Piccola posta
da Il Foglio del 11 marzo 2008
di Adriano Sofri
Mi piacerebbe che Marco Pannella fosse senatore a vita. Invece non è senatore (lo era di diritto nella scorsa legislatura, come riconobbe fra altri Giuliano Amato, ma non lo fu di fatto) e non è nemmeno candidato, e quanto alla vita ci sta di nuovo scherzando seriamente con lo sciopero della sete. Perfino su questo giornale piuttosto eclettico nell’ospitalità, anche durante i periodi più monomaniacali, Pannella è meno di casa, per effetto di una vitanda contrapposizione fra antiabortisti e abortisti, denominazioni incontrollate. Se Pannella fosse senatore a vita, titolo che si addice a chi abbia accumulato grandi meriti presso il proprio popolo e abbia un temperamento refrattario all’ovvietà, non succederebbe che si fissassero veti al suo nome, cosa decisamente scortese e paradossale. Pannella (con Sergio D’Elia, del resto) ha appena sospinto il governo italiano, e personalmente Prodi e D’Alema, alla bella campagna sulla pena di morte. Non è ragionevole pensare che si possa far tesoro dell’impegno di Pannella sulla pena di morte e ritenerlo indigeribile nel Partito democratico o nelle sue liste. E’ brutto che il Pd adotti un metro opposto nei confronti dell’Italia dei Valori, dando prova di un opportunismo perbenista, per usare un eufemismo. Non è bello che, essendoci posto per tutti gli uomini di buona volontà, e a maggior ragione per le donne, il Pd lasci passare senza batter ciglio pronunciamenti di pessimo gusto clinico e di biologismo pararazzìsta come quelli che paragonano il partito dei radicali a una metastasi e gli individui radicali a cellule staminali capaci di proliferare infestando i partiti altrui. Che un simile linguaggio si presenti come cristiano fa una grande impressione. Intendiamoci: me ne scandalizzo fino a un certo punto. Conosco la differenza fra le cose come dovrebbero succedere e le cose come succedono. Il Partito democratico è una gran bella idea, la sua esecuzione è tortuosa, inceppata, singhiozzante. Questo non riduce il tifo nei suoi confronti, ma lo rende più premuroso e meno retorico. I radicali, come li conosco io, sono fra i più lealmente impegnati alla riuscita dell’idea del Pd: ma non bisognerebbe render loro la vita troppo difficile, e soprattutto, eccedere in umiliazioni. Niente si paga caro al mondo quanto le umiliazioni inflitte agli altri. I radicali hanno accettato di stare nel Pd alle condizioni imposte loro, che non erano né del tutto prepotenti, né del tutto generose, e questa mezza via lascia l’amaro. In particolare, semina e coltiva l’insinuazione di una diffidenza fra realismo di Emma e idealismo di Marco e altri simili stereotipi assurdi e malevoli. Marco aveva cominciato uno sciopero della sete in nome della fedeltà alla parola data: io non l’avrei fatto, e mi di- spiace che l’abbia fatto. E non perché ci sia troppa sproporzione fra un ricorso estremo come lo sciopero della sete e la fede nell’osservanza dei patti, che è condizione decisiva per un mondo decente, ma perché andava contro la scelta di agire per così dire con una doppia lealtà, la propria e quella in supplenza di un interlocutore distratto, e invece accresceva, anche contro l’intenzione, una diffidenza e un risentimento reciproco. Marco pensava forse di scontare lui il debito morale contratto dal vertice del Pd nei veti e poi nell’elusione degli impegni presi: nobile idea, ma occorre pure che i gesti si commisurino alle circostanze. La vita quotidiana non può svolgersi tutta sul filo del rasoio, né sul filo dell’acrobazia negoziale. Inoltre, con la sommarietà che mi è imposta dalla fretta di questa letterina, vorrei che Marco ripensasse ai suoi troppo immediati paragoni fra questo tempo e "gli anni Trenta", che ottengono un effetto opposto e respingente, e trattasse più serenamente e, se posso dir così, francescanamente, prepotenze ed esclusioni mediatiche. Tenesse in miglior conto quel consiglio calzaturiero, capace di evocare insieme fisicamente Gesù. Francesco e Gandhi, sulla polvere da scuotere dai propri calzari. Bene: Marco ha continuato lo sciopero della sete - appoggiandosi, ieri, a qualche flebo - persuaso di non doverne mutare l’intestazione, perché davvero la fede nella parola è la condizione del diritto e della pace nel mondo, cioè di quell’aspirazione troppo grande per essere un programma politico e troppo urgente per non esserlo, che sta nell’indizione del Satyagraha mondiale cui chiama da tempo, rinviandone l’avvio, per la sensazione di un suo significato decisivo. Ecco che ora la prosecuzione dello sciopero della sete è diventata quell’avvio, ed è giusto avvertire che di questo si tratta, e non dello strascico di una controversia con Bettini o Franceschini sulle sei o sette o nove candidature. Questa campagna, la più megalomane - è la fatica di uno scarabeo stercorario che cerca di far rotolare tra le sue zampe il pianeta fino al riparo - è anche la più sensata e saggia. Proclama che il mondo è sull’orlo del vulcano e annuncia di volersene occupare. Una volta constatata la smisuratezza e la pazzia, si potrà apprezzarne qualche dettaglio. La lezione esemplare che potrebbe venire a israeliani e palestinesi da una riflessione sulla bellezza del prendersi in parola, nella buona parola. La singolarità bizzarra e sconosciuta alle diplomazie professionali di presenze come gli Uiguri irredentisti ma non violenti - quel popolo ché la gente impara a conoscere in questi giorni perché la Cina ne denuncia il terrorismo contro le Olimpiadi. La cauta vicinanza del Dalai Lama. La partecipazione di testimoni coraggiosi di angoli di mondo oppressi e ignorati dai regolamenti diplomatici. Le persone responsabili e di buona volontà farebbero bene a prendere sul serio questa iniziativa, salvo doversene dolere - o congratulare, vestendo penne di pavone quando l’ennesimo sassolino di Pannella si fosse mutato in una valanga. E se non succedesse, bisognerebbe ammettere almeno che lui, a modo suo, ci abbia provato. Tutto ciò basta a mostrare come l’iniziativa di Pannella non possa affatto ridursi a una infantile e piccata riconversione dello sciopero della sete romano in sciopero della sete planetario. Al tempo stesso, la continuità dei due orizzonti mi fa pensare che Marco stia replicando, anche personalmente, anche per amor proprio, a un misconoscimento anche strettamente personale, contro di lui, e voglia rinfacciare all’interdizione che lo ha offeso non solo il suo passato, ma il suo presente e il suo futuro. Del resto, pressoché da sempre di Pannella si fa questo abuso, come di un irregolare postumo, lodato per il passato e messo alla porta per il presente: e lui insiste a essere vivo e vegeto. Vegeto, però digiunante di pane e acqua. Ma ragionevolezza e apertura alla riflessione e alla conversazione vogliono che smetta, e offra con generosità il suo gruzzolo, Satyagraha mondiale compreso, allo sforzo per rendere una speranza politica e umana, come quella del Partito democratico - di cui fu oltretutto lui a brevettare l’intenzione: della sua bella idea, e della sua faticosa e spuria realizzazione. Ero arrivato a questo punto della mia posta, quando sento che Marco si sarebbe detto disposto a candidarsi nelle liste socialiste, e mi cadono le braccia. Le liste socialiste sono degnissime, e forte è il rammarico per la loro estraneità al Partito democratico. Ma la candidatura di Marco, anche solo ventilata, suona ora come una sconfessione della decisione presa dai radicali italiani, e anche da lui - soprattutto, se posso dirlo, da lui, compreso un sacrificio d’amor proprio personale - e inficia un impegno convinto dei radicali e di chi ha per loro simpatia per un successo del Pd che favorisca il suo futuro più aperto, libero e critico. Anche il vetrinismo può essere una buona cosa - ragazze intelligenti e bravi generali, federmeccanici sventati e metalmeccanici commossi, guardie e ladri - se preluda a una progressiva uscita dalle vetrine sui marciapiedi e nelle strade. Se restasse vetrinismo (Veltroni che candida Berlusconi e Berlusconi che candida Veltroni, come dice la Littizzetto, mia segretaria in pectore) avremmo sempre il tempo di vedere un monello di passaggio, Emma o chissà, che tiri una sassata alla vetrina. Però la Littizzetto ha detto l’altra sera: "Marcone, ora finiscila!" Io le darei retta. Quanto a questa boutade della candidatura socialista, mi auguro che si tratti di un ennesimo incidente di strada, nel traffico impazzito di questi giorni, e che Marco stesso voglia sbrogliarlo con la serenità e la generosità che gli conosco. L’alternativa è qualcosa di meschino e increscioso.
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