giovedì, febbraio 19, 2009

Quella libertà di mangiare e bere

la Repubblica, 14 febbraio 2009

di ADRIANO SOFRI


Non so ancora quanti di noi abbiano afferrato la questione dell´idratazione e della nutrizione artificiale. E non perché sia difficile da capire, ma perché è difficilissima da credere.
Riuscite a immaginare che qualcuno, a voi maggiorenni e capaci di intendere, venga a intimare di mangiare e bere? La libertà di mangiare e bere, o quella, assai meno ragionevole, ma complementare, di non mangiare e non bere, è un ingrediente primario dell´autonomia personale. Ciascuno di noi non si nutre, né si mette a dieta, per legge. Nemmeno le controutopie più tetre vorrebbero fantasticare di uno Stato che dispone la nutrizione dei suoi sudditi umani, e somministra loro, per maggior efficienza, un pastone completo per via enterale o parenterale. Bene. Immaginiamo ora che, siccome la disgrazia o la malattia è in agguato nelle esistenze umane, qualcuno di noi sia privato della propria facoltà di volere. Io, per esempio. Ho una certa probabilità, sono anziano, ho subito cinque interventi chirurgici in tre anni, potrebbe capitarmi una ricaduta, benché non immediatamente mortale. Sarei portato in una rianimazione, cioè in uno di quei luoghi in cui donne e uomini ammirevoli, medici e infermieri, fanno di tutto per strappare vite umane a una morte incombente. Possono farcela, e allora io sarei grato dell´orribile tempo trascorso nelle loro mani, e del ripugnante pastone che in tutto quel tempo mi è stato infilato da un tubo in un buco della pancia. Può darsi che non ce la facciano, e che io muoia nelle loro mani. Oppure ancora, può darsi che nelle loro mani io perda irreversibilmente coscienza e sensibilità, benché resti tecnicamente vivo, con un ventilatore che respira per me, una macchina per la dialisi che lavora per i miei reni, farmaci che sostengono il battito del mio cuore, e quella sonda che mi nutre. In quella condizione, non sarei in grado di decidere se voglia o no far durare la mia esistenza così mutilata. Ma posso farlo prima, dal momento che una delle facoltà umane è di prevedere e, sebbene sia fin troppo umana la riluttanza a prevedere per sé e per i propri cari un futuro così sventurato, non posso fare a meno di guardarmi attorno e di ammettere che può succedere. Allora userò della mia - più o meno vacillante, più o meno spensierata - salute di oggi per stabilire che cosa non sono disposto ad accettare per me domani. E posso volere le cose più diverse: che mi si lasci morire, o che mi si tenga in vita a oltranza, perché tutto è meglio della morte, o perché non si sa mai. È affar mio, e non mi vergognerò nemmeno del pensiero più irrazionale, più superstizioso, più egoista. Dopotutto, è la mia morte.

Fino a poco fa, non ci pensavamo tanto. Per fiducia nell´aldilà, o per una rimozione - tutti dobbiamo morire, ma proprio io! - o per un fatalismo - "lascia fare a Dio". E perché le rianimazioni non facevano ancora i miracoli. C´era l´incubo opposto, quello della morte apparente, d´essere sepolti vivi. Se ci pensavamo, ci affidavamo ai nostri cari. Avessero loro cura di noi, quando non fossimo più autonomi. E poi ai medici, finché esistano i medici di fiducia. È ancora così, di fatto. Il testamento biologico, o le disposizioni di fine vita, dovrebbero assicurarmi di non essere travolto, quando disgrazia e malattia abbiano invaso la mia vita, che la mia volontà sia rispettata. Ho dalla mia la Costituzione, che ignorava le meraviglie a venire delle terapie intensive, ma aveva una buona idea, pochissimo sovietica, dell´autonomia della persona. Sicché all´art. 32 dice: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Dunque posso dettare le mie volontà quanto alla mia esistenza corporale. Questa possibilità rende inquiete alcune autorità religiose e politiche, per una ragione buona, e una pessima. Buona, e da condividere, facendone un motivo di cautela, è la preoccupazione che si faciliti l´indifferenza o l´insofferenza verso la vita debole e invalida, e si riapra la via alle infamie dell´eugenetica - bimbi sani, bimbi belli, e vecchi ricchi, e gli altri al macero. Pessima è la gelosia per la posta intima del potere, cioè il comando sui corpi, col quale coincide anche il comando sulle anime, come insegna, prima ancora che i capitoli bui della storia delle chiese, la storia degli uomini padroni di donne. Queste autorità allarmate e spodestate reagiscono, quando non ce la fanno più a opporsi alla domanda di una legge, simulandone l´accettazione, per svuotarla e metterle i bastoni fra le ruote. Per esempio, esigendo che le volontà di fine vita siano registrate presso un notaio: condizione decisamente esosa. E oltretutto contrastante con l´obiezione secondo cui della vita non si può far testamento, perché non è un oggetto proprietario. È un dono di Dio, e alcuni credenti vogliono attribuire a Dio una gelosia proprietaria, da donatore con riserva. Anche i non credenti credono che la vita sia "indisponibile", che poi vuol dire che ogni vita sia trattata come un fine e mai come un mezzo: solo che alcuni fra loro si spingono a condividere l´invadente idea dogmatica che anche la mia vita sia indisponibile a me stesso che la vivo. Bizzarra acrobazia logica, tesa a escogitare una terra di nessuno, una "zona grigia fra la vita e la morte", come quella scaturita dalla tecnica medica, in cui prepotenza clericale e autodeterminazione laica (cioè di credenti e non credenti laici) riconoscano per eccezione una libertà di far testamento per sé. La bizzarria logica è anche un´illusione politica: perché l´invadenza clericale non se ne accontenta affatto, e vuole inghiottire tutto. Allora proclama che la nutrizione artificiale - sondino nasogastrico e aghi nelle vene e tubo nella pancia - non è una terapia, non è una azione medica. Smentita dalla stragrande maggioranza delle autorità mediche, questa pretesa è a prima vista inconsulta. Il suo scopo è evidente: sottrarre la nutrizione artificiale (rendendola così forzata) al dettato della Costituzione. Si tratta di un espediente, un gioco di parole escogitato per annullare l´esito legale della vicissitudine della famiglia Englaro. L´espediente si traduce, in mala o buona fede, nello slogan sull´uccidere un disabile per fame e per sete. «Mai più in Italia nessuno sarà condannato a morire di fame e di sete», tuonano personaggi che non distinguerebbero un´iniezione intramuscolare da un dentifricio. Ma siccome c´è una maggioranza piena di sé, che fa del diritto della maggioranza un compiaciuto arbitrio e benedetto, un´assurdità come la nutrizione artificiale mutata in "sostegno vitale" è destinata a passare. Che cosa fa l´opposizione, che a sua volta, con qualche ottima eccezione, non ha voluto sapere di argomenti simili, che, nelle sue scuole di partito, "non erano nel programma", e dunque ha ritenuto che il suo compito si esaurisse nel rivendicare la necessità di arrivare a una legge? Che cosa fa, ora che la maggioranza, con tanto di benedizione, ha fatto mostra a sua volta di volere una legge, e se la aggiusta a propria misura, così da peggiorare inauditamente la situazione rispetto a quando della morte nostra la legge non si occupava? Combatte una battaglia sacrosanta e perduta attorno all´evidenza per cui la nutrizione artificiale è una terapia. E si guarda dallo spiegare ai cittadini di che cosa davvero si tratti. A cominciare dal fatto che, quand´anche la si desse vinta alla pretesa insensata che la nutrizione artificiale non sia una pratica medica, e la si assimili al "sostegno vitale", al naturale mangiare e bere di ciascuno di noi, resta che ciascuno di noi è padrone di quanto, quando, come e se mangiare e bere. E dunque sarà d´ora in poi lo Stato, l´ineffabile avanguardia dello Stato italiano nel mondo, a decidere e imporre a ciascuno di noi, quando fossimo in un coma irreversibile o paralizzati dalla testa ai piedi o in uno stato vegetativo persistente da diciassette anni, quanto e come e se mangiare e bere? Lo Stato carcerario nutritore?

Non solo questa enormità mina alla sua radice prima la responsabilità e libertà personale che sono la premessa della legalità. Ma sopraffà ogni legge. Nessuna autorità può imporre di mangiare e bere, nemmeno più nelle galere, che sono laboratori specializzati di tortura e di arbitrio, e fino a poco fa il ricorso nonviolento al digiuno veniva punito e, in condizioni estreme, violato dal Trattamento sanitario obbligatorio, cioè appunto dall´alimentazione forzata. Solo in casi di accertata - e arduamente accertata - necessità psichiatrica si può disporre un´alimentazione forzata, come sa chi fa i conti con la tragedia dell´anoressia nervosa. Ed ecco che diventiamo tutti, alla condizione di restar vittime di una disgrazia o di una malattia irreparabile, potenziali oggetti della nutrizione forzata per legge, espropriati del nostro corpo e della nostra dignità. Forse, si dirà, il ricorso urgente alla nutrizione artificiale non è il soccorso pietoso a chi abbia creduto di non poter sopportare una sventura, e domani ci sarà grato di averlo trattenuto al mondo? Forse che non ci adopereremmo comunque per trattenere chi, ubriaco o disperato, stia per gettarsi giù da una spalletta, e tenerlo stretto finché non ripensi? Certo: ma all´ubriaco la sbronza passerà, il disperato forse metterà a confronto il vuoto che gli è stato davanti con lo spiraglio di una nuova mattina, la ragazza forse proverà a risalire la corrente. E se no, la spalletta sarà ancora lì, basterà scegliere un´ora più rada. Io non vorrò, quando si siano accertate alcune condizioni, sopravvivere in un modo che sento indegno di me, e intollerabile per chi mi vuole bene. E qualcuno sta decretando che penetrerà nel mio corpo e disporrà della mia degenza in vita? L´Italia era, fino a oggi, lo Stato che non ha riconosciuto il reato di tortura nel suo codice, benché impegnata solennemente a farlo. Da domani, sarà lo Stato che ha decretato la tortura dei sopravviventi incapaci di intendere, o anche solo incapaci di procurarsi la liberazione con le proprie mani e con la propria bocca. Il prossimo passo sarà un cartello che dice: «È severamente vietato il suicidio». Questo è il punto. Che punto, eh?

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