, fra le forze organizzate, la minoranza radicale è stata la più coerente testimone pratica della concezione nonviolenta.
La quale fu messa a una prova imprevedibile, fortunosa e azzardata dal sorteggio del nome di Adelaide fra quelli dei giudici popolari del processo torinese. Che venisse estratta la segretaria di un partito politico, e di quel partito, sembrò a qualcuno la correzione di qualche zampino maligno nel gioco della sorte. La designazione veniva dopo una estenuante sequela di rinunce da parte di altri candidati a far parte della giuria. Rinviato nel 1976, il processo doveva inaugurarsi il 4 maggio del 1977. Alla vigilia, appena una settimana prima, venne assassinato il presidente degli avvocati torinesi, Fulvio Croce, che aveva approvato la difesa d’ufficio degli imputati brigatisti, nonostante il loro rifiuto. La gran maggioranza dei giudici popolari designati, titolari e supplenti, certificò allora la propria rinuncia, adducendo, come ricorda ancora l’ironia di Barbaro, “incontrollabili ragioni di salute che, sotto il termine tecnico di ‘sindrome depressiva’, mascheravano il reale stato psicologico: la paura. Del che io direttamente non ebbi dubbi quando una giovane signora cadde lunga distesa al suolo, pur se sorretta dal vigile consorte, quale segno di risposta alla convocazione nel mio ufficio”.

Alla vigilia della ripresa, sono ben sedici i certificati medici che lamentano la folgorante “sindrome depressiva” di chi é chiamato a giudicare “in nome del popolo italiano”. In tutto l’arco preliminare del processo, su un centinaio di candidati si conteranno sulle dita di una mano quelli che non si saranno tirati indietro. Quella reazione era stata oggetto di una disputa non nobilissima, fra quanti ritenevano di denunciarla come la vile diserzione da un dovere civico e quanti ne giustificavano l’umana –troppo umana- difesa della privata esistenza. Ancora una volta, il sospetto di un feticismo statalista (per di più per conto terzi) da un lato, la deplorazione dell’italianissimo “tengo famiglia” dall’altro. Preludio alla messinscena del conflitto fra “fermezza” e “trattativa”, di lì a un anno, nella vicissitudine di Moro, aperta nel pieno dello svolgimento del processo torinese. Quando si diffuse la voce del sorteggio del nome di Adelaide Aglietta –ne leggerete i vivi dettagli nel suo racconto- un coro pressoché unanime di suoi colleghi, segretari dei partiti parlamentari (tutti uomini, del resto, il che facilita la vocazione stentorea alla virilità) si levò a proclamare il dovere di adempiere alla missione civile del giurato, e a sbarrare a lei l’eventuale via di fuga. Non fu solo unanime nella presa di posizione, il coro, ma cantò le stesse parole. “Senza esitazione”. Quelle parole, che si volevano inflessibilmente coraggiose, potevano suonare stridule e sinistre, di fronte a una responsabilità che faceva tremare e doveva far pensare e ripensare. Leonardo Sciascia, per il quale la giustizia, e cioè l’ingiustizia, fu l’ossessione di una vita, colse subito un punto che quei frettolosi e drastici pronunciamenti avevano del tutto mancato, per eccesso di zelo e difetto di immedesimazione: che la paura per sé e la propria incolumità andava assieme, e poteva perfino venir dopo, la paura per la responsabilità di giudicare. La giustizia pubblica, e laica, è l’inevitabile e circoscritta eccezione al precetto morale: Tu non giudicherai; e si capisce che non possa essere maneggiata a cuor leggero dal cittadino che non abbia scelto per sè la professione del giudice. Tanto meno in un giudizio che deve riguardare atti circoscritti e provati, ma in realtà coinvolge persone verso le quali si può avvertire il massimo di lontananza e il massimo di vicinanza insieme. “Che cosa può spingere un uomo a diventare un terrorista?” Questo paradosso è il caso di Adelaide, che sente angosciosamente il peso di dover giudicare, e sente anche –per imputati, ripetiamolo, sui quali non pesava ancora nessuna imputazione di omicidio- il rovello di capire come siano arrivati alla loro scelta, avendone conosciuto o potendone immaginare un punto di partenza non così dissimile dal proprio. “Senza esitazione”, sarà la bandiera retorica ispiratrice della fermezza, e del rigor mortis, cui si vorrà improntare il corso tragico del sequestro di Moro, quasi temendo di ammettere con se stessi la propria vacillazione, e volendo serrare gli altri nella gabbia ferrea dell’inflessibilità.
Anche Adelaide impiega quella parola, per indicare subito quello che riconosce come giusto: “Non ho quindi avuto esitazioni nel comprendere quel che dovevo fare”. Ma fra il riconoscere il proprio dovere e il compierlo c’è ancora un buon tratto. C’è la paura per sé, e la decisione di vincerla. C’è l’angoscia per la propria famiglia, per le proprie bambine. C’è il proprio ruolo di responsabile di un partito, e di protagonista di battaglie decisive, scelte per convinzione e non imposte da un sorteggio. I referendum scandalosamente rigettati dalla Corte Costituzionale, l’impegno per la depenalizzazione dell’aborto, la decisione di cessare le attività nazionali del Partito. E c’è quella paura di giudicare... Bisogna passare attraverso la tempesta del dubbio –l’espressione non fu di un disfattista nicodemita, ma di Giuseppe Mazzini- per scegliere ciò che si sa giusto.
L’esitazione. Senza rileggere questo diario, non mi sarei accorto di una corrispondenza addirittura letterale, che fa del processo torinese, e degli atteggiamenti politici assunti nel suo antefatto, l’antecedente diretto della tragedia di Moro e degli uomini che lo scortavano. Mentre Adelaide Aglietta si interrogava sul proprio dovere e si risolveva infine ad accettare il compito di cui era stata investita, “certo non senza esitazione”, volle scrivere Sciascia, altri segretari e dirigenti di partito ostentavano il ripudio a priori di ogni esitazione, come se fosse un segno di debolezza (femminea?), un’anticamera del cedimento. Annota Adelaide: “Ritorno a leggere le dichiarazioni: Berlinguer, Zaccagnini, Romita - nessuno avrebbe esitazioni”. Sentite. Oddo Biasini, segretario del PRI: “Accetterei senza esitazione l’incarico”. Ugo Pecchioli, per il PCI: “Accetterei senza alcuna esitazione”. Enrico Berlinguer, segretario del PCI: “Accetterei senza alcuna esitazione”. E rileggete ora le parole di una lettera di Moro prigioniero, che non sa capacitarsi del ripudio del mondo di fuori, del suo mondo: del “rifiuto della più piccola concessione, del più modesto riesame critico, dell’esitazione, anche solo dell’esitazione”...
Con un brivido simile si legge la scelta di Adelaide, e dei suoi compagni, rispetto alla tutela della propria incolumità minacciata. Proteggersi con una scorta? Adelaide pensa che “la vita sia sacra, a cominciare da quella degli altri”. Sacra la vita altrui, sacra la propria. Tuttavia, anzi proprio perciò, “rifiuto di ritenere in pericolo la mia vita e quella di chiunque altro per il solo fatto che si compia un dovere di coscienza”. Un principio di un rigore propriamente evangelico coincide con un’argomentazione lucida: accettare la scorta vuol dire, di fronte alla decisione degli assassini, mettere a repentaglio, con la propria, la vita altrui. Il rifiuto della scorta non ha niente, in Adelaide, della spavalderia o della iattanza, né della sfida. Non teme di dirsi la propria paura, e di dirla qui ai suoi lettori: “A quali rischi vado incontro? Mi prende la paura, parecchia paura. Penso alle bambine e mi metto persino a piangere”. La decisione è dunque tanto più preziosa, compendiata in un telegramma alle autorità competenti: “Siamo armati di nonviolenza e non d’altro. Chi vuole, s’accomodi. Non rischia nulla se non d’essere un indiretto ‘boia di Stato’. Stop. Non conosco altra garanzia possibile di serenità e di sicurezza che quella derivante dall’assenza di armi e armati di qualsiasi tipo.

Adelaide Aglietta, segretaria nazionale del Partito radicale”. Piuttosto che un’interiezione telegrafica, quello “Stop” sembra la parola definitiva sulla questione della violenza. Marco Pannella conferma e illustra la decisione condivisa: “Non rischieranno nulla, o quasi nulla, i boia che si credono giustizieri e rivoluzionari. Le vittime saranno inermi. Non acquisteremo armi o armati per difenderci. Non tollereremo che l’assassinio impunito di Giorgiana Masi faccia rischiare vite di agenti di PS o di CC o dei servizi speciali per proteggerci”. Non rischieranno quasi nulla. Aggiunge Adelaide, in un punto, che farà, faranno, appello “alle famiglie delle vittime”. Il brivido viene quando si accostino quelle parole al massacro della scorta di Moro. Verso la conclusione del processo, Adelaide racconta un incontro toccante. “Uscendo dalla caserma Lamarmora mi si avvicinano alcuni carabinieri per salutarmi: uno di essi mi sussurra che – soprattutto dopo la strage di via Fani – si parla molto, fra loro, delle scorte e del mio rifiuto di protezione armata. Sarà per questo o per altre ragioni, ma sta di fatto che mi rendo conto di essere ben accetta a questi ragazzi, dei quali scopro tutta la drammaticità umana (i giornali li dipingono come ‘gli uomini di ferro’)...”.

C’è una circostanza peculiare, in quel rifiuto della scorta: un’altra che potrà suonare incredibile al lettore, se Francesco Cossiga non l’avesse voluta malauguratamente rinverdire di recente, a proposito del metodo da usare per maneggiare la mobilitazione studentesca cosiddetta dell’Onda. Cossiga sarebbe davvero una figura della tragedia italiana, se l’Italia pubblica fosse all’altezza della tragedia: e invece la rimuove e la impicciolisce a caricatura. Fa sul serio, o si fa il verso, il Cossiga che nell’autunno del 2008 cita il se stesso del 12 maggio 1977, e detta i suoi precetti forsennati: “Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano”? Forse il dubbio, e il gioco con il suo personale rovello, gli ha preso la mano al punto che lui stesso non sa più far la guardia al confine fra serietà e ridicolo. Forse non ha trovato né in sé né in altri il modo per tornare, e accomiatarsene finalmente, sul luogo di quei delitti, l’assassinio a freddo di Giorgiana Masi, e la strage brigatista della scorta di Moro e poi del Moro prigioniero. Poichè la catarsi italiana non arriva, non arriverà più, converremo che il Cossiga del 2008 sta facendo il verso a un passato che non passa. Il lettore di Adelaide scoprirà, o riscoprirà –ed esclamerà: Incredibile!- con quale emozione e quale sentimento fosse vissuta allora la realtà che oggi si replica in caricatura. (Salve le sciagure di percorso, come il sangue e la tortura e la fellonia di Genova 2001). “Dunque Francesco Cossiga tenga alla larga da me qualsiasi suo uomo, qualsiasi scorta. La ‘protezione’ di colui che, secondo noi, scientificamente, a tavolino, ha progettato, cercato, costruito e trovato l’evento criminale del 12 maggio, può solo costituire un grave pericolo, mai una sicurezza. Poi comprendo che il rischio non è nemmeno questo. La realtà è ben altra: se a servizi segreti o a ‘corpi separati’ di regime servisse politicamente far ricadere sui ‘terroristi’ un assassinio a sinistra, non esiterebbero. Ripercorro i più torbidi episodi della strategia della tensione: piazza Fontana, l’Italicus, la strage di Peteano, l’ambiguissima vicenda di Lo Muscio e Zicchitella /militanti dei “Nap” coi quali, vita e morte, gli affari riservati di polizia giocarono come il gatto col topo/”.

Era questa, l’aria del tempo. E in fondo a tutte queste ragione per aver paura, per vincere la paura, per rifiutare la scorta, per contare solo sulla propria inerme buona coscienza, c’era il rammarico più affettuoso: “Addio all’allegria di camminare fra la gente, una tra i tanti”.