SolitograndeSofri
da Il Foglio del 7 dicembre
Adriano Sofri
Caro Giuliano, ecco la mia obiezione. Io parlo di Piergiorgio Welby, tu dell'ingrosso, vita e morte, embrioni e aborto, dolore e compassione, compassione e pietà. Succede per altri argomenti, libertà di ricerca scientifica o guerra in Iraq compresa. Trattengo, della tua posizione, la disponibilità all'aiuto "a chiunque ti sia caro e te lo chieda", a condizione "che la procedura legale ti resti contraria". La trattengo per fatto personale, e addirittura sono disposto a forzarla, togliendo quel "mi sia caro", perché può succedere che il naufrago sconosciuto che ne abbia bisogno fino a quel punto e te lo chieda ti diventi per ciò stesso caro: è questa, direi, la storia del buon samaritano. Però io ho scritto proprio per uscire dalle categorie generiche, più che generali, e altisonanti e intimidatorie, com'è nel dibattito attuale la parola di eutanasia, e per sostenere che Welby, che avrà in qualunque momento il diritto di cambiare la sua volontà, sta chiedendo quello che la legge e l'umanità autorizzano già pienamente. La legge, perché la sospensione della ventilazione è un diritto della persona universalmente riconosciuto e costituzionalmente garantito, l'umanità, perché la scelta abominevole è che ciò avvenga nello spasimo dell'asfissia piuttosto che nella sedazione, che sarebbe anzi rifiutata solo in questo caso, chissà per quale ferocia, o per quale idolatria. Anche ieri ho letto tanti articoli, come il tuo e il mio, che cercavano di esporre la propria idea di umanità e di proporre la propria speranza pietosa, e poi ho letto, in un qualunque pezzo di cronaca, la secca frase del medico presidente della Società di anestesia, analgesia e rianimazione, pronunciata all'uscita di un convegno della categoria: "Ciò che Welby chiede si fa già, tutti i giorni, in tutti gli ospedali". Per questa stessa ragione mi auguro che, quando Welby incontrasse il passaggio che così ardentemente chiede, gli si facesse attorno un silenzio. Sempre ieri, c'era sulla Stampa un pezzo di Elena Loewenthal su come morì il Rabbi Yehuda. "Al suo capezzale i discepoli continuavano a pregare Iddio di tenerlo in vita: docile alle suppliche, il Cielo obbediva. Per fare arrivare la morte, ci volle il gesto pietoso di una serva affezionata, che dalla cucina fece cadere un oggetto di coccio. Gli oranti sussultarono e interruppero per un istante le loro preghiere: in quel momento di silenzio il maestro spirò. La tradizione non considera la serva per aver deliberatamente procurato la morte del maestro: la considera anzi un esempio di virtù. Difficile, ma necessaria là dove la vita non è più vita".
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