Sofri su Repubblica
La Repubblica 11 febbraio 2008
di Adriano Sofri
L’altra sera, tardi, ho chiamato Marco Pannella. L'avevo sentito troppo amareggiato, alla radio, mentre commemorava Giordano Bruno e un po' se stesso. Sei in una botte di ferro, gli ho detto, in una torre argentina. "Sono qui al partito, infatti". E come mai, a quest'ora? "Perché a casa c'è meno luce". Marco, che vuol dire che a casa c'è meno luce? "Mah, devono essersi fulminate delle lampadine...". Ma allora, cambiale! "Ah no, non sono le lampadine, è che mi si è abbassata la vista. Allora ho portato la macchina da scrivere qui al partito...". La macchina da scrivere? "Sì, non ho ancora imparato a usare il computer. Fummo i primi a promuovere Internet, ma io... Solo che qualcuno dev'essere passato, e senza sapere che era la mia, ha portato via la macchina da scrivere". Poi abbiamo parlato di politica. Ma ormai mi figuravo questo vasto spettro che si aggirava per le stanze notturne di Torre Argentina cercando la sua antica macchina da scrivere, nel febbraio del 2008. Prima avevo chiacchierato un po' con Emma Bonino, anche lei amareggiata dalla messa al bando da parte del Pd, coi ministri del quale aveva lavorato in pieno accordo per due anni, e soprattutto offesa dall'ennesimo invito a ripudiare Pannella e correre, lei sì "da sola", e non male accompagnata. "Come se non volessero capire che nessuna ingiunzione, nessuna convenienza, mi indurrà a rinnegare un legame politico e umano che è, lui davvero, non negoziabile". Vorrei, con questo esordio aneddotico, lodare una lealtà e un affetto preziosi a segnare il valore della passione politica e i confini dentro i quali deve sapersi tenere. Io faccio affidamento sul Partito democratico e sul suo leader, mi rammarico che le sue scelte si siano compiute in ritardo, e sotto i colpi della decadenza - di un'emergenza della monnezza politica, per così dire. Mi congratulo della decisione di "andare da soli". Tuttavia non capisco perché questo "andare da soli" venga spinto fino alla superstizione, quando ci sia una concordia di programmi e un'affidabilità di comportamenti. La partecipazione al governo dei radicali italiani non è più stata una circostanza "tattica", come potevano far temere i precedenti, ma un reimpianto saldo dentro la vicenda della miglior sinistra. Si deve soprattutto a loro il bel voto per la moratoria della pena capitale. Nel linguaggio burrascoso (ma, col senno di poi, penetrante) che gli è proprio, Pannella aveva dichiarato che nella lotta fra Capaci di tutto (il centrodestra) e Buoni a niente (il centrosinistra) bisognava stare coi secondi, e starci senza riserve, come "l'ultimo giapponese", e l'ha fatto. La pattuglia radicale non ha avanzato veti e ultimatum, gran voluttà dei commensali minori del governo Prodi. Venivano da una stagione dubbia, in cui avevano rischiato di sovrapporre americanismo e bushismo, e liberismo e feticismo del mercato: tentazioni abbandonate, con l'aiuto robusto dei fatti. Si sono guardati dal cavalcare la cresta d'onda dell' "antipolitica", pur vantando una primogenitura nella denuncia della partitocrazia. Piccoli come sono, pensano al mondo in grande, e sono davvero europei. Hanno anticipato di anni, avversari ma affini alla Chiesa, sulla questione della persona e del corpo, un'agenda cui la politica arriva in affanno e soggezione. E sui temi più controversi preferiscono all'illusione dell'onnipotenza delle leggi la fiducia nelle trasformazioni dei modi di pensare e di vivere. Nessuno ignora, e tanto meno Pannella che Pannella è un gran rompicoglioni, e che prendere un cappuccino con lui esige una dose speciale di cristiana pazienza. D'altra parte le persone cordiali, quelle che non pensano che il tempo sia soltanto denaro, provano una benevolenza per Pannella per le stesse ragioni che lo rendono un rompicoglioni, e anzi di più ora che "perde il filo" - lo sto citando. Ammettiamo che una percentuale dell'ostracismo imposto a Pannella abbia questa umanissima spiegazione. Ma non si vorrà scambiarla per la vera ragione. Il rifiuto opposto a un apparentamento coi radicali - per esempio, nella dignitosissima forma di una Lista Bonino - che significa la scomparsa dei radicali dal parlamento, è un grazioso regalo da portare alla propria bella. Non chiederò se sia davvero conveniente: direi di no, perché non conviene mai eccedere in zelo. Piuttosto, è un buon segno? No senz'altro: perché l'unico veto accettabile all'interno di un partito che si voglia nuovo nella stessa concezione della politica, è quello contro chi pretenda di imporre veti. I radicali non si sognano di farlo. E suona surreale sentire rispettabili esponenti di Opus Dei spiegare a nome del Partito democratico l'incompatibilità dei radicali. Con un piccolo slittamento di tema, osservo che la nettezza "decisionista" di Veltroni è, coi tempi appena corsi, benvenuta: la politica paga un prezzo alto all'inefficacia, e la sua versione nel centrosinistra testé suicidato portava quel prezzo alle stelle, con gli ultimatum di mosche cocchiere. Dunque le scelte d'imperio che Veltroni va compiendo, quando la stalla si è svuotata dei buoi, hanno una doppia giustificazione. E la sua investitura, già limpida (come al congresso ultimo dei Ds), è diventata insieme pleonastica e plebiscitaria con le primarie. Però il consenso, appena increspato da qualche mugugno, che l'accompagna ora, è d'occasione: i tempi di urgenza elettorale e di compilazione di liste sono i meno propizi agli sgambetti di notabili e correnti. Ma gli sgambetti sono solo dilazionati, e quando il momento verrà sapranno avvalersi dell'addebito di scarsa democraticità. Il fatto è che questo, che sarà un pretesto dorato per le rivalità di corte, sarà anche un argomento ineludibile per i cittadini simpatizzanti per il Pd. Si trascura la liquidazione di un tema come la democrazia interna ai partiti. Si da per scontato ciò che si è consumato nei fatti: che pressoché tutti i partiti — un diritto costituzionale dei cittadini "per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale"- sono diventati apparati clientelari o gregari sottomessi al comando per grazia celeste di un capo. Partiti si formano e si sciolgono in una comparsa televisiva, da un predellino d'auto o in una telefonata. E' un paradosso seccante, ma l'estinzione della democrazia di partito per la proliferazione di partiti padronali e patrimoniali, coincide con la liquidazione della prima repubblica. I partiti maggiori erano al proprio interno variamente "democratici", almeno nel senso di riconoscere meccanismi di concorrenza e successione, sicché i congressi democristiani (e i socialisti) avevano davvero svolgimento e conclusioni aperte e a volte spettacolarmente impreviste, e quelli comunisti, schiacciati nel centralismo democratico, dovevano proprio per questo concedere molto alle accuse esterne e alle insofferenze interne. Anzi, la sensibilità alla questione della democrazia interna era più alta proprio fra i comunisti, i più inclini, anche, a giustificarne il sacrificio con l'abnegazione personale alla causa collettiva. Negli eredi la traccia di quella sensibilità dura, sicché il Pd, anche nel suo frangente "dittatoriale" - nel senso romano, si augura, antico - fa tuttavia i conti con la democrazia interna, come non avviene più in nessun partito del centrodestra (e non solo). Ma il tracollo della democrazia nei partiti e la sua sostituzione con una gamma di apparati caudillisti, politici e antipolitici, ha a che fare col tracollo della democrazia in generale. Veltroni ha una doppia ragione per tenerne conto: perché la democrazia in generale deve stargli a cuore, e la sua leadership verrà prima o poi misurata a questa stregua. Nei giorni scorsi si sono ascoltate dichiarazioni sulla affinità del Pd con l'Italia dei Valori, piuttosto che coi radicali o coi socialisti. Un'animaccia che si pretende legalitaria ed è di fatto forcaiola corre per tutti gli schieramenti, e del resto l'illegalismo italiano è così epidemico da garantire a ogni giustizialismo una rendita sicura; ma non dovrebbe impedire di ritornare con la mente allo zenith di Mani Pulite, per chiedersi che cosa si sarebbe pensato dell'eventualità che il Pubblico Accusatore Di Pietro, uscito dalla magistratura, diventasse il capo di un partito intitolato al suo nome e cognome. Davvero lo score dei radicali italiani — la litania pannelliana, divorzio, aborto, obiezione di coscienza, nonviolenza, tribunale internazionale, liberalizzazioni... - è più incompatibile? Veltroni e gli ottimi suoi compagni e compagne hanno un gran daffare, in queste ore, e siano salutati dalla solidarietà di tanti di noi. Ma possono ancora fermarsi per qualche minuto su un paio di cose. La bella lezione di Emma Bonino che si rifiuta, e non certo per rispetto umano, di fare la fatina buona contro l'orco cattivo. E la lezione che darebbero loro se trovassero un modo dignitoso di accogliere la partecipazione dei radicali, dissipando l'impressione di volerne regalare, come si dice, lo scalpo a interlocutori che non andrebbero nemmeno loro abbassati al rango di collezionisti di scalpi. E assicurando al proprio risultato una percentuale in più, capace di avvicinare alla soglia ardua della vittoria. Non so quanti voti possano far perdere, e quanti portarne i radicali. So che senza di loro, il centrosinistra del 2006 avrebbe perso le elezioni. (Magari fosse successo, direte voi: ma è un'altra storia).
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page