In ricordo di Anna Politkovskaja
Da "La Repubblica" del 21 settembre
di Adriano Sofri
di Adriano Sofri
La Politkovskaja venne uccisa il 7 ottobre 2006. Aveva raccontato al mondo il lato oscuro della Russia di Putin. Due anni dopo, esce in Italia una raccolta di suoi reportage inediti dal fronte della guerra cecena: le testimonianze dei torturati e la vergogna delle donne violentate nelle pagine scritte per dare voce a un popolo senza difese
L a prima reazione è di incredulità. Sono proprio vere le storie raccontate da Anna Politkovskaja? Soldati e ufficiali russi che entrano nella moschea, ammassano tappeti, libri, Corano, e poi defecano in cima al mucchio? I tariffari dei militari per restituire alle famiglie il cadavere di un sequestrato (più caro) o di una sequestrata (meno cara)? E, la fila per una razione dei profughi ceceni esasperati dalla fame, e i tubercolotici che sputano addosso a quelli che ancora non sputano sangue, magari per diradare la coda? E la giovane al posto di blocco che chiede di passare per l´ospedale, e la fanno scendere e mettersi al muro con le mani in alto e le gambe aperte, finché si acquatta stremata e il bambino viene fuori, morto? E le torture subite da lei stessa, Anna, giornalista famosa, da parte dei militari suoi connazionali? Dice lei stessa, Anna: «Anche i miei più intimi amici non credono alle storie che racconto quando torno dalla Cecenia». La seconda reazione, lasciatemelo dire, è di una incresciosa avversione. Per involontaria che sia, è così. Storie così atroci non si ascoltano senza provare un rancore contro chi le racconta. Non si vogliono credere, non si vogliono sapere. E poi perché questa donna mette per tanti anni, con tanta pervicacia, a repentaglio la propria vita: non per un episodico reportage di guerra, ma per mischiarsi col sangue e il fango e le feci di un popolo schiacciato dalla guerra, senza distogliere lo sguardo da nessuna ferocia, senza risparmiare al lettore nessuna atrocità? Perché, infatti? Anna stessa deve esserselo chiesto. Una persona, in quella situazione, rischia la vita anche con un solo viaggio, anche per una sola pagina. Ma c´è una soglia oltre la quale non c´è più il rischio, ma la certezza che la vita è spacciata. Questione di tempo. E di luogo. Ogni giorno trascorso in quella Cecenia è strappato all´azzardo, e lei è tornata in Cecenia ogni mese, a partire dal luglio 1999, dall´inizio della seconda e mai finita guerra - seconda in un pugno di anni. E tuttavia è probabile che sentisse che la morte, dopo averla risparmiata capricciosamente in quel fazzoletto di terra martoriato e percorso da capo a fondo, l´aspettasse a un angolo di strada moscovita, dentro l´ascensore di casa sua. Questo nuovo libro è prezioso, perché raccoglie i primi testi di Anna P. dalla Cecenia. Passeranno poi altri anni, verranno tanti altri articoli e libri, e la fine. Qui c´è l´inizio. E le domande della prima riga del prologo alla raccolta: «Chi sono io? E perché scrivo della Seconda guerra cecena?». Chiuso il libro, il lettore spaventato e angosciato se lo chiede ancora. Non è difficile capire l´impulso che porta ad andare in un piccolo angolo d´inferno. La terra ne è piena, li vende addirittura nei dépliant del turismo estremo. Si parte, dopotutto si tratta della guerra, per una generazione che altrimenti ne é esclusa, e del proprio paese - perché la Cecenia è russa, e la Russia stermina i ceceni per confermarli russi! - e della propria professione di giornalista. L´azzardo è previsto, come in certe sfide di adolescenti: durerà il tempo della scommessa, poi, salvo complicazioni, si tornerà a casa, a raccontarlo e farsene belli. Ma a qualcuno succede di restarci preso dentro. Non è detto che sia coraggio, o forza. Al contrario: non si ha la forza di lasciare quei propri simili, non si ha il coraggio di riadattarsi alla vita normale, la casa i figli il cane l´ufficio il ristorante il traffico il cinema. La vita normale è a un passo dall´altra, dalle bombe gli stupri le razzie le torture l´inferno, ed è proprio la brevità di quel passo a farla ripudiare. Nei suoi racconti, anche dove non c´è, com´è a volte inevitabile, la descrizione del pericolo estremo condiviso, si capisce che la questione del pericolo è stata accantonata, non si pone neanche più. Dev´essere così la differenza fra guardare il vuoto da un cornicione, e lasciarsi andare. C´è il racconto, struggente, di uno dei viaggi di andata verso quel piccolo inferno. Anna è su un elicottero militare, con lei c´è un colonnello sconosciuto. Un contrattempo in extremis fa dirottare l´elicottero dalla meta cecena a Vladikavkaz, una città "normale" - senza guerra. L´ufficiale è anche lui a un ennesimo viaggio al fronte, e tuttavia il benedetto incidente, che gli regala un´altra sicura notte di vita, scatena in lui un´euforia da pazzo, e la sua euforia, salti e balli e urla di felicità, contagia tutti gli altri e anche Anna. È come se fossero, quelli che passano di qua e di là - lei per sapere e raccontare e aiutare, lui in servizio in un´armata ubriaca e banditesca - creature ibride, centauri fatti per metà di pace e per metà di guerra, se non fosse che il lato della guerra fa disperare per sempre della pace. L´amicizia di quella notte e la sua amara conclusione sono sconvolgenti - «il colonnello Mironov morirà per ferite incompatibili con la vita» -, anche se per una notte hanno lasciato da parte la folla di quelli che dalla guerra non escono mai. Anna ne ha fatto in realtà la propria gente. E non i capi, gli eroici sciagurati che hanno sfidato un impero, e si sono ridotti poi a calunniarsi spiarsi e ammazzarsi fra loro, e farsi scudo dei propri stessi villaggi e di donne e vecchi e bambini. Non ci sono granduomini nei racconti di Anna, da nessuna parte. Ci sono piccoli uomini ammirevoli e soprattutto donne, le donne cecene derubate, insultate, violentate, uccise. Le donne cecene «che non hanno paura di niente, perché hanno paura di tutto». Lo si comincerà a leggere a ritroso, com´è inevitabile, questo libro, e con lo sguardo fisso sull´autrice: come srotolando all´indietro il filo spezzato dal suo assassinio e dall´infamia della sua cancellazione. Tornando sui suoi passi. Però la lettura cambierà presto. Il filo apparirà di nuovo forte e fitto, le altre persone prenderanno la propria voce, che senza lei non avrebbero mai avuto. La voce dei torturati cui domanda che cosa si volesse sapere da loro, e rispondono: «Non mi hanno domandato niente». Il silenzio delle stuprate e degli stuprati, per i quali la vergogna è più insopportabile della violenza. Gli occhi asciutti delle donne: «Si sente raramente piangere a Grozny. Hanno finito le lacrime da un pezzo. Se una donna piange, significa che è tornata da poco da un campo profughi». La voce di Nadezda Ilinicna Baturinceva, russo-cecena - perché la ferocia dell´armata russa non ha avuto nessun riguardo nemmeno per i russi del luogo - che sospira: «Lo sai, la Seconda Guerra mondiale è stata una buona guerra», e si capisce, dice Anna, fino a che punto una persona debba essere disperata per chiamare buona una guerra che si portò via milioni di anime. «Questa invece è una guerra cattiva - conclude l´anziana Nadezda - Non si capisce chi è da una parte e chi dall´altra. Ma nessuno è dalla nostra, questo è sicuro». Anna è "dalla loro". Lo è in modo militante. Il suo giornalismo non può che esserlo, e non può piacere a nessuno - nemmeno tanto al suo stesso giornale. (Vi ricordate che abbiamo avuto un giornalista nostro, della Radio Radicale, Antonio Russo, povero e avventuroso, che morì ammazzato in terra di nessuno fra Cecenia e Georgia). C´è una bella frase, di un´ironia discreta e acuminata: «Il giornalismo è un bel lavoro: s´incontrano un sacco di persone, e molte sono disposte ad aiutarti se chiedi loro di farlo». Anna viene per loro anche nel resto del mondo, «ovunque mi invitano a parlare della "situazione cecena"... Ottengo solo compìti applausi occidentali». A Ginevra la ascoltano con paziente diffidenza. Anche in Cecenia deve vincere la diffidenza. C´è un ragazzo che le racconta il proprio calvario, ma in ceceno, e facendosi tradurre: lui stesso parla perfettamente russo, ma si rifiuta di farlo. Chiede perché Putin ha chiesto un momento di silenzio in onore delle vittime americane, e mai una parola per le vittime cecene. In un villaggio di montagna c´è un ragazzino, quattordici anni, che va al gabinetto: tutte le case dei villaggi ceceni hanno i gabinetti fuori e un po´ distanti. I federali russi lo tengono di mira, e muoiono dalle risate quando lo ammazzano con una granata mentre è intento ai suoi bisogni. E si citano la gran frase d´esordio di Putin: «Li staneremo fin dentro i cessi». Lo si leggerà anche, questo libro, misurandolo con la fiammata dell´Ossezia e dell´Abkhazia e della Georgia di poco fa, e l´incendio che ha lasciato intravvedere. Come a proposito della visita di Bush a Putin, maggio 2002, in nome della coalizione contro il terrorismo internazionale: «Bush viene a Mosca, la si definisce una visita storica, si parla di fraternizzare, ma si spende a malapena una parola sulla Cecenia, come se la guerra non esistesse». Introducendo l´edizione inglese di questa raccolta, Anna P. aveva concluso: «La cosa peggiore è che molte delle persone di cui ho scritto negli ultimi due anni e mezzo oggi sono morte». Era il 2002. Dopo di allora sono morte quasi tutte. Anche lei.
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