domenica, maggio 24, 2009

Sofri ricorda mauro Rostagno

Tutto quello che dovreste sapere su Mauro Rostagno.

Adriano Sofri, 23 maggio 2009

Vi ricordate di Mauro Rostagno? Ve lo ricordate vivo? Vi ricordate che morì ammazzato? Successe ventun anni fa, il 26 settembre del 1988. Per ricordarvene dovete avere già una certa età, dunque. Se no, bisogna ricominciare tutto da capo. Pensano i procuratori palermitani Antonio Ingroia e Gaetano Paci, e il Gip Maria Pino, che ha accolto le loro richieste, che l’indagine sull’assassinio di Mauro Rostagno è completata. Che l’ordine venne dai capi della mafia, e fu eseguito da killer mafiosi. Che la sofisticata perizia balistica affidata al capo della Mobile, Giuseppe Linares, prova che non sparò un fucilaccio maneggiato da balordi, ma armi efficienti; e il confronto, finalmente eseguito, con l’archivio dei proiettili custoditi dai carabinieri, mostra che quelle armi furono impiegate, prima e dopo, in altri omicidii di mafia. Che un uomo del boss Vincenzo Virga interruppe la rete elettrica la sera dell’agguato: era un operaio dell’Enel, e anche l’autista di fiducia del boss mafioso, fu trovato ammazzato otto mesi dopo, poco distante da lì. Che l’auto degli assassini fosse stata rubata a Palermo addirittura sei mesi prima e piazzata in un “autoparco della mafia”, dunque che la decisione dell’omicidio non fosse estemporanea, e tanto meno legata al caso Calabresi, esploso neanche un mese prima, si sapeva da sempre. Si era detto che non poteva trattarsi di un ammazzamento mafioso, dal momento che nessun pentito mafioso ne aveva parlato: bell’argomento, col quale gli assassini “pentiti” di mafia diventavano decisivi non solo parlando, ma addirittura tacendo, “e silentio”. Argomento, tuttavia, falsissimo, perchè a segnalare la matrice mafiosa arrivò poi un plotone di “pentiti”, e del calibro di Marino Mannoia e di Giovanni Brusca o di Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra. Il boss mandante è, pensa la pubblica accusa, il trapanese Messina Denaro senior –morto, nel frattempo- e per suo conto Vincenzo Virga, esecutore Vito Mazzara. già campione di tiro a volo e condannato per altri omnicidii di mafia. Mauro ha una figlia maggiore, Monica, una figlia minore, Maddalena, e un nipotino, Pietro. Maddalena aveva quindici anni allora, ha trascorso ogni notte di questi vent’anni parlando con quel suo padre seduttore cui assomiglia come un ramo sottile al tronco. Ha scritto un libro, Maddalena, aggiungendoci ogni giorno qualcosa, e rinviandone sempre la fine, anche dopo che sono trascorsi i vent’anni e i figli dei morti ammazzati riscopron le tombe. Ha rinviato ancora, aspettando di leggere le carte finali di una proroga dell’inchiesta per la quale si era tanto battuta. Sono successe tante cose, nella seconda vita di Maddalena. E’ successo, per esempio, che in un’alba del 1996 uno spiegamento di forze dell’ordine andò a catturare sua madre, Chicca, e la portò in galera con l’accusa di complicità nell’assassinio di Mauro. Chicca era la donna della vita di Mauro. Non l’unica: l’unica non è un vanto possibile per i più di noi. Solo la più importante. Il magistrato che ne ordinò la plateale cattura non aveva altro appiglio che la propria stolida vanità. Arrivò al punto di deplorare i sospetti sollevati sulla mafia, e quasi scusarsene... Per non farsi mancare niente, quel magistrato mandò un manipolo di armati a cercare Chicca anche a casa mia, la mattina dell’arresto: trovata imbecille e lusinghiera.L’infamia si sgonfiò presto –non così presto. Lasciò ferite irrimarginabili. Un maestro di giornalismo, uno che mi è caro, commise l’errore di dubitare, e la chiamò Clitennestra. Altri vollero crederci, più compiaciuti. Preferirono, per meschinità liceale o per rancore, immaginare un’orestiade nella campagna di Trapani a un agguato di mafia contro un denunciatore intrepido della mafia. Qualcuno –pochissimi- si accorse subito del disastro, si morse le labbra, se ne scusò. Altri non lo fecero mai. Uscita da San Vittore, Chicca disse: “E’ stato terribile. Non auguro a nessuna di essere accusata dell’omicidio del proprio uomo”. Un rubrichista influente del Venerdì di Repubblica scrisse così, intitolando alla “cosca di Lotta Continua” che aveva deciso l’omicidio di Mauro: “Se pure avevano una coscienza, più o meno rivoluzionaria, Sofri e compagni devono averla messa a tacere dai tempi, già sospetti, in cui accettarono di fare i consiglieri della banda Craxi. Dà una vaga nausea assistere allo spettacolo di questi cinquantenni malvissuti, sparsi fra le corti dei potentati italiani, che si ricompattano nell’omertà mafiosa ogni volta che la magistratura riesuma un cadavere scomodo, si tratti di Alceste Campanile, il commissario Calabresi o il povero Rostagno”. Un disgraziato che, stato nel novero variatissimo di amici di Mauro, assicurò di averlo sentito dire che prima o poi avrebbe fatto i nomi degli assassini di Calabresi, ci scrisse su un libro, proclamò che le grandi case editrici ne disdicevano la pubblicazione per le pressioni censorie della lobby di Lotta Continua, e alla fine lo pubblicò con una partecipe prefazione di Marco Travaglio, anche lui entusiasta, in odio a me, che lo disprezzo, di preferire l’idea che Mauro fosse stato assassinato dalla mafia di L.C. piuttosto che da quella di Cosa Nostra. Prima che alla sua compagna e alla madre di sua figlia, l’assassinio di Mauro era stato attribuito direttamente a noi, allora imputati nel processo Calabresi, e a me: in aula di tribunale, dal difensore della parte civile, Luigi Ligotti, il 24 novembre del 1993.Avv.Ligotti: “Queste morti misteriose... Anche Mauro Rostagno non è morto per lupara. Non è morto per lupara: è stato fatto tacere! Sicuramente. Ma alla vigilia di un interrogatorio per questi fatti, convocato dal Giudice... Non è morto per lupara. Questa è una storia macabra, ancora da scrivere! Ma questi erano gli uomini: loro mafiosi, perché il loro linguaggio è mafioso /.../ Io dico che la causa della morte di Rostagno –è una mia supposizione- è nei fatti di questo processo, non nella comunicazione giudiziaria: perché non è morto per lupara”.Avv.Gentili: “Signor Presidente, metto a verbale che abbandono l’aula dell’udienza: il difensore di Sofri abbandona l’udienza perché l’accusa di assassinio a una presunta mafia di Lotta Continua e quindi, indirettamente, allo stesso Adriano Sofri, l’accusa di assassinio di Mauro Rostagno eccede i limiti della difesa di Parte Civile e rende insopportabile ascoltare, criticare una discussione in questi termini...”.Presidente: “Avvocato Gentili, l’avvocato Ligotti ha fatto un’affermazione e ovviamente se ne assume la sua... se ne assume la responsabilità”.Nessun avvocato avrebbe potuto per mio conto dire, per qualunque fine di difesa, cose così infami.Andai per mio conto a Trapani la mattina dopo. I responsabili di quella Procura emisero un comunicato in cui si negava recisamente qualunque fondamento alle insinuazioni di Ligotti. A distanza di tre anni, nel 1996, mentre Chicca era in carcere, l’Espresso e Panorama pubblicarono il rapporto di un capitano dei carabinieri del Reparto Operativo di Trapani alla Procura trapanese, datato 4 novembre 1992, e allegato da allora, sotto segreto istruttorio, all’inchiesta sull’assassinio di Mauro. Questo:“Oggetto: -Omicidio in pregiudizio del sociologo Mauro ROSTAGNO.Sembra necessario segnalare alla S.V. quanto il dott. LOMBARDI / il giudice istruttore dell’inchiesta Calabresi, ndr/ ha dichiarato –in un colloquio informale avvenuto il 3 c.m. con lo scrivente:-è convinto che l’omicidio ROSTAGNO sia nato nel contesto di Lotta Continua;-subito dopo aver inviato la comunicazione giudiziaria al ROSTAGNO, era stato avvicinatlo dall’avvocato PISAPIA (figlio del più noto Giandomenico, difensore di fiducia di SOFRI e BOMPRESSI) che aveva chiesto un colloquio del ROSTAGNO con lo stesso magistrato purché tutto si fosse svolto nella più assoluta riservatezza/.../-due o tre giorni dopo questa richiesta, l’On.BOATO aveva convocato la televisione nazionale per dare l’annuncio del c.d. “caso SOFRI” rendendo vana qualsiasi forma di riservatezza;-il ROSTAGNO era al corrente di tutte le motivazioni, compresi esecutori e mandanti, concernenti l’omicidio Calabresi;-il ROSTAGNO aveva rotto i ponti con i suoi ex compagni di lotta e forse aveva intenzione di dire la verità;-la ROVERI e il CARDELLA sanno tutto sull’omicidio CALABRESI e su quanto il ROSTAGNO aveva intenzione di fare;-c’è una fonte che, informalmente, ha dichiarato tutto questo;il MARINO ha detto tutto quanto sapeva.3. Si consiglia alla S.V. un colloquio con il dott.LOMBARDI per approfondire gli spunti investigativi forniti.Un cordiale salutoCap.Elio Dell’Anna”.Sulla fabbricazione di questo madornale falso nessun tribunale ha accettato di indagare. Il giudiceLombardi, istruttore dell’inchiesta Calabresi, smentì tutto con veemenza: peccato che non querelasse anche lui l’ufficiale. Giuliano Pisapia ricordò di aver pubblicamente chiesto che Mauro venisse ascoltato al più presto; e si ripubblicò il testo dell’ultima dichiarazione di Mauro alla sua televisione, il 26 agosto 1988. “Sono stato sbattuto in prima pagina, come si usa dire, a causa di una comunicazione giudiziaria per l’omicidio Calabresi... Ad un mese dalla data della comunicazione, non mi è noto di che cosa sono accusato, in base a che cosa, chi mi accusa... -C’è tempo, non c’è fretta-: questa la voce che mi arriva dal palazzo. Il giudice Pomarici, Pm, è in ferie. Bene. Aspetterò. Ho imparato tante cose nella vita, anche ad aspettare. Ma intanto qualche spiritoso si è fatto strane idee sul mio conto che vorrei subito dissipare. Per esempio, si è fatto l’idea che questa vicenda mi ha messo un bavaglio alla bocca... Insomma, che tutto ciò mi ha dato una calmata. Purtroppo non è così. Non mi sono calmato, perché non ero agitato neanche prima. E non ho sterzato da nessuna parte, perché tendo ad andare dritto per la mia strada, e sono anche cocciuto. Da quasi vent’anni vivo in Sicilia dove ho insegnato nelle università, mi è nata una figlia, ho famiglia, parenti, affetti. Ho messo radici, e non sarà facile a nessuno strapparmele. Non sono ‘di passaggio’... Ho intenzione, se Dio m’assiste, di vedere nascere qui i miei nipotini, e di finire d’imbiancare la mia barba e i miei capelli sotto questo sole, in questa terra... Spero sarà fatta luce anche sull’assassinio di Calabresi, e anche su quello dell’anarchico ferroviere Pinelli, che volò giù dal quarto piano di quella Questura. Visto che ne sono imputato, vorrei anche essere sentito. Ma non ho fretta. Coi comodi del signor Pm Pomarici visto che anche lui ha diritto alle sue ferie. E io alle mie. Qualcuno avrà avuto i suoi motivi per tirarmi dentro a questa sporca faccenda. Ho tutto il diritto di sapere chi e perché, poffarbacco. Ed anche di venirne fuori, con totale restituzione dell’onore mio, e quello di Lotta Continua, che se pur lontana, passata e chiusa, è una fetta della mia vita cui non ho motivo alcuno di rinunciare. Grazie. Spero solo che non mi tocchi il destino del mio amico Adriano Sofri, su cui il giudice ha scritto che non ci sono prove, ma anche che non ci saranno neppure in futuro, né si potranno trovare. Beh, allegria”. Tre anni dopo, al momento dell’arresto della “mantide” Chicca, Ligotti ci riprova. “Le due piste, quella della faida interna a Saman e quella che porta al processo Calabresi, non si escludono a vicenda. Dietro la morte di Rostagno c’è qualcosa di grosso. E la mafia non c’entra niente... Perché insistere sulla mafia? Secondo me continua il depistaggio”. Ligotti è stato l’avvocato di una moltitudine di mafiosi “pentiti” di rango. Quando i pluriassassini mafiosi pentiti, da lui patrocinati, cominciarono a parlare di Mauro, deve aver cambiato idea. Dopotutto, che cosa c’è di più umano? Una catena di pentiti. Vincenzo Sinacori ha raccontato di aver partecipato, latitante, a un colloquio a Castelvetrano tra Francesco Messina Denaro e Francesco Messina, che avrebbero assegnato alla cosca trapanese l’incarico di ammazzare Rostagno. Antonio Patti e Enzo Brusca hanno riferito dell’insofferenza di Cosa Nostra per le inchieste di Rostagno contro gli uomini di Riina in provincia di Trapani, e delle felicitazioni di Riina dopo l’omicidio. Francesco Milazzo ha riferito che Francesco Messina gli disse: “Per Rostagno abbiamo sistemato tutto”. Già Francesco Marino Mannoia aveva sentito in carcere "lamentarsi i trapanesi" per quel giornalista che sfotteva i boss. E Giovanni Brusca: "Fu Riina a dirmi che eravamo stati noi...che era stata Cosa Nostra a uccidere Rostagno". Quanto ad Angelo Siino, aveva addirittura detto ai giudici di essersi “mosso per salvarlo, non volevo che si facesse troppo rumore con quell'omicidio...". Dodici giorni prima di Mauro era stato assassinato dalla mafia trapanese un giudice in pensione, Alberto Giacomelli: perché, raccontò il “pentito” Milazzo, “era arrivato l’ordine di uccidere un giudice qualsiasi”. Mandante: Virga. Per l’omicidio dell’agente penitenziario Giuseppe Montalto, è in carcere, all’ergastolo, Vito Mazzara, il campione di tiro: mandante, anche questa volta, Vincenzo Virga.Nel 1996, con Chicca in galera, Rossana Rossanda impiegò le parole pertinenti. “Non diceva Rostagno di non volere un ghetto d’oro in un mondo di merda? D’oro non ha avuto nulla. Del resto gliene rovesciano addosso, a lui e ai suoi, a palate”. Morto Mauro, il giudice del caso Calabresi si premurò di dire che non aveva mai dubitato di una sua implicazione, che l’avviso gli era stato spedito a sua tutela, che il bravo Leonardo Marino aveva fatto il suo nome e qualche altro solo perchè li credeva membri dell’Esecutivo di L.C., e solo finchè sostenne che l’attentato a Calabresi fosse stato votato dall’Esecutivo di L.C... Un episodio di garantismo, diciamo. Scrissi allora: “Se un nesso c’è fra processo Calabresi e assassinio di Rostagno, esso sta nell’influenza che un addebito infamante quanto infondato può aver avuto sugli assassini nel far ritenere Mauro più isolato e debole”.Naturalmente, tutte le architetture che, in odio a me e a noi, o per amore di torbide perquisizioni dell’intimità altrui, o in antipatia a Claudio Martelli che, come altre mille persone perbene, aveva denunciato la matrice mafiosa, si entusiasmavano di volta in volta della “mafia di L.C.” o della “mafia domestica” e della vedova nera, non erano solo infami: erano rotondi depistaggi in favore della mafia propriamente detta. Del resto noi, io stesso, non ci attenemmo ad alcun partito preso. Non escludemmo alcuna possibilità, tranne quelle che sapevamo impossibili: noi stessi colpevoli verso un nostro compagno e amico dei più cari, o la sua compagna. Dovemmo chiederci –dovrebbe farlo chiunque- che cosa sarebbe successo se fosse stato ammazzato uno di noi: quale mucchio di immondezze si sarebbe smosso per saziare i vili e gli invidiosi. A questo odioso compiacimento cedettero purtroppo anche persone aceccate da un amore geloso per Mauro. Diventò penoso muoversi in questo intrico di ferite e sospetti e affetti traditi: Maddalena è riuscita a non ripiegare mai di un passo. Depistaggio era stato, e deliberato, fin dall’inizio. La tesi che oggi viene fatta propria dal rinvio a giudizio era stata dall’inizio perseguita da poliziotti come Rino Germanà, il vicequestore che nel 1992 sfuggì rocambolescamente e arditamente all’agguato di Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano sul lungomare di Mazara. E all’opposto, la tesi sul torbido intreccio intestino di amanti e affari era stata pervicacemente sostenuta, a scapito di indagini serie, e anzi in pro della cancellazione delle prove, da uomini dei carabinieri. (Non dico “dai carabinieri”, e non solo perchè le generalizzazioni sono per principio da evitare, ma per la lezione amara di questi anni, sulle rivalità nell’Arma e i loro esiti drammatici per il destino di tanti suoi uomini di punta). Il maggiore dei carabinieri Nazareno Montanti, che per primo si occupò dell’indagine a Trapani, nel 1996, diventato colonnello, all’epoca dell’arresto di Chicca, si vantò coi giornali: “Scartai subito la pista mafiosa... Dietro a molte morti che sono passate per storie di corna c’era Cosa nostra, dietro a tante storie che si diceva di mafia c’erano le corna”.E ora, per il caso che una ventenne legga queste pagine, ripubblico da un altro anniversario qualche segno particolare di Mauro vivo. Era nato il 6 marzo 1942, aveva quarantasei anni, chissà quante vite avrebbe avuto ancora. Di tutti quelli che ho conosciuto, era il più pronto a prendersele tutte, le vite che abbiamo in offerta. In una era stato un leader del ´68, come si dice, ironico, geniale, seducente, spavaldo e musicale. Fra gli acquisti senz´altro importanti di quella stagione sta l´amicizia. Ogni tanto succede che le persone diventino amiche dentro larghi e trascinanti cambiamenti del loro mondo, sicché un ideale e un sentimento comune, giorni e notti condivisi, suscitino in loro un´intimità di pensieri speranze e gesti capaci di sopravvivere alla fine della consuetudine, al mutamento dei pensieri e dei gesti, e anche al mutamento di sé. Così ero amico di Mauro, benché dopo la liquidazione di Lotta Continua si scegliesse vite così differenti dalle mie che potevamo riderne allegramente a ogni incontro. Fu inquilino della Macondo milanese e notturna, arancione di Poona, bianco della Comunità di Saman, pedagogo della "scuola del Sud", denunciatore intrepido della mafia siciliana, e chissà quante cose ancora che non ho saputo. Quando tanti amici venuti da tutte quelle vite seguirono in una Trapani stupefatta il funerale di Mauro io mancavo, perchè ero agli arresti, accusato di aver fatto da mandante di un altro omicidio. Andai alla tomba di Mauro a novembre. E´ in un camposanto di Valderice, in cima a uno sperone, dirimpetto a Erice. Ci tira vento, e la vista spazia sul mare omerico e le isole. E´ strano come sia difficile comprare dei fiori freschi a Trapani: o sarà perché ce ne sono già dovunque. Vanno forte i fiori artificiali. Ma nonostante il novembre i campi attorno erano pieni di iris selvatici e di calendole arancioni. Andai poi a visitare la sua stanza, a guardare i suoi pochi libri - io avevo, nel frattempo, accumulato migliaia di libri - a guardare le cassette delle sue intrepide denunce televisive contro i mafiosi, ad abbracciare Monica, la sua figlia di quando aveva avuto vent´anni, e Maddalena, che era nata dentro Lotta Continua e ora aveva quindici anni e un cane pastore bianco con la coda dipinta di azzurro. C´era, ospite della comunità, una ragazza autistica di nome Veronica, una specialmente sensibile e intelligente, di cui Mauro si era preso più cura. Veronica comunicava solo attraverso brani di canzoni scelti dentro una sua pila di dischi. Quando seppe della morte di Mauro, Veronica mise su la canzone che dice: "Signore, è stata una svista, abbi un po´ di riguardo per il tuo chitarrista". Mauro aveva avuto paura di essere brutto, da bambino. Venuto il momento si era fatto crescere la barba per nascondercisi dietro, e aveva scoperto di essere bello, e somigliante al Che - o piuttosto, mi sembrava, a un moschettiere della regina. Alle elementari, raccontava, "avevo difficoltà a esprimermi, ero balbuziente, ero bravo negli scritti ma non negli orali". Da grande diventò, a Trento e nelle assemblee di tutta Italia, un leader carismatico e un oratore smagliante. Negli scritti andava meno forte, ma per un´impazienza ai pensieri troppo ordinati e pettinati. Piuttosto, era un magistrale coniatore di slogan - e in qualche angolo scriveva poesie. Suo padre aveva suonato per diletto la chitarra classica, lui alla fine la ereditò e ci cantava sopra, un giorno la regalò a un giovane della comunità perché gli era simpatico. Quando morì Jimi Hendrix Mauro faceva il giornale di Lc e pubblicò una sua foto e la didascalia: "Suonava e cantava da dio. Morto a 24 anni per eccesso di droga. Con lui i padroni hanno vinto". Del mimetismo, che era il contrassegno della nostra "militanza", era un vero maestro. Poteva diventare un operaio (lo era stato), uno studente di sociologia, un docente di sociologia, un proletario occupante di casa di Palermo - restava maschio, naturalmente: questo fu il limite insuperato del nostro mimetismo."Ci spiegava le cose che facevamo in un modo così bello che noi non avremmo potuto accorgercene", avrebbero detto gli antichi operai della Philips di Monza, in una serata dedicata al suo ricordo. Era un poliglotta politico, parlava con entusiasmo e applicazione il dialetto di un operaio delle valli trentine, o il brianzolo, o il palermitano. In Sicilia, dove si era trasferito a fare il dirigente di Lotta Continua, guidò una clamorosa occupazione popolare, a partire dallo Zen, nella cattedrale di Palermo, conclusa con una specie di adesione dello stesso cardinale arcivescovo. Mimetico, Mauro era però inimitabile. Le sue idee erano inservibili senza di lui, fantastiche in lui. Le sue idee erano meno importanti di lui: ci sono persone per le quali è vero il contrario, e non hanno da starne allegri. Più delle idee esplicite, c´era nel trascinante mimetismo di Mauro qualcosa che contava di più, e durò sempre: un lancinante desiderio di essere amato. Conquistava gli altri perché voleva essere amato, e intanto era prodigo di sé. Più tardi fu pronto a deplorare il leaderismo e il maschilismo di allora, e a rimpiangere di non essere stato più amato "per sé". Era trionfalista, come noi allora: e anche spaventato e allarmato, come noi. A differenza della maggioranza di noi, illusi che la maturità della lotta di classe tenesse l´Italia al riparo dal flagello della droga, sapeva che cosa sarebbe successo - era già successo. Quando salutammo la rivoluzione che non avevamo fatto, e ci salutammo reciprocamente, se ne andò con una tristezza ma senza risentimenti. (Venne a cercarmi una volta in piena notte, da un´altra città, per dirmi che aveva avuto un pensiero urgente: che io non ero stato un padre in Lc, ma una madre. E ripartì). A Trento, aveva festeggiato i vent´anni del Sessantotto con un discorso pubblico in cui spiegava che eravamo stati sconfitti, e aggiungeva: "Per fortuna". Infatti, l´abbiamo scampata bella.

venerdì, maggio 22, 2009

Piccola posta 21 maggio 2009

Marco Pannella, l`ennesimo, ha parecchie buone ragioni. Si riassumono bene nel sondaggio dal quale ha preso le mosse questo suo nuovo sciopero della fame e della sete (ennesimo, come si usa dire: i digiuni di Marco sono ennesimi per definizione, da mezzo secolo a questa parte). Quel sondaggio diceva, pare, che gli italiani cui è arrivata la notizia che i radicali si presentano alle elezioni con la lista Bonino-Pannella sono il 3 per cento. Cioè che il 97 per cento non lo sa. Ora, immaginare anche solo teoricamente, perché le garanzie democratiche devono essere almeno teoriche, che si possa mirare a superare il 4 per cento dei votanti quando solo il 3 per cento dei votanti sa dell`esistenza dei votandi, è impossibile: viene un risultato col segno meno. In teoria, sempre, i radicali sono fuori gara, e corrono solo per far meglio conoscere il loro pensiero sulla democrazia italiana dal Dopoguerra a oggi. Non avrebbero dovuto arrivare a questo punto. Ci sono arrivati perché le due altre liste che avrebbero potuto - "in teoria" - accoglierli, il Pd e Sinistra e libertà, non li hanno voluti. Questa chiusura è molto grave. Ma i radicali avrebbero dovuto impedirla, o farla pagare molto più cara: così almeno penso. Il fatto è che, lo ripeto, i radicali sono i migliori fra i nostri parlamentari europei e fra i parlamentari europei in generale. I più affezionati a una bella idea dell`Europa, i più capaci di fare un buon uso della loro carica per difendere le buone cause nel mondo. Personalmente per Marco l`uscita dal parlamento europeo sarà – sarebbe - la più dolorosa delle conclusioni, perché in quel parlamento sta con pieno merito da trent`anni, salve le interruzioni per gli avvicendamenti di cui possono andare fieri. Dunque lo sciopero della sete di Marco - chi ne metta in discussione o perfino ne derida la durezza non sa di che cosa parla, e non ha visto la faccia di Marco e le sue parole prosciugate - prende anche `il sapore del commiato e del testamento del vecchio leone dalla criniera ottuagenaria spinto fuori dalla sua foresta. Marco vuole ancora una volta che gli elettori siano informati per poter decidere, ma forse, senza volere, vuole anche lasciare un segno ultimo nella foresta dalla quale sta per essere esiliato. Tutte le sue buone ragioni hanno ricevuto parecchi riconoscimenti, mi pare, e ciò sembra dare alla fine ragione alla sua scelta ennesima. Ma gli danno torto. Lui tira una corda che non è affatto saldamente nelle sue mani, come si illude che sia. Lui dispiace a chi gli vuole bene. Se quando le mie righe usciranno, la mattina di giovedì, non avrà già bevuto, ripudierò la sua amicizia. Lo so, non vale niente. Per me sì.
Adriano Sofri

venerdì, maggio 15, 2009

Piccola Posta 16 maggio 2009

I cento milioni di lettori del Corriere della Sera hanno ricevuto oggi, a tutta pagina, la seguente notizia: “Adriano Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi”. Per la verità, la notizia non era proprio quella, ma quest’altra: che secondo Giampiero Mughini io “sapevo ecc.”. Più precisamente, non era nemmeno una notizia, perché Mughini ha avuto la tenacia di scriverlo e dirlo duecentomila volte negli ultimi vent’anni. La notizia è che ora Mughini ne ha fatto un libro. La pagina anticipatrice è scritta da Aldo Cazzullo con Mughini: due che credono di conoscermi bene, e uno dei due di volermi bene. Bene: tratterrò delle cose lette gli unici due dettagli che mi interessano. Il primo. Mughini era a Pisa il 15 maggio 1972, giorno in cui si svolsero due comizi di commemorazione dell’uccisione, per bastonate di polizia e per abbandono in una cella, del ragazzo anarchico Franco Serantini. Parlava Pajetta in una piazza, parlavo io in un’altra. Secondo Marino, fu alla fine di quel comizio che “Pietrostefani e io lo avvicinammo” per confidargli l’incarico omicida. Si provò subito che Pietrostefani non era a Pisa. Allora Marino disse che fu lui ad avvicinare me, prima per un colloquio di alcuni minuti, poi per un rapidissimo scambio di battute, su un marciapiede fuori da un bar, dopo aver aspettato alla fine del comizio che la folla sciamasse e io, attorniato da molte persone, sciamassi con lei. Osservai che il comizio si era svolto sotto una pioggia “battente e insistente”, che “non aveva mai smesso di cadere” (così i giornali del giorno dopo, oltre che i ricordi di chi c’era e le fotografie numerose), e che Marino, essendosene dimenticato, aveva descritto un’implausibile passeggiata di gruppo alla volta del bar. Citai invece le persone che mi avevano accompagnato a casa subito dopo la conclusione del comizio –persone che testimoniarono, che sanno come andò la cosa, e non si sono mai date pace per la mia condanna. Ancora: Marino disse che dopo quel brevissimo scambio di battute sul marciapiede che gli diede “la conferma” del mandato a uccidere, “salutò Sofri e ripartì per Torino”. Falso: obiettai che era venuto nella mia casa pisana dopo cena (il comizio era finito prima di cena) e vi si era intrattenuto con tanti altri, come succedeva dopo una manifestazione. Marino se ne ricordò improvvisamente: vero, era passato, e del resto era del tutto naturale che si passasse da casa mia... Questa farsa esaurisce tutta l’imputazione nei miei confronti. Allora: Mughini, dopo l’esplosione del “caso” (1988) testimoniò in varie occasioni pubbliche sul dettaglio della pioggia. Oggi, vent’anni dopo, dice a Cazzullo che “non è vero che, a comizio concluso, sarebbe stato assolutamente impossibile, a causa della pioggia battente, bivaccare ancora un po’ in piazza... La pioggia in quel momento era finita... C’era stato, lo dico in via di ipotesi, il tempo perché almeno un attimo si incontrassero”. La gravità e l’irresponsabilità, oltre che il grottesco, di questa memoria riaggiustata “in via di ipotesi” equivale, diciamo, a un tentato omicidio: perché la mia proclamazione di estraneità non è nè un argomento logico nè un proclama morale, ma la scrupolosa dimostrazione della falsità di un’accusa sconfessata e calunniosa. Secondo passo della pagina del Corriere che mi interessa: Mughini accenna al mio (altrimenti innominabile, no?) libro “La notte che Pinelli”, per dire che io “un po’ credo e un po’ ammicco a inumane panzane” sulla morte dell’anarchico... Compresa “l’evocazione di una macelleria sudamericana da contrapporre simbolicamente al lutto e al pudore di cui traboccava il recente e fortunatissimo libro di Mario Calabresi. Un libro che per gli ex di Lotta continua è stato un schiaffo in volto più violento che non una sentenza di tribunale”. Vedremo se altrove Mughini prova ad argomentare questi temerari giudizi sul mio libro. Io, che so il fatto mio, e non sono sospetto di attività promozionali, dico serenamente che nessuno potrà più parlare a ragion veduta della morte di Pinelli senza misurarsi col mio libro, la sua documentazione e i suoi argomenti. Questi i dettagli “nuovi”. La requisitoria di Mughini contro persone già di Lc o persone che non hanno creduto alla conclusione dei nostri processi è affar suo: la mia estraneità voleva e vuole dire l’estraneità di Lotta continua. Il resto è solo tempo che passa. Io l’ho passato a mio modo.
A. Sofri

martedì, maggio 05, 2009

La peste italiana: c'è chi dice NO!

sabato, maggio 02, 2009

Se Veronica diventa la preda

A. Sofri Repubblica 1 maggio

Gentile Silvio B., le dirò alcune cose sincere, da uomo a uomo. Noi uomini non siamo abituati a dirle, e tanto meno ad ascoltarle. Vale per quasi tutti noi, non solo per i bugiardi più spericolati come lei. Noi (con qualche rarissima eccezione: ci sono anche uomini davvero nobili d'animo, ma non ci riguarda) sappiamo bene di che porcherie si tratti, sia che le pratichiamo, come lei ostenta di fare, sia che ci rinunciamo, perché abbiamo imparato a vergognarcene, o semplicemente perché non abbiamo il fisico. Lo sa lei, lo so io.Mi hanno raccomandato di non perdermi i giornali a lei vicini: non li ho persi. Ho scorso gli editoriali, ho guardato le fotografie. Sa che cosa ho pensato? No, non che mi trovavo di fronte a qualche colonna infame, questo era ovvio, l'ha pensato chiunque. Ho guardato le fotografie - una giovane donna, un'attrice, che si scopre il seno - e mi sono chiesto come sia stato possibile che una giovane donna così bella dedicasse la propria vita a uno come lei. E' successo anche a me, mi interrogo anch'io: come sia possibile che giovani donne così belle e intelligenti dedichino la propria vita a uomini come noi. Naturalmente, un po' lo sappiamo come succede. Che carte abbiamo in mano, per barare.Siamo volgari abbastanza per riconoscere la reciproca volgarità. Semplicemente, ci teniamo a bada un po' di più di quanto faccia lei. Dicono tutti che gli italiani la invidiino. Sinceramente, nemmeno a questo credo. La guardo, dalla testa ai piedi, e non ci credo. Gli italiani hanno, come tanti maschi del mondo, un problema con la caduta dei capelli. Ma sanno bene che la sua non è la soluzione. Lei stesso lo sa, e non deve farsi troppe illusioni. Il cosiddetto populismo è traditore. Uno crede di aver sostituito ai cittadini un popolo, al popolo un pubblico, al pubblico una plebe: ed ecco, proprio mentre passa sotto l'arco di trionfo del suo impero di cartapesta e lancia gettoni d'oro, parte un solo fischio, e la plebe d'un tratto si rivolta e lo precipita nel fango.L'Italia è il paese di Maramaldo, e io non voglio maramaldeggiare su lei: benché sia ora di rovesciare le parti di quel vecchio scurrile episodio, e avvertire, dal suolo su cui si giace, al prepotente che gl'incombe sopra che è un uomo morto. Noi c'intendiamo: abbiamo gli stessi trucchi, dimissionari o no, pentiti o no. Siamo capaci di molto. Di esibire le nostre liste alle europee, e vantarcene: "Dove sono le famigerate veline?" dopo aver fatto fare le ore piccole ai nostri esasperati luogotenenti a depennare capigliature bionde. Di dire: "La signora" (non so se lei ci metterebbe la maiuscola: fino a questa introspezione non arrivo), sapendo che la signora di noi sa tutto, e anche delle liste elettorali prima della purga. Magari la signora la lascerà, finalmente, e lei le scioglierà addosso la muta dei suoi cani. Diventerà la loro preda prediletta. Ma nel Parlamento Europeo (le maiuscole ce le metto io: un tocco di solennità non fa male) ci si ricorderà di Veronica. Capaci perfino di chiamare "maleodoranti e malvestite" le deputate dell'altro schieramento: ci ho pensato, e le dirò che almeno a questo non credo che avrei saputo spingermi. In fondo lei è fortunato: le circostanze le permetteranno fino alla fine di restare soprattutto un poveruomo desideroso di essere vezzeggiato e invidiato e lusingato da ammiccamenti e colpi di gomito dei suoi sudditi, a Palazzo Chigi o sul prossimo colle, mentre padri di famiglia minacciano di darsi fuoco perché la loro bellissima bambina non è stata candidata, e vanno via contenti con la sua camicia di ricambio. In altre circostanze avrebbero potuto succederle cose terribili.Nel giro d'anni in cui lei e io nascevamo morirono chiusi in due distanti manicomii, perfettamente sani di mente, la signora Ida Dalser e suo figlio Benitino, che facevano ombra al capo del governo. Allora lo Stato era più efficiente di oggi, e misero mano a quella soluzione medici, infermieri, direttori di ospedali, questori, prefetti, commissari di polizia, segretari di fiducia. Altro che lo scherzo delle belle ragazze nelle liste elettorali. Dipende tutto dall'anagrafe.Per ora molti italiani (e anche parecchie italiane: le è riuscito il gioco di far passare la cosa come una rivalità fra giovani e belle e attempate e risentite) ricantano ancora il vecchio ritornello: "Tra moglie e marito...". Di tutti i vizi nostri, quello è il peggiore. E' la incrollabile Protezione civile dei panni sporchi da tenere sporchi in famiglia, delle botte e delle violenze a mogli e bambini, delle malefatte di padri spirituali al segreto del confessionale, fino a esploderci nelle mani quando il delitto d'onore appena cancellato dal nostro codice si ripresenta nelle figlia ammazzata in nome di qualche sharia. Non mettere il dito: no, a condizione che non si sentano pianti troppo forti uscire dalle pareti domestiche. O, anche quando la casa è così ricca e i muri così spessi, non sia la moglie a far sapere che cosa pensa. Che né il denaro né il soffio della Storia (Dio ci perdoni) le basta a tacere il suo disgusto.Invidiarla, gentile presidente? Mah. Ammetterò che, reietto come sono, una tentazione l'ho avuta. Non mi dispiacerebbe avere un ruolo importante nell'Italia pubblica di oggi, per le nuove opportunità che si offrono a chi sappia pensare in grande. E' da quando ero bambino che desidero fare cavallo uno dei miei senatori.