Il cardinale Martini e la tragedia di Welby
ADRIANO SOFRI
Finalmente viene la domenica e, sbrigate le altre incombenze, data un occhiata evasiva alle notizie del giorno, la lettrice o il lettore si accomoda in poltrona e apre le pagine della cultura. Ieri, la lettrice o il lettore che ha preso in mano il supplemento del Sole 24 ore deve aver fatto un salto sulla poltrona. Piena pagina: «Io, Welby e la morte». Titolo secco: ci vuole coraggio per guardare negli occhi la morte altrui e la propria. Lo ha voluto fare il cardinale Carlo Maria Martini, con un intervento esemplare. Intanto, per il limpido riferimento alla propria personale esperienza. Martini sta per entrare, ricorda, nell’ottantesimo anno, grato a chi l’ha aiutato attraverso un tempo così lungo e travagliato, e in particolare medici e infermieri. La riconoscenza per sé non gli impedisce di pensare, «con qualche vergogna e imbarazzo», alla negligenza o l’inadeguatezza delle strutture sanitarie che costano ad altri bisognosi di cure un’attesa troppo lunga o la negazione di un ricovero. Quando decida solo il mercato, «la sanità privilegia gli interventi più remunerativi e non quelli più necessari per i pazienti». Dopo questa premessa, Martini va diritto al punto, e il punto ha il nome di Pier Giorgio Welby, «che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie...». Benché, osserva, alcune parti politiche abbiano mirato a»esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell’eutanasia», casi come questo sono destinati a moltiplicarsi, «e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale». I corsivi sono miei: e vi si legge un giudizio più che «rispettoso» — il rispetto appartiene alle parole abusate, cui segue di norma un «però»— solidale con risolutezza di Welby, e, quanto al «pastorale», decisamente distante dalla rigidità burocratica con la quale la Chiesa romana respinse la richiesta del funerale religioso. Ricordate che Welby era favorevole all’eutanasia, e ha condotto per anni una strenua battaglia per il cambiamento della mentalità e della legge, e tuttavia la sua richiesta, e l’accoglimento che finalmente ha avuto, non avevano a che fare con l’eutanasia. Con una felice combinazione di chiarezza e di semplicità, Martini affronta la confusione di lingue corrente: «E di grandissima importanza distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico...». Martini cita il catechismo cattolico, a proposito della «rinuncia... all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo». Mi pare che la confusione si sia appena ripetuta nella formulazione della domanda e nella presentazione della risposta del sondaggio Eurispes, secondo cui gli italiani sono favorevoli al 70 per cento «all’eutanasia». In realtà, come gli stessi autori del sondaggio hanno precisato, gli interpellati avevano in mente l’interruzione di cure senza speranza e non più sopportate, come nel caso di Welby, e l’accompagnamento alla fine con terapie palliative. E un fatto che il sentimento degli italiani, e in questo i sondaggi sono molti e univoci, sta dalla parte del diritto a decidere consapevolmente della propria vita e della propria morte. L’altro punto che resta equivoco è ‘accanimento terapeutico. L’indagine Eurispes, segnalando la rilevante percentuale di italiani che ne danno una definizione sbagliata, chiama accanimento la cura quando sia impossibile la «guarigione». Spero bene che non sia così, perché le malattie che non consentono «guarigione» sono molte, e le terapie che senza «guarire» possono prolungare una vita degna meritano ogni dedizione. E che cos’è una vita degna? Difficile e forse impossibile da dire normativamente: ma senz’altro quella che ciascuno consideri tale per sé. La stessa vita che Welby è arrivato lucidamente a rifiutare può essere lucidamente voluta e amata da altri. Una legge che violi l’una o l’altra scelta è ingiusta e disumana. Il legame fra definizione dell’accanimento terapeutico e consapevole scelta personale è decisivo. Il cardinale, anche qui rompendo un bigottismo mortificante — tuttavia a ridosso dello scandalo per Welby sentimenti opposti sono stati numerosi fra i cattolici e nella Chiesa — si pronuncia nettamente: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica... In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico... — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Martini osserva che «forse» sarebbe meglio parlare, piuttosto che di sospensione delle cure, o, peggio ancora, di «staccare la spina», di «limitazione dei trattamenti», nel senso che l’assistenza deve continuare, «assicurando la sedazione del dolore e le cure infermieristiche». Non so che cosa pensi il cardinale, che qui non ne parla, dell’argomento per cui la vita non è nostra, ma di Dio. Spero che pensi che Dio, anche questo Dio proprietario, preferisca rendere le sue creature responsabili della propria vita, piuttosto che affidarle allo Stato, o alla Chiesa, o a qualche altra concessionaria. A differenza dal cardinale, io sono favorevole di fatto all’eutanasia, sebbene sia incerto quanto alla legge. Mi chiedo però, a maggior ragione dopo l’edificante lettura dell’articolo di Martini (è bello poter usare per una volta sul serio l’aggettivo edificante), se non si possa rovesciare il difetto della confusione di nozioni confinanti, testamento biologico, accanimento terapeutico, eutanasia, nella virtù di una legge che, senza autorizzare una terra di nessuno dell’arbitrio o del cinismo, assicuri il diritto primario della persona del malato e la dignità della persona del medico. (E significativo che Martini si preoccupi di «proteggere il medico da eventuali accuse, come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio, senza che questo implichi la legalizzazione dell’eutanasia»). La recente legge francese, apprezzata da Martini come un esempio di equilibrio, e citata dalla «Domenica» del SoIe-24 ore, recita: «Quando una persona, in fase avanzata o terminale di una patologia grave e incurabile, decide di limitare o di sospendere qualsiasi trattamento, il medico ne rispetta la volontà dopo averla informata delle conseguenze della sua scelta...Il medico tutela la dignità del moribondo e assicura la qualità della sua fine di vita somministrando le cure...». Tutto ciò mi rafforza nella convinzione che occorra parlare della cosa piuttosto che del nome della cosa, tanto più quando i nomi, come nel caso attuale dell’eutanasia, sono esplosi. Il resoconto del bell’articolo di Martini sarebbe mutuo se non citassi il periodo che lo chiude, e che nel suo caso non è un orpello retorico.
«E soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l’insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna». Si può dunque essere d’accordo sull’aldiquà anche se non si guardi allo stesso modo più oltre.
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