giovedì, gennaio 03, 2008

articolo

La disgrazia di Contrada, cui faccio i miei auguri, ha offerto un’ennesima occasione per tirarmi in ballo. Il mio nome è un piccolo irresistibile tic del paese di Maramaldo.
E’ in particolare un modo impunibile per pronunciare insulti triviali: così Di Pietro, che si ripaga della smagliante disistima in cui lo tengo dichiarando che io sono per il terrorismo quello che Contrada è per la mafia. Così lui e i suoi simili che accostano graziosamente al mio il nome di Totò Riina. Tuttavia c’è ogni volta qualche culmine inatteso perfino da me: Mario Cervi, che sul mio conto ha scritto un po’ di tutto e con me personalmente ha avuto incontri sporadici e piuttosto cordiali, sul Giornale di domenica, per contrapporre al maltrattamento di Contrada il “sostegno politico e mediatico formidabile” di cui godo io, si è concesso l’infamia di scrivere che la mia detenzione, “finché è durata, ha avuto le caratteristiche d’una passerella da star, con interviste e articoli a profusione”.
La mia detenzione dura tuttora. In una cella di due metri per tre è durata nove anni, ed è pronta a essere ripresa. E’ durata finché non ci sono quasi morto. Quest’ultima frase mi serve solo a ribadire ciò di cui non ho mai dubitato: che il tempo che passa – ormai così lungo che Cervi è un vegliardo e io sono un vecchio – non solo non attenua la voglia di odio e malaugurio, ma la istiga ed esacerba. Poiché non c’è niente in quel ch’io faccio che valga a motivarlo (salva la solita storia del cervello da far funzionare), si tratta semplicemente del fatto che sono ancora vivo. Questa proroga è per codesta brava gente imperdonabile. Così stanno le cose, con una riserva: che non rinunceranno certo quando sarò morto. E’ già successo: quando agonizzavo, uno di questi famosi signori scrisse che ero stato smascherato come un crapulone e un ubriacone. Anzi
allora la cosa si perfezionerà definitivamente: nel paese di Maramaldo, appunto.

da Il Foglio 2 gennaio 2008

Adriano Sofri

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