15-16-17 settembre 2008
Adriano Sofri da "Il Foglio"
15 settembre 2008
Salvo che si usi il termine terrorismo come un generico insulto, l’omicidio di Calabresi non può passare, nella versione che ne hanno dato imputazioni processi e sentenze, per un atto di terrorismo. Questa è la formulazione giudiziaria, questa è la mia ferma opinione. Che la si intenda come una “giustificazione” o è un frutto di pregiudizio e di malanimo, o di un grossolano fraintendimento. E’ superfluo dire che ci sono omicidi abominevoli, che non hanno niente a che fare con il terrorismo, e nemmeno con qualunque inclinazione politica, e non diventano per questo più giustificabili. Nel libro curato dalla Presidenza della Repubblica in memoria delle “vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana” viene commemorato Luigi Calabresi. Non viene citato Pino Pinelli. Io ho un’opinione diversa. Penso a Pinelli come a una vittima del terrorismo di stato, l’ultima vittima della strage di Piazza Fontana. Penso a Calabresi come alla vittima di una violenza politica omicida, che, salvo prova contraria, non aveva a che fare con un intento terrorista. Il che non tocca affatto la questione della giustificazione, tanto meno della giustificazione di trentasei anni dopo. Ma impedisce, così come impedì l’addebito giudiziario, di assimilare quell’attentato al sequestro e alla strage di bambini di Beslan. Questa è la mia opinione. Attribuirla a un mio spregevole malanimo verso Mario Calabresi e la sua famiglia è del tutto infondato. Vorrei dire ad Arrigo Levi, la cui interpretazione delle mie parole è troppo lontana dal segno, che, quando ho detto che non c’era una guerra, ma alcuni di noi si sentivano in guerra, intendevo salvaguardare le proporzioni, rispetto a chi parla alla leggera di “guerra civile” degli anni Settanta, ma anche ricordare che il primo a “sentirsi in guerra” e a chiedere ai suoi uomini di comportarsi di conseguenza fu lo stato italiano di piazza Fontana.
16 settembre 2008
Caro Giovanni Sabbatucci, come mi succede assai di frequente in questi giorni, vedo rimbalzarmi addosso argomenti che già furono miei, ed è possibile che me la sia cercata, ma vorrei sbrigarmene per parlare d’altro, dunque dichiarerò che purtroppo sono d’accordo con lei in generale. L’espressione “strage di Stato” fu al tempo stesso penetrante e deviante. Strada facendo, crebbe come certe ombre prepotenti che finiscono per ingoiare la luce, e diventò un luogo comune della paranoia politica degli anni ’70. Quando, più vicino a noi, fu riformulata dai volonterosi magistrati che cercarono di impedire la definitiva liquidazione giudiziaria del 12 dicembre (invano), ebbe un suono meno generico e più circostanziato. Ma era comunque consumata. Voglia credere che dico questo da decennii, e anche in questa usurpata sede (la più tollerante del mondo: e mi chiedo ogni giorno se non ne abbia abbastanza). Vediamo invece il dettaglio. C’è, nella primavera e nell’estate del ’69, una sequenza impressionante di attentati esplosivi fra loro collegati. Alcuni – quello alla Fiera, quelli ai treni – provocano decine e decine di feriti. Per quegli attentati l’Ufficio politico della questura milanese – Allegra, Calabresi – persegue dei militanti e simpatizzanti anarchici, che sono incarcerati. Qualunque sia il loro curriculum personale, tutti costoro sono estranei a quell’addebito, e ne saranno anche formalmente scagionati, non solo, ma per quegli attentati, 17, tra il 15 aprile e il 9 agosto 1969, saranno condannati con sentenza definitiva (una delle rarissime del nostro paese, a parte la mia) personaggi come Freda e Ventura e la cosiddetta cellula veneta. Il 12 dicembre, quando esplodono le bombe a Roma e Milano, e quella alla Banca dell’Agricoltura fa strage, è evidente la connessione fra quegli attentati e questo culmine terrorista. Appare evidente anche all’Ufficio politico milanese, che sceglie decisamente la stessa pista anarchica, sia che segua una propria convinzione effettiva, sia che si adatti, com’è evidente, a un orientamento grato ai suoi superiori gerarchici e politici. In questo frangente viene immediatamente indicato Valpreda come il mostro autore della strage (non lo è) e Pinelli, contro il quale si indaga da mesi come indiziato degli attentati del 25 aprile alla Fiera e dell’8 agosto ai treni, viene subito fermato, trattenuto illegalmente, e nel corso stesso delle ore del fermo accusato, con i famigerati “saltafossi” di Allegra e Calabresi, di quegli attentati e finalmente di un coinvolgimento nella strage di piazza Fontana. Pinelli è ora per loro l’anello di congiunzione fra gli attentati dei mesi precedenti e la strage. Appena uscito dalla finestra del quarto piano, Pinelli, nelle dichiarazioni del questore Guida completate dai suoi collaboratori, si è buttato giù perché “era fortemente indiziato di concorso in strage. Si era visto perduto. E’ stato un gesto disperato, una specie di autoaccusa”. Mi fermo qui, per ragioni di spazio: lei del resto conosce la storia meglio di me. Ma rispondo alla sua domanda: “Possibile che in quasi quarant’anni non sia saltato fuori un nome, un esponente politico istituzionale di rilievo, almeno uno!, al di là dei soliti Giannettini o Maletti…?” All’indomani del 12 dicembre è difficile trovare nomi di esponenti istituzionali (e non) che si dissocino dalla pista anarchica, che è di fatto una pista pregiudiziale dalle conseguenze enormi e micidiali, e un depistaggio meticoloso. Così, dal prefetto di Milano lo stesso 12 dicembre (“Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi…”) ai vertici dei servizi segreti, al governo, fino al presidente della Repubblica (“L’attentato di Milano è un anello di una tragica catena di atti terroristici che deve essere spezzata a ogni costo…”: affermazione vera, solo che non riguardava gli anarchici) si compie una univoca campagna. Non cito nemmeno la questione di personaggi e gruppi che macchinarono in quel frangente un colpo di Stato: del resto i colpi di Stato sono tutti pagliacceschi, salvo quando riescono. Ho scritto che “il primo a ‘sentirsi in guerra’ e a chiedere ai suoi uomini di comportarsi di conseguenza fu lo stato italiano di piazza Fontana”. A me continua a sembrare una affermazione circostanziata e nient’affatto ideologica. Abbia i miei saluti. (P.S. Guardi che io ho scritto: Stato, con la maiuscola. Poi l’ottimo computer di redazione se ne deve essere vendicato).
17 settembre 2008
Quell’anarchico di computer, benché avvertito, l’ha rifatto. Ha riscritto stato con la minuscola. Bisogna stare attenti ormai coi giochi di parole. Come quelli di tanti anni fa: Io non sono Stato. O quelli, serissimi, di oggi, sull’opportunità di portare le scolaresche in visita alle discariche. La scoria è maestra di vita.
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