giovedì, dicembre 07, 2006

SolitograndeSofri

da Il Foglio del 7 dicembre
Adriano Sofri
Caro Giuliano, ecco la mia obiezione. Io parlo di Piergiorgio Welby, tu dell'in­grosso, vita e morte, embrioni e aborto, dolore e compassione, compassione e pietà. Succede per altri argomenti, libertà di ricerca scientifica o guerra in Iraq compresa. Trattengo, della tua posizione, la disponibilità all'aiuto "a chiunque ti sia caro e te lo chieda", a con­dizione "che la procedura legale ti resti contraria". La trattengo per fatto persona­le, e addirittura sono disposto a forzarla, togliendo quel "mi sia caro", perché può succedere che il naufrago sconosciuto che ne abbia bisogno fino a quel punto e te lo chieda ti diventi per ciò stesso caro: è que­sta, direi, la storia del buon samaritano. Però io ho scritto proprio per uscire dalle categorie generiche, più che generali, e altisonanti e intimidatorie, com'è nel dibat­tito attuale la parola di eutanasia, e per sostenere che Welby, che avrà in qualun­que momento il diritto di cambiare la sua volontà, sta chiedendo quello che la legge e l'umanità autorizzano già pienamente. La legge, perché la sospensione della ventilazione è un diritto della persona universalmente riconosciuto e costituzional­mente garantito, l'umanità, perché la scel­ta abominevole è che ciò avvenga nello spasimo dell'asfissia piuttosto che nella sedazione, che sarebbe anzi rifiutata solo in questo caso, chissà per quale ferocia, o per quale idolatria. Anche ieri ho letto tanti articoli, come il tuo e il mio, che cer­cavano di esporre la propria idea di umanità e di proporre la propria speranza pie­tosa, e poi ho letto, in un qualunque pezzo di cronaca, la secca frase del medico pre­sidente della Società di anestesia, analge­sia e rianimazione, pronunciata all'uscita di un convegno della categoria: "Ciò che Welby chiede si fa già, tutti i giorni, in tut­ti gli ospedali". Per questa stessa ragione mi auguro che, quando Welby incontrasse il passaggio che così ardentemente chie­de, gli si facesse attorno un silenzio. Sempre ieri, c'era sulla Stampa un pezzo di Elena Loewenthal su come morì il Rabbi Yehuda. "Al suo capezzale i discepoli con­tinuavano a pregare Iddio di tenerlo in vi­ta: docile alle suppliche, il Cielo obbedi­va. Per fare arrivare la morte, ci volle il gesto pietoso di una serva affezionata, che dalla cucina fece cadere un oggetto di coccio. Gli oranti sussultarono e interruppe­ro per un istante le loro preghiere: in quel momento di silenzio il maestro spirò. La tradizione non considera la serva per aver deliberatamente procurato la morte del maestro: la considera anzi un esempio di virtù. Difficile, ma necessaria là dove la vi­ta non è più vita".

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