Quando il medico stacca la spina
Adriano Sofri da "Repubblica" 27 ottobre
Nonostante le serie televisive di successo, le rianimazioni restano luoghi in ombra: i pazienti non ci arrivano per propria scelta, come dai primari più prestigiosi, ma per disgrazia. Dunque costano molto cari (un ricovero costa sui 2 mila euro al giorno), e non rendono. Non sono il fiore all'occhiello delle aziende ospedaliere: dovrebbero esserlo. Questa volta proverò a guardarlo con gli occhi dei padroni di casa, il reparto di rianimazione, e a riferirne più prosaicamente e utilmente. Il trascinatore della rianimazione, quella legata al pronto soccorso e all'urgenza, è Paolo Malacarne, che ha un viso di giovane profeta, testa rasata e barba folta, e gli avevo dato dentro di me, come se non bastasse il suo, il cognome dostoevskiano di Verchovenski. Malacarne è una specie di riservato e intransigente missionario. Benché sia giovane, ha vent'anni di lavoro alle spalle, e ha fatto in tempo a sentire i pazienti, cui si presentava come anestesista, domandare ansiosamente: "E mi può chiamare il dottore?”. Nel reparto ci sono sei posti: sono sempre occupati, e succede di dover mandare altrove, magari in un'altra provincia, i malati esuberanti, o di ricorrere ad altri espedienti. E la Toscana ha una sanità invidiabile per competenza e umanità. Aspettano da tempo due letti in più, che sarebbero la soluzione: vuol dire cinque infermieri in più. Le infermiere, e gli infermieri, sono protagonisti decisivi della cura. Quando trovarvi una vena diventa un'impresa, l'infermiera che sappia riuscirci entro il terzo tentativo piuttosto che bucarvi trenta volte in ogni punto del corpo è un angelo del cielo. E se una parola affettuosa e intelligente, o la carezza di cui parla Veronesi, e così importante, sono le infermiere e gli infermieri a tenerne il segreto. In alcune terapie intensive esistono gruppi di attenzione composti, oltre che dai sanitari, da sociologi, psicologi, sacerdoti e altre figure simili; più rara è la partecipazione degli infermieri. I quali si sentono spesso e a ragione esclusi da questioni, comprese le decisioni sulla fine della vita, alle quali hanno un titolo forte per la confidenza continua, carnale, coi corpi dei pazienti, e coi familiari, ai quali tanto spesso spiegano “che cos'ha detto il dottore”.
Sono loro ad ascoltare i racconti dei malati, a guardare la fotografia di famiglia che si sono portati dietro, a notare il colorito della loro nuova giornata. I luoghi in cui le decisioni di fine vita tengano qualche conto del parere degli infermieri non arrivano a un quarto. E’ vero che per lo più gli infermieri pensano che i medici tirino le cose troppo alla lunga, non per cinismo, ma per un peculiare realismo, e una più intima partecipazione alla sofferenza. Scrivo infermieri, come si usa, ma il femminile è determinante, e lo è sempre più anche fra i medici. E tutt’altro che ovvia la constatazione che le donne sono più riluttanti a “staccare la spina”. La presenza dei familiari, non confinata in orari avari, auspicata da Ignazio Marino, e naturalmente più complicata in rianimazione (in altri reparti, come in pneumologia, l'ho trovata accolta senza riserve, e considerata poco meno che un toccasana), ma preziosa. (Marino ha ricordato che in rianimazione le infezioni si rischia di prenderle, più che di portarle, coma sa chi si è misurato col famigerato Acinetobacter Baumanii).
Quanto alla missione, Malacarne è schivo, e preferisce attribuire la peculiare sensibilità dei rianimatori alla consapevolezza di come sia brutto morire in rianimazione, per il malato che si disfa e per i parenti. "C’è un tale corpo a corpo con la sofferenza che chi ci rimane deve avere una compassione”. 2 su 10 ricoverati in rianimazione ci muoiono. Nel 2005, la ricerca del "Gruppo di valutazione degli interventi in terapia intensiva" ha considerato 3.700 morti (su 21 mila pazienti, e 114 terapie intensive su 140). Nello studio manca per motivi legali la domanda esplicita sulle azioni intraprese per "abbreviare il processo del morire”. C'è un dato europeo del 2-3 per cento, senz'altro sottostimato. Sono i casi in cui al morente si somministra morfina, o valium, e quando è del tutto privo di coscienza si stacca il respiratore, o si inietta potassio in vena. In un 15 per cento di casi si decide di interrompere le cure, rinunciando a usare strumenti esistenti, perché manca ogni ragionevole prospettiva di recupero. Si rinuncia all'intubazione, o alla dialisi. In un altro 15 per cento si decide di desistere da una terapia intrapresa: a un malato intubato, attaccato al respiratore, sottoposto a dialisi, coperto da farmaci per la pressione, si sospende la dialisi, o i farmaci. E’ ragionevole pensare che in questa percentuale di casi, dove le cure si sospendono, si faccia anche qualcosa per abbreviare l'agonia. Malacarne indica tre situazioni tipiche. Nella prima, una persona, sana fino al momento del male, arriva incosciente, i familiari non hanno titolo legale per decidere, né si sa che cosa vorrebbe se fosse cosciente: gli si fa tutto, il respiratore, la tracheotomia...(La terapia intensiva e quella in cui vengono sostenute artificialmente tutte le funzioni vitali; nella sub intensiva una sola, respiratoria, il ventilatore, cardiocircolatoria, i farmaci). Il malato peggiora, e sottoposto alla dialisi, riceve farmaci che sostengano il cuore. Peggiora ancora, subentrano infezioni, si capisce che non c'è più una capacità di ripresa. Un organismo fino a poco fa sano non ce la fa. Si capisce che questa situazione che riguarda per lo più traumi, o eventi acuti drammatici, spesso in persone molto giovani renda più penosa e difficile la decisione di desistere, o piuttosto di non insistere invano. Seconda circostanza: arriva in rianimazione un malato cronico. Può avere un'età assai avanzata, soffrire di un enfisema grave, un'insufficienza respiratoria, forse già a casa aveva l'ossigeno, e una crisi ha riacutizzato la sua malattia cronica. Al Pronto Soccorso, dove arriva incosciente, viene intubato e portato in rianimazione. Qui si sveglia e dice che vuole essere stubato, che non vuole assolutamente la tracheotomia, che vuole solo essere lasciato in pace. E’ lui a rifiutare recisamente la terapia "lìfe substaioing". Il medico si adegua, rinunciando a fare qualcosa che potrebbe fare. Terzo caso, quello di Pier Giorgio Welby. Tutte le risorse terapeutiche sono state già applicate, è lucido, vuole che siano sospese, e che gli si permetta di morire. Ci sono tante persone, a casa loro, attaccate a un respiratore. Anche fuori dall'impegno senza orario dell'ospedale, molti rianimatori li seguono a casa. C'è un momento in cui i malati dicono basta. Tornano in ospedale, oppure a casa loro, e chiedono: staccami. Deontologicamente un medico, oggi, non può staccare. Ci sono casi in cui un medico obbedisce a una legge più forte della deontologia professionale, e ne risponde alla sua coscienza. E’ importante notare che la frontiera non passa fra il medico cattolico e quello non credente. Come rifiutarsi di fronte alla richiesta di un malato cosciente e al consenso dei suoi cari? Troverete difficilmente un medico che non l'abbia fatto. E’ fuorviante chiamare questo eutanasia. Si pensa all’eutanasia come alla situazione in cui una persona viene da te e ti chiede: Mi fai un'iniezione, perché voglio morire? La realtà è molto più complicata, e soprattutto non conosce categorie astratte, bensì storie singolari di malati, famigliari, medici, ciascuno con una sua responsabilità: dove l'autodeterminazione di chi sta male deve avere il primo posto. Diversa è la situazione dei reparti anti-dolore, e anche lì non e così netto il confine fra la morfina somministrata per alleviare il dolore, o un po' di più. Ma nel cancro non c'è un impedimento delle funzioni vitali, per cui bisogni decidere se ripristinare artificialmente.
Un diffuso pregiudizio è quello che, per scusabile ignoranza, o per cavillo fanatico, distingue fra il non iniziare una terapia salvavita, e l'interromperla dopo averla intrapresa. (Si tratta, in un buon terzo dei casi, del ventilatore, ma si muore anche sei giorni dopo la sospensione della dialisi, o un paio d'ore dopo l'interruzione dei farmaci cardiaci in vena che provoca un infarto). Secondo quel pregiudizio, c'è una differenza etica fra il non fare che sembra un'astensione e il sospendere che sembra un'attività. Nei famigliari è la frase ansiosa: "Se si intuba poi non si può stubare”. Nei professionisti, è una sciocchezza. L'omissione può essere altrettanto colpevole altrettanto innocente che l'azione. Nelle terapie intensive quello che chiede Welby viene fatto, col consenso dei famigliari con o senza diritto, o nell'incertezza del diritto. (Welby però non chiede di “staccare la spina”, ma di liberarlo dal dolore e dallo squallore dell'agonia). Su tutti questi casi si sovrappone un’altra necessità: quella del posto. Non di rado è una nuova urgenza a imporre una scelta. Spesso, quando si può, il malato viene trattenuto nella terapia intensiva, pur di non passarlo alla corsia ordinaria, dove rischia di morire. Se ci fossero subintensive sufficienti, molti malati delle intensive potrebbero uscire prima, e alleviare la penuria diletti. Gli studi Usa ed europei calcolano (escluse le unità coronariche) un fabbisogno di 1 posto letto in terapia intensiva su 7-10 mila abitanti. La nostra media oggi e di 1 ogni 14 mila. Nei Paesi più maturi si è elaborato un sistema di valutazione di qualità (fondato sulla differenza fra le morti “attese" e le morti effettive alla dimissione dall'ospedale) cui i medici tengono molto, senza di che l'unica valutazione è quella economica. L'Italia ha, rispetto a quel criterio, una buona qualità. La mortalità nelle rianimazioni si è ridotta, negli ultimi 10 anni, del 10 per cento.
La terapia intensiva resta una nicchia a parte rispetto all'autodeterminazione o all’eutanasia, perché ci si arriva incoscienti. Il testamento biologico sarebbe dunque risolutivo in molti casi, e sempre prezioso. Anche rispetto al fenomeno più sconvolgente, l’accanimento terapeutico praticato per cautelarsi da ritorsioni medico legali. Si arriva a compiere interventi chirurgici, sapendoli vani, solo per questo.
Nonostante le serie televisive di successo, le rianimazioni restano luoghi in ombra: i pazienti non ci arrivano per propria scelta, come dai primari più prestigiosi, ma per disgrazia. Dunque costano molto cari (un ricovero costa sui 2 mila euro al giorno), e non rendono. Non sono il fiore all'occhiello delle aziende ospedaliere: dovrebbero esserlo. Questa volta proverò a guardarlo con gli occhi dei padroni di casa, il reparto di rianimazione, e a riferirne più prosaicamente e utilmente. Il trascinatore della rianimazione, quella legata al pronto soccorso e all'urgenza, è Paolo Malacarne, che ha un viso di giovane profeta, testa rasata e barba folta, e gli avevo dato dentro di me, come se non bastasse il suo, il cognome dostoevskiano di Verchovenski. Malacarne è una specie di riservato e intransigente missionario. Benché sia giovane, ha vent'anni di lavoro alle spalle, e ha fatto in tempo a sentire i pazienti, cui si presentava come anestesista, domandare ansiosamente: "E mi può chiamare il dottore?”. Nel reparto ci sono sei posti: sono sempre occupati, e succede di dover mandare altrove, magari in un'altra provincia, i malati esuberanti, o di ricorrere ad altri espedienti. E la Toscana ha una sanità invidiabile per competenza e umanità. Aspettano da tempo due letti in più, che sarebbero la soluzione: vuol dire cinque infermieri in più. Le infermiere, e gli infermieri, sono protagonisti decisivi della cura. Quando trovarvi una vena diventa un'impresa, l'infermiera che sappia riuscirci entro il terzo tentativo piuttosto che bucarvi trenta volte in ogni punto del corpo è un angelo del cielo. E se una parola affettuosa e intelligente, o la carezza di cui parla Veronesi, e così importante, sono le infermiere e gli infermieri a tenerne il segreto. In alcune terapie intensive esistono gruppi di attenzione composti, oltre che dai sanitari, da sociologi, psicologi, sacerdoti e altre figure simili; più rara è la partecipazione degli infermieri. I quali si sentono spesso e a ragione esclusi da questioni, comprese le decisioni sulla fine della vita, alle quali hanno un titolo forte per la confidenza continua, carnale, coi corpi dei pazienti, e coi familiari, ai quali tanto spesso spiegano “che cos'ha detto il dottore”.
Sono loro ad ascoltare i racconti dei malati, a guardare la fotografia di famiglia che si sono portati dietro, a notare il colorito della loro nuova giornata. I luoghi in cui le decisioni di fine vita tengano qualche conto del parere degli infermieri non arrivano a un quarto. E’ vero che per lo più gli infermieri pensano che i medici tirino le cose troppo alla lunga, non per cinismo, ma per un peculiare realismo, e una più intima partecipazione alla sofferenza. Scrivo infermieri, come si usa, ma il femminile è determinante, e lo è sempre più anche fra i medici. E tutt’altro che ovvia la constatazione che le donne sono più riluttanti a “staccare la spina”. La presenza dei familiari, non confinata in orari avari, auspicata da Ignazio Marino, e naturalmente più complicata in rianimazione (in altri reparti, come in pneumologia, l'ho trovata accolta senza riserve, e considerata poco meno che un toccasana), ma preziosa. (Marino ha ricordato che in rianimazione le infezioni si rischia di prenderle, più che di portarle, coma sa chi si è misurato col famigerato Acinetobacter Baumanii).
Quanto alla missione, Malacarne è schivo, e preferisce attribuire la peculiare sensibilità dei rianimatori alla consapevolezza di come sia brutto morire in rianimazione, per il malato che si disfa e per i parenti. "C’è un tale corpo a corpo con la sofferenza che chi ci rimane deve avere una compassione”. 2 su 10 ricoverati in rianimazione ci muoiono. Nel 2005, la ricerca del "Gruppo di valutazione degli interventi in terapia intensiva" ha considerato 3.700 morti (su 21 mila pazienti, e 114 terapie intensive su 140). Nello studio manca per motivi legali la domanda esplicita sulle azioni intraprese per "abbreviare il processo del morire”. C'è un dato europeo del 2-3 per cento, senz'altro sottostimato. Sono i casi in cui al morente si somministra morfina, o valium, e quando è del tutto privo di coscienza si stacca il respiratore, o si inietta potassio in vena. In un 15 per cento di casi si decide di interrompere le cure, rinunciando a usare strumenti esistenti, perché manca ogni ragionevole prospettiva di recupero. Si rinuncia all'intubazione, o alla dialisi. In un altro 15 per cento si decide di desistere da una terapia intrapresa: a un malato intubato, attaccato al respiratore, sottoposto a dialisi, coperto da farmaci per la pressione, si sospende la dialisi, o i farmaci. E’ ragionevole pensare che in questa percentuale di casi, dove le cure si sospendono, si faccia anche qualcosa per abbreviare l'agonia. Malacarne indica tre situazioni tipiche. Nella prima, una persona, sana fino al momento del male, arriva incosciente, i familiari non hanno titolo legale per decidere, né si sa che cosa vorrebbe se fosse cosciente: gli si fa tutto, il respiratore, la tracheotomia...(La terapia intensiva e quella in cui vengono sostenute artificialmente tutte le funzioni vitali; nella sub intensiva una sola, respiratoria, il ventilatore, cardiocircolatoria, i farmaci). Il malato peggiora, e sottoposto alla dialisi, riceve farmaci che sostengano il cuore. Peggiora ancora, subentrano infezioni, si capisce che non c'è più una capacità di ripresa. Un organismo fino a poco fa sano non ce la fa. Si capisce che questa situazione che riguarda per lo più traumi, o eventi acuti drammatici, spesso in persone molto giovani renda più penosa e difficile la decisione di desistere, o piuttosto di non insistere invano. Seconda circostanza: arriva in rianimazione un malato cronico. Può avere un'età assai avanzata, soffrire di un enfisema grave, un'insufficienza respiratoria, forse già a casa aveva l'ossigeno, e una crisi ha riacutizzato la sua malattia cronica. Al Pronto Soccorso, dove arriva incosciente, viene intubato e portato in rianimazione. Qui si sveglia e dice che vuole essere stubato, che non vuole assolutamente la tracheotomia, che vuole solo essere lasciato in pace. E’ lui a rifiutare recisamente la terapia "lìfe substaioing". Il medico si adegua, rinunciando a fare qualcosa che potrebbe fare. Terzo caso, quello di Pier Giorgio Welby. Tutte le risorse terapeutiche sono state già applicate, è lucido, vuole che siano sospese, e che gli si permetta di morire. Ci sono tante persone, a casa loro, attaccate a un respiratore. Anche fuori dall'impegno senza orario dell'ospedale, molti rianimatori li seguono a casa. C'è un momento in cui i malati dicono basta. Tornano in ospedale, oppure a casa loro, e chiedono: staccami. Deontologicamente un medico, oggi, non può staccare. Ci sono casi in cui un medico obbedisce a una legge più forte della deontologia professionale, e ne risponde alla sua coscienza. E’ importante notare che la frontiera non passa fra il medico cattolico e quello non credente. Come rifiutarsi di fronte alla richiesta di un malato cosciente e al consenso dei suoi cari? Troverete difficilmente un medico che non l'abbia fatto. E’ fuorviante chiamare questo eutanasia. Si pensa all’eutanasia come alla situazione in cui una persona viene da te e ti chiede: Mi fai un'iniezione, perché voglio morire? La realtà è molto più complicata, e soprattutto non conosce categorie astratte, bensì storie singolari di malati, famigliari, medici, ciascuno con una sua responsabilità: dove l'autodeterminazione di chi sta male deve avere il primo posto. Diversa è la situazione dei reparti anti-dolore, e anche lì non e così netto il confine fra la morfina somministrata per alleviare il dolore, o un po' di più. Ma nel cancro non c'è un impedimento delle funzioni vitali, per cui bisogni decidere se ripristinare artificialmente.
Un diffuso pregiudizio è quello che, per scusabile ignoranza, o per cavillo fanatico, distingue fra il non iniziare una terapia salvavita, e l'interromperla dopo averla intrapresa. (Si tratta, in un buon terzo dei casi, del ventilatore, ma si muore anche sei giorni dopo la sospensione della dialisi, o un paio d'ore dopo l'interruzione dei farmaci cardiaci in vena che provoca un infarto). Secondo quel pregiudizio, c'è una differenza etica fra il non fare che sembra un'astensione e il sospendere che sembra un'attività. Nei famigliari è la frase ansiosa: "Se si intuba poi non si può stubare”. Nei professionisti, è una sciocchezza. L'omissione può essere altrettanto colpevole altrettanto innocente che l'azione. Nelle terapie intensive quello che chiede Welby viene fatto, col consenso dei famigliari con o senza diritto, o nell'incertezza del diritto. (Welby però non chiede di “staccare la spina”, ma di liberarlo dal dolore e dallo squallore dell'agonia). Su tutti questi casi si sovrappone un’altra necessità: quella del posto. Non di rado è una nuova urgenza a imporre una scelta. Spesso, quando si può, il malato viene trattenuto nella terapia intensiva, pur di non passarlo alla corsia ordinaria, dove rischia di morire. Se ci fossero subintensive sufficienti, molti malati delle intensive potrebbero uscire prima, e alleviare la penuria diletti. Gli studi Usa ed europei calcolano (escluse le unità coronariche) un fabbisogno di 1 posto letto in terapia intensiva su 7-10 mila abitanti. La nostra media oggi e di 1 ogni 14 mila. Nei Paesi più maturi si è elaborato un sistema di valutazione di qualità (fondato sulla differenza fra le morti “attese" e le morti effettive alla dimissione dall'ospedale) cui i medici tengono molto, senza di che l'unica valutazione è quella economica. L'Italia ha, rispetto a quel criterio, una buona qualità. La mortalità nelle rianimazioni si è ridotta, negli ultimi 10 anni, del 10 per cento.
La terapia intensiva resta una nicchia a parte rispetto all'autodeterminazione o all’eutanasia, perché ci si arriva incoscienti. Il testamento biologico sarebbe dunque risolutivo in molti casi, e sempre prezioso. Anche rispetto al fenomeno più sconvolgente, l’accanimento terapeutico praticato per cautelarsi da ritorsioni medico legali. Si arriva a compiere interventi chirurgici, sapendoli vani, solo per questo.
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