domenica, novembre 22, 2009

Recensione di A, Sofri

da "Repubblica", domenica 23 novembre 2009

“Quando muore un (vecchio) uomo, è come se bruciasse un’intera biblioteca”. Quanti libri aveva letto Piergiorgio Welby, quante donne aveva amato e sentito –“come il rumore di fondo del mare”- e quanti buchi si era fatto. Torna il nome di Welby, e ci si chiede a che punto siamo con la vita che finisce: malissimo punto, perché la buona intenzione di votare una legge civile sul cosiddetto testamento biologico ha finito per lastricare, con l’oltranzismo della maggioranza introvabile di centrodestra (e complici dal centrosinistra), l’usurpazione medica e la sopraffazione della nutrizione artificiale obbligata. Perché questa bravata non si compia si può solo auspicare l’alleanza ragionevole fra chi, in qualunque punto dello schieramento politico, preferisce l’astensione da una legge ulteriore alla pessima e più invadente fra le leggi. Ma farebbe un gran torto al ritorno del nome di Welby piegarlo a un’occasione per ridiscutere dei diritti della vita che finisce, di cui era diventato un alfiere, come Luca Coscioni, come la famiglia Englaro e ormai tanti altri. Questa riduzione del Welby morto a simbolo di una gran battaglia aveva già investito il Welby vivo, facendone un morente. Un imprigionato nel suo letto senza scampo come il condannato nella cella ultima. Noi, come sentivano gli antichi prima che i loro dei fossero eclissati, siamo i mortali, ma facciamo come se niente fosse, tanto più ora, che si imbonisce il differimento sine die dell’esecuzione. Noi facciamo jogging, sorpassiamo quello in carrozzella, ci diciamo: “Come fa! Al suo posto mi sparerei subito!” –e riprendiamo l’ascolto in cuffia. Ci separiamo sempre più, salvo che tocchi a noi, dai morenti, dead men nemmeno più walking, quelli per i quali la sentenza è stata pronunciata ad personam, e allegata anche una data di scadenza. “Ocean terminal”, il titolo del “romanzo” di Welby, è se non sbaglio l’insegna di un ipermercato. Terminale è la vita dei malati irreparabili, e l’aggettivo recente ha l’effetto di tramutarla in non-vita. Non sono vivi: soltanto, non sono ancora morti –non del tutto. Il “romanzo” non è l’opera di uno “che sta morendo”, non è un “testamento”. E’ il diario di un uomo dalla passione e dal talento esuberante. Opera incompiuta e diseguale, del cui montaggio si potrà discutere (il curatore, Francesco Lioce, ne dichiara i criteri), ma di una dirompente forza di cose, pensiero e linguaggio. Dura, anche maledettista, ma a ridosso di una vera maledizione. Si evoca il Cèline del Viaggio al fondo della notte, si potrà evocare il Pasolini di Petrolio. Ma Welby ha una personalità e una sicurezza sua di scrittore e di poeta, appena scalfita dalla rifinitura mancata. Lo sapeva chi avesse letto i suoi scritti editi, e specialmente gli editoriali sul suo blog, il “Calibano”, in cui si trovavano già brani dello zibaldone di “Ocean terminal”. Che restituisce a Welby la sua tremenda e anelante vita, la sua lunghissima stagione all’inferno. Sia detto di proposito, perché ricordare di lui solo il funerale assente e la commozione di un paese in uno dei suoi momenti migliori sarebbe come dimenticare di Rimbaud la morte disperata e l’amputazione e la corrispondenza ansiosa col distretto militare e i traffici africani. Il “romanzo” di Welby non tradisce il suo impegno civile, e lo perfeziona. Aveva scritto a Napolitano: “Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica”. Nel libro: “Ho Chi Min e il Che mi fissano con disapprovazione dalla parete... Ma vaffanculo, che cazzo ne sapete voi della guerra che combatto ogni giorno! Delle ritirate, delle imboscate, delle umilianti rese incondizionate. Mi hanno fatto prigioniero il giorno stesso che sono nato. Io ancora non lo sapevo, ma i miei cromosomi malati sì che lo sapevano! /.../Era facile fare gli eroi nella jungla cambogiana o contro i governativi in Bolivia… Io non finirò mai sulle T-shirt degli ipervitaminizzati cuccioli dell’Occidente o sugli striscioni dei centri sociali o sulla parete di qualche sezione di Rifondazione. No! Io finirò in un centro di rianimazione con gli occhi fissi al soffitto bianco e il corpo pieno di tubi. Vorrei vederli al mio posto questi morti sul campo di battaglia con il sole negli occhi come i tori di Hemingway”. Dal corpo dei malati al cuore della politica –è lo slogan che i radicali hanno fatto proprio, ed è molto più che uno slogan. Leggendo il libro postumo di Welby sarete colpiti e scandalizzati, commossi e offesi, e potrà tornarvi alla mente un altro slogan di quel Che (dal suo letto Welby lo manda affanculo, ma lo sa che non era facile fare l’eroe in Bolivia, e non si moriva col sole negli occhi): “Bisogna indurirsi senza perdere la propria tenerezza”. Ne fece di guai quel motto. Per una volta, lo si può riscattare, l’ha riscattato Welby, nella sua scrittura dura, in cui il nome di tenerezza non compare, ma basta saperlo leggere.