Editoriale da "Il Riformista" 5 dicembre
Il rispetto della volontà di Welby è il primo dei nostri valori Piergiorgio Welby continua a vivere. Quindi a soffrire. E continua a chiedere che si ponga fine alla sua vita, quella di un uomo colpito da una distrofia muscolare che non può più regredire, che non è tanto lontana dal concetto di tortura. Ce ne sono, eccome, di «casi Welby» in Italia. E ce ne sono stati prima che l’intervento di Giorgio Napolitano abbattesse la grande barriera tra la politica, le istituzioni e le persone come Piergiorgio. Ha ragione Fausto Bertinotti quando dice che «il caso Welby dimostra che c’è un vuoto che deve essere colmato» e che «la politica deve avere la capacità di rispettare scelte di vita, ma poi deve intervenire nella realtà senza lasciare grandi vuoti». Parole sagge, cui si potrebbe dar seguito discutendo di testamento biologico, del rapporto tra etica e politica, di individui e dei famosi “valori” con cui molti si riempiono la bocca. Discutere per cercare di colmare il grande vuoto è necessario. Ma per farlo serve un tempo che Piergiorgio Welby e la sua sofferenza quotidiana non possono aspettare. Per la sua richiesta di mettere fine alle proprie sofferenze stanno scioperando in 250. Tra questi c’è anche il ministro Emma Bonino. E ieri Fabio Mussi, ha dichiarato: «Non ci si può accanire a tenere in vita il dolore». Eppure, c’è chi di fronte alle sofferenza di Welby la “butta” nella solita caciara dell’eterno scontro tra laici e cattolici. Ieri, ad esempio, Livia Turco ha insediato la commissione sulla terapia del dolore, le cure palliative e la dignità del fine vita. Una decisione che, tanto per dirne una, l’uddiccino Luca Volontè ha accolto con queste parole: «I laicisti tacciono sui pericoli di un governo che si arroga il potere di decidere quale vita valga la pena di essere vissuta. A noi non sfugge la tentazione totalitaria del ministro Turco». Per fortuna, non tutti i cattolici la pensano come Volontè. «Staccare la spina? Penso che sarebbe una scelta giusta. Welby non ha nessuna possibilità di migliorare, dobbiamo rispettare la persona, altrimenti ne prolunghiamo solo la sofferenza», ha detto il cattolico a Repubblica Ignazio Marino, trapiantologo e (diessino) presidente della Commissione Sanità del Senato. «In questo caso, come in altri - ha aggiunto Marino - staccare la spina non significa uccidere ma accettare che non c’è più nulla da fare». È così difficile, aggiungiamo noi, accettare questa realtà e decidere, prima di qualsiasi altra discussione, di rispettare l’ultima volontà di Piergiorgio Welby? Ci dicono che c’è sempre la speranza. E che la speranza è sempre l’ultima a morire. È così difficile rendersi conto che nel caso di Welby è «il morire» l’ultima speranza?
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