giovedì, dicembre 28, 2006

Ultima partita della Roma


mercoledì, dicembre 27, 2006

Sofri oggi su Repubblica

L' amore per la vita

Adriano Sofri.

Ci sono giorni in cui si vorrebbe parlare con quella lingua: «Guai a voi... ».W. aveva curato di avvertire nella lettera al Presidente della Repubblica: «lo amo la vita». Così storpiato dal dolore e dall’artificio, non si vergognava di dirlo con parole da adolescente: «Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli.., l’amico che ti delude».Vita è «il canto del rigogolo, quello del cuculo e la risata del picchio verde maggiore». Non andava preso in parola? Ho sentito in tv una persona peraltro stimabile sospirare: «Noi non abbiamo saputo fargli amare abbastanza la vita». Noi? Lei, io, la società umana, il governo, il suo prossimo? E sua moglie, sua madre, sua sorella, i suoi amici che non l’hanno deluso tutti falliti nel compito di fargli amare la vita? E dunque W. s’ingannava, mentiva, quando proclamava di amarla? Eppure era così chiaro il suo pensiero. W . amava perdutamente la vita, anche quella della signora in tv e la vostra e la mia: solo non riusciva più ad amare la sua. La denunciava per inadempienza, se ne voleva dimettere come da una contraffazione, in nome della vita che ricordava. In un pensiero come quello - «noi non abbiamo saputo fargliela amare» - c’è un’offesa invadente a lui stesso e ai suoi cari, e c’è la presunzione che la parola magica, «vita», possa trionfare sempre della sofferenza, dell’umiliazione, del tormento, e insomma della morte. La devozione a una tecnica che non ce la fa a preservare la vita, e però riesce a dilazionare a oltranza la morte, proprio da parte di chi invoca lealtà al corso naturale delle cose. Chi si è arrogato il diritto di prescrivere a W. che cosa gli fosse permesso e che cosa negato, ha aggiunto alla prepotenza la superbia di credere di amare la vita più di W., e di potergliene insegnare il segreto. Allontana da me questo calice - era nell’agonia del cuore l’implorazione di uno che diceva di essere lui stesso la vita, e poi accettò che fosse fatta non la sua, ma la volontà del Padre. Da W. avrebbero preteso che non la sua si compisse, ma la volontà di uno Stato, di un Vicariato, di un Comitato. (Allontana da me, Padre, la parola «etica»). Poco fa un Papa aveva chiesto se l’avrebbero guarito, gli hanno detto di no, e ha voluto che lo lasciassero andare alla casa del Padre. W. ha chiesto solo che lo lasciassero andare. Forse quel vecchio Papa non amava abbastanza la vita? Non eravamo riusciti a fargliela amare, noi? Si dice che W. non fosse credente. Ammetterete che non debba esser stato neanche un gran peccatore. Stava li, a pagar care le sue notti e i suoi giorni. Si batteva da anni per una morte «opportuna»: l’aggettivo che aveva preso in prestito da un credente per augurarsi una buona morte. E’ Natale, siamo più cattivi, ecco tutto. Nel Purgatorio c’è un Buonconte, peccatore, ferito a morte in battaglia a Campaldino, che finisce nel nome di Maria: un angelo di Dio lo prende, e l’angelo d’inferno impreca rabbioso per l’anima che gli è sottratta, «per una lagrimetta».Non so se W. avesse la facoltà del pianto: di parlare no, non avrebbe potuto pronunciare una paroletta. Solo pensarla, forse, o esserne tentato. il Vicariato romano l’ha escluso. Ha dannato come peccato mortale il desiderio di liberazione di W., e ha tagliato corto col suo ultimo pensiero. Da giorni - c’è stato lo sciopero dei giornali, c’è una Provvidenza - mi chiedo se la Chiesa cattolica abbia misurato Io scandalo che ha mosso nel cuore delle persone. «in merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie»... Lo spirito soffia dove vuole: soffiava assai lontano quando è stato compilato un tal comunicato. E com’è sembrata allontanarsi la finestra su una piazza San Pietro messa in competizione con una piazza di quartiere.Egli eminenti personaggi politici? La sequela obbligata dei tele- giornali a raccoglierne facce e frasette, respingente sempre, sulla Finanziaria o sul ponte di Messina, era raccapricciante sulla vita e la morte di W. Non dico nemmeno di quelli che hanno chiamato omicidio la morte di W., assassinio l’assistenza di un medico, boia i suoi famigliari e i suoi compagni. W. non ha fatto del male a nessuno. Non ha incitato nessuno a «staccare la spina» di chi, padrone di sè, non lo voglia, nè di chi, privato di coscienza, sia curato da un affetto che preferisce tenerlo in vita. Ha chiesto quello che il diritto e la compassione dovevano a gara assicurargli. Gli stava a cuore il nome di eutanasia: ma a quella arrivava dal fatto, mentre la superstizione mascherata da etica vuole assoggettare il fatto al nome, e lo pronuncia come un feticcio.«Ma è eutanasia!» Per alcuni mesi l’Italia ha ascoltato una discussione accanita attorno a una persona che chiedeva, com’è diritto di ciascuno, e per giunta col doloroso assenso dei suoi cari, che gli fosse smessa una terapia divenuta soverchiante, e che gli fosse risparmiata l’atrocità di un trapasso vigile. Invano medici retti avvertivano che avviene ogni giorno negli ospedali e nelle case. Un ex-presidente di Comitato bioetico ha in- trattenuto cento volte il pubblico sulla differenza capitale fra la sedazione immediatamente precedente il distacco del ventilatore e la sedazione immediatamente successiva al distacco del ventilatore: immorale e illecita, benché compassionevole, la prima, autorizzata ed etica, benché sadica, la seconda. E ha scritto sull’Avvenire, lamentando l’incomprensibilità della volontà di W. («polisensa», l’ha chiamata): «Possiamo e dobbiamo esigere da parte di tutti, e in primo luogo da noi stessi, un estremo rigore concettuale e lessicale»! Fiordi medici, e di magistrati, hanno sostenuto che, essendo 11 rifiuto di una terapia, da iniziare o già iniziata, un diritto costituzionale della persona, il medico è tenuto a staccare la ventilazione, ma subito dopo, quando intervengono gli spasmi del soffocamento, il medico è tenuto per deontologia a riattaccare il ventilatore. Fiordi moralisti hanno discettato sulla differenza incolmabile che separerebbe il mancato inizio di un intervento - come la tracheostomia - dalla sua sospensione una volta che sia in atto, magari, come per W.,da tredici anni. E’ la differenza etica che separa un’estremità dall’altra di un interruttore: di qua accendete la luce, di là la spegnete. Ecco, diranno: proprio di questo si tratta, la lotta fra la luce e le tenebre... Notti abbaglianti di lampade devono avere questi moralizzatori. Si dice che le ultime parole di Goethe morente siano state: «Mehr nicht» - non più, basta. Altri obiettano che si sia frainteso, e che avesse invece sussurrato: «Mehr licht» - più luce: che meglio si addirebbe a quell’illuminato. Però il primo senso è più evangelico, e la notte arriva per tutti. Il Papa ha insistito sulla vita sacra dal concepimento al tramonto naturale, ma il tramonto è il punto in cui va via la luce. Il Papa ha messo in guardia da un tempo che vorrebbe l’uomo «sicuro ed autosufficiente artefice del proprio destino, fabbricatore entusiasta dì indiscussi successi». Non sono parole che si attagliano ai congegni dai quali W. pregava di esser liberato? Ormai le parole sembrano rivoltabili, come un vecchio soprabito. «Non si scelga la morte credendo di inneggiare alla vita»: l’ha detto il Papa, avrebbe potuto dirlo, tal quale, Marco Pannella. Che cosa ci fosse di naturale nei macchinari che vivevano per W. è difficile dire: benché essi siano anche benedetti, lo siano stati per lui finché li ha voluti, e lo siano per chiunque fino a che li voglia, o altri li vogliano per amore di un loro caro senza più coscienza. La Chiesa ha rinunciato al bando per i suicidi. Se non equivoco, la ragione che ha motivato il cambiamento è a sua volta dubbia e paternalistica, e vuole negare che il suicidio possa mai essere una scelta lucida e nobile: nell’atto del suicidio la persona è spogliata della propria responsabilità. Una tautologia: suicidio e incapacità di intendere e volere coincidono. Sia pure con questa concessione, i suicidi vengono accolti in chiesa, per fortuna, e anche solennemente. Il rifiuto del funerale religioso è di quegli avvenimenti che lasciano sgomenti.Si vuoi deridere il non credente che pretende di insegnare alla Chiesa come comportarsi. Io non pretendo niente: tuttavia mi aspetto qualcosa. E quando ciò che succede è così rovinosamente contrario all’aspettativa, bisogna dirlo. Almeno fino a che le chiese cristiane resteranno luoghi in cui si entra e si esce senza dover esibir" documenti nè dare impronte, in cui si è di casa.Questa volta la chiesa ha chiuso malamente la porta in faccia a una vecchia madre, a una moglie, che avevano bussato, e doveva bastare. Durezza e paura sembrano mescolarsi in questo rigore, e non poteva venirne fuori altro linguaggio che quello sul «defunto dott. Welby». Lo Stato aveva fatto qualcosa di turpe, forzando una donna a star fuori dal recinto della commemorazione di caduti di Nassiryia, perchè il suo era un uomo di fatto. Ma appunto dalla Chiesa ci si aspetta di meglio, se non nel dogma o nel canone, nella carità.La Chiesa, in nome della propria cura di anime, sembra esigere l’esclusiva sui corpi. Un paradosso spiegabile solo con l’inveterato pregiudizio secondo cui il peccato ha origine e fine nel corpo. Dal suo centro nella sessualità questa convinzione arriva a maledire il diritto all’autodecisione nella cura della malattia.Quel funerale espulso si chiama addosso lo scandalo di un popolo di fedeli. Ma fosse anche una sola persona a promettere: «Da oggi non metterò più piede in una chiesa» (è la frase che abbiamo sentito, non da uno solo) ce ne sarebbe abbastanza. Si può rallegrarsene, chi si augura che la Chiesa si screditi e le chiese si svuotino. Io non melo auguro affatto, dunque non me ne rallegro. Mi dispiace. Bisognerebbe essere senza peccato per usare di quella lingua: «Guai a voi...». E però ci sono giorni in cui si torna a guardare con occhi lucidi, e a vedere che il re è nudo.

(Repubblica del 27-12-06)

lunedì, dicembre 25, 2006

Funerali laici di Piero (clicca da radio radicale)

venerdì, dicembre 22, 2006

Il vicariato ha vietato i funerali religiosi

Un bel ricordo di Piero e Mina



Grazie ad Antonio Masotti

giovedì, dicembre 21, 2006

Ciao Piero





E' notte serena
Guarda: dorme ogni cosa...

lunedì, dicembre 18, 2006

mare dentro

domenica, dicembre 17, 2006

Dedicata a Piero e Mina

sabato, dicembre 16, 2006

Le principali tappe della lotta di Piero

(Corriere.it)
Dal video appello al presidente della Repubblica alla lettera inviata ai Presidenti di Senato e Camera
ROMA - L'inammissibilità del ricorso di Pier Giorgio Welby, decisa dal tribunale civile di Roma, ha chiuso questa prima fase della vicenda giudiziaria che potrà eventualmente continuare se Welby vorrà impugnare la decisione con un ulteriore ricorso. Queste le 10 tappe più significative della lotta di Welby a partire dal video appello televisivo al presidente della Repubblica.
22 SETTEMBRE: all'interno di «Primo Piano», l'approfondimento quotidiano del Tg3, Piergiorgio Welby, co-presidente dell'associazione Luca Coscioni, da quaranta anni ammalato di distrofia muscolare progressiva, rivolge un video appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in favore dell'eutanasia. «Raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà - risponde il Capo dello Stato -. Esso può rappresentare un'occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi di particolare complessità sul piano etico che richiedono un confronto sensibile e approfondito».
23 OTTOBRE: Welby dice di voler rinunciare alla ventilazione polmonare assistita e chiede se sia possibile che gli venga somministrata una sedazione terminale che gli permetta di poter staccare la spina senza dover soffrire.
14 NOVEMBRE: in una lettera inviata ai Presidenti e ai membri delle Commissioni Sanità e Giustizia di Senato e Camera, e per conoscenza, ai Presidenti dei due rami del Parlamento, Welby scrive che nessuno vuole prendersi la responsabilità di staccare il respiratore, e aggiunge che quindi «l'unica via percorribile resta quella della disobbedienza civile», da mettere in pratica insieme con Marco Pannella e altri esponenti radicali in un giorno da decidere. -
22 NOVEMBRE: alla mezzanotte comincia lo sciopero della fame, aperto anche ai cittadini, proclamato ad oltranza dall'Associazione Luca Coscioni, insieme con i Radicali Italiani. Il 4 dicembre aderisce anche Emma Bonino.
27 NOVEMBRE: Welby rivolge ad uno dei due medici che lo segue la richiesta scritta di staccare la spina e la sedazione terminale per non soffrire a causa della mancanza di aiuto nella respirazione.
28 NOVEMBRE: il medico che ha ricevuto la richiesta di Welby di staccare la spina del respiratore risponde di non poter esser lui a decidere e di rimettersi quindi alla decisione delle autorità competenti. Aggiunge che «il paziente sta però soffrendo in una maniera incommensurabile».
30 NOVEMBRE: il presidente della Camera Fausto Bertinotti parla di «un vuoto che deve essere colmato» a livello legislativo. Il ministro per le Politiche della famiglia, Rosy Bindi, afferma di essere contraria a titolo personale all'eutanasia e che «la legislazione vigente non permette di invocare la sospensione delle cure». - 1 DICEMBRE: i legali di Welby depositano presso il Tribunale civile di Roma un ricorso d'urgenza volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale.
6 DICEMBRE: il Ministro della Salute Livia Turco, pur sottolineando di essere personalmente contraria a staccare la spina e che una decisione spetta comunque al Parlamento, chiede un parere al Consiglio Superiore di Sanità «per verificare se nel caso del signor Piero Welby i trattamenti sanitari ai quali è attualmente sottoposto siano inquadrabili nell'ambito di forme di accanimento terapeutico».
11 DICEMBRE: in un parere preliminare l'ufficio affari civili della procura di Roma afferma che il ricorso di Welby è ammissibile «e va accolto» ma allo stesso tempo non si può «ordinare ai medici di non ripristinare la terapia perchè trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico».

martedì, dicembre 12, 2006

Vinicio

Comunità Cristiane di base

30° INCONTRO NAZIONALE COMUNITA’ CRISTIANE DI BASE
Frascati 8 – 10 Dicembre 2006
COMUNICATO STAMPA
L’Assemblea conclusiva del 30° Incontro Nazionale delle Comunità Cristiane di Base, che ha visto la partecipazione di oltre 300 persone provenienti da ogni parte d’Italia, espressione di 25 comunità di base e 10 gruppi ed associazioni di diverso impegno civile, sociale, ecclesiale, al termine di tre giornate di intenso ed appassionato confronto sulla laicità dell’esperienza di fede, ha approvato una lettera aperta in risposta al drammatico appello di Piergiorgio Welby e un documento sulla questione dei PACS.
Lettera aperta a Piergiorgio Welby
Caro Piergiorgio, riuniti per affrontare il tema della laicità - argomento del 30° Incontro Nazionale delle Comunità Cristiane di Base - abbiamo riflettuto anche sull’appello che tu hai lanciato all’opinione pubblica.Vogliamo comunicarti, prima di tutto, il nostro affetto, la nostra solidarietà e la nostra stima.Non spetta a noi darti quella risposta pubblica e ufficiale che deve, invece, arrivarti dalle istituzioni.La questione che tu poni, lo sappiamo bene, non è solo privata e personale, ma coinvolge l’intero paese che non può più ignorare un tale così drammatico problema che - direttamente o indirettamente - tutte e tutti ci riguarda.Per parte nostra vogliamo pubblicamente esprimerti la nostra solidarietà: noi riteniamo che sia giusto ed umano che tu possa concludere in pace, con l’attenzione affettuosa della comunità civile, la tua esperienza di vita, senza che nei tuoi confronti si eserciti un accanimento non rispettoso della tua dignità. Noi riteniamo, inoltre - rispettando quanti pensano diversamente - che in nome di nessuna religione o ideologia si possa in alcun modo costringere, in una condizione così drammatica, la tua libertà di scelta che noi - quale che sia - rispettiamo profondamente. Un abbraccio dalle sorelle e dai fratelli delle Comunità Cristiane di Base italiane
Le Comunità Cristiane di Base italiane

lunedì, dicembre 11, 2006

Gassman legge Pasolini

Pier Paolo Pasolini
"Padre nostro che sei nei cieli" (da Affabulazione)
lettura di Vittorio Gassman
Padre nostro che sei nei Cieli,

io non sono mai stato ridicolo in tutta la vita.

Ho sempre avuto negli occhi un velo d'ironia.

Padre nostro che sei nei Cieli:

ecco un tuo figlio che, in terra, è padre...

È a terra, non si difende più...

Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti.

È loquace. Come quelli che hanno appena avuto

una disgrazia e sono abituati alle disgrazie.

Anzi, ha bisogno, lui, di parlare:

tanto che ti parla anche se tu non lo interroghi.

Quanta inutile buona educazione!

Non sono mai stato maleducato una volta nella mia vita.

Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere.

Per difendermi, dopo l'ironia, avevo il silenzio.
Padre nostro che sei nei Cieli:

sono diventato padre, e il grigio degli alberi

sfioriti, e ormai senza frutti,

il grigio delle eclissi, per mano tua mi ha sempre difeso.
Mi ha difeso dallo scandalo, dal dare in pasto agli altri il mio potere perduto.

Infatti, Dio, io non ho mai dato l'ombra di uno scandalo.

Ero protetto dal mio possedere e dall'esperienza del possedere,

che mi rendeva, appunto, ironico, silenzioso e infine inattaccabile come mio padre.

Ora tu mi hai lasciato. Ah, ah, lo so ben io cosa ho sognato

Quel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te.

Ecco perché è cambiata la mia vita.
E allora, poiché Ti ho,

che me ne faccio della paura del ridicolo?

I miei occhi sono divenuti due buffi e nudi

lampioni del mio deserto e della mia miseria.
Padre nostro che sei nei Cieli!

Che me ne faccio della mia buona educazione?

Chiacchiererò con Te come una vecchia,

o un povero operaio che viene dalla campagna, reso quasi nudo

dalla coscienza dei quattro soldi che guadagna

e che dà subito alla moglie - restando, lui,

squattrinato,

come un ragazzo, malgrado le sue tempie grigie

e i calzoni larghi e grigi delle persone anziane...

chiacchiererò con la mancanza di pudore

della gente inferiore, che Ti è tanto cara.

Sei contento? Ti confido il mio dolore;

e sto qui a aspettare la tua risposta

come un miserabile e buon gatto aspetta

gli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso,

come un bambino imbambolato e senza dignità.
La buona reputazione, ah, ah!

Padre nostro che sei nei Cieli, cosa me ne faccio della buona reputazione,

e del destino -

che sembrava tutt'uno col mio corpo e il mio tratto

- di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di

me?

Che me ne faccio di questa persona

cosi ben difesa contro gli imprevisti?

domenica, dicembre 10, 2006

Welby e il silenzio della sinistra

9 dicembre Stefano Passigli Unità on line
I «no» alla straziante richiesta di Welby di poter morire senza ulteriori sofferenze si moltiplicano. Alle tante pronunce delle gerarchie cattoliche si sono ora aggiunte la rozza accusa di Fini che taccia perentoriamente di «assassino» chi volesse aiutare Welby a morire, e molte voci all´interno della Margherita. Welby si è appellato al capo dello Stato, e Napolitano ha sottolineato che la politica non può rimanere sorda dinnanzi a questo dramma, tornando implicitamente a sottolineare - con la concessione della grazia a chi si era spinto al passo estremo di por fine alla vita del proprio figlio - che il problema non può più essere ignorato. In questo contesto sorprende il sostanziale silenzio del maggior partito di governo. La preoccupazione dei Ds di non rendere più difficile di quanto già non sia il cammino verso la nascita di quel partito democratico che divide profondamente i propri militanti può giustificare alcune prudenze in sede parlamentare, ma certo non l´afasia sul piano dei principi, e su fondamentali questioni etiche prima ancora che politiche. Si possono forse giustificare alcune «ritirate» parlamentari quali la rinuncia alla parificazione a fini successori di conviventi e coniugi; si può perfino - anche se con ben maggior fatica - giustificare l´unirsi all´ala più fondamentalista della Margherita in un voto di sconfessione delle decisioni del ministro della Salute in materia di droga. Ma come tollerare il silenzio sul caso Welby? Il fatto è che dopo la coraggiosa presa di posizione e la sconfitta nel referendum sulla procreazione assistita, i Ds sembrano aver progressivamente messo da parte il tema della laicità dello Stato, e guardare con crescente fastidio a qualsiasi questione che possa porli in rotta di collisione con la Margherita, nella convinzione forse che così facendo si faciliti la marcia verso il nuovo partito. È vero - temo - esattamente il contrario, perché proprio il silenzio del partito su principi etici fondamentali e la sua insufficiente difesa di questioni altrettanto fondamentali per la laicità dello Stato (libertà della ricerca, multiculturalità della scuola, parità dei diritti, etc.) può spingere molti dirigenti e militanti dei Ds a guardare con occhio sempre più scettico alla possibilità di dar vita ad un partito che non sia frutto di mere convenienze di apparato.

venerdì, dicembre 08, 2006

Piero scrive al TG3

Signor Direttore,
sono Piergiorgio Welby, che ha preso il posto di Luca Coscioni quale Presidente dell'Associazione radicale che porta il suo nome, e come esponente della costellazione di soggetti politici Radicali, nazionali e internazionali, che operano con e attorno al Partito Radicale.
Ormai, 77 "giorni" fa, mi sono rivolto pubblicamente, personalmente, politicamente, al Presidente della Repubblica, quale supremo Garante del rispetto della Costituzione, della legalità repubblicana; per ottenere finalmente l'esercizio del mio diritto naturale civile politico personale ad una mia morte - naturale -. Solo modo possibile per conquistare (anche in Diritto) pace per questo "mio" corpo altrimenti sempre più straziato e torturato. Sequestratomi, per una kafkiana imposizione "etica" dall'ordinamento e del potere burocratico, o anche a esso imposto. Dobbiamo tutti - credo- gratitudine per la qualità, l´importanza, della Sua risposta e delle Sue esortazioni che hanno indubbiamente consentito il grave e grande dibattito che unisce, anzichè dividere, coloro che vi partecipano, che non sono indifferenti.
Signor Direttore,
Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma - qual è il corpo - necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio "essere".
Sono accusato, insomma, di "strumentalizzare" io stesso, la mia condizione per muovere a compassione, per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni Radicali e della Associazione Luca Coscioni, che ha ragione ormai antica e sempre più antropologicamente, culturalmente, politicamente forte; "dal corpo del malato al cuore della politica". O, ancora, non sarei, come già Luca Coscioni, che io stesso strumentalizzato dai "miei", così infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati. (O indemoniati, vero... Signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici.
Dalla mia prigione infame, da questo corpo che - per etica, s'intende - mi sequestrano, mi tornano alla memoria le lettere inviate alla... "politica" da un suo illustre, altro, "prigioniero": Aldo Moro. Pagine nobili e tragiche contro gli uomini di un potere che aveva deciso di condannarlo (anche lui per etica, naturalmente) a morte certa, anche lui ad una forma di tortura di Stato, feroce ed ottusa. Quelle pagine non potrei farle mie. Anche perché furono perfette, e lo restano.
Un pensiero, ancora, un interrogativo, un dubbio: dove sono mai finiti per tanti "credenti" Corpo mistico e Comunione dei Santi?
Comunque Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori! Chi siano (e in che modo) i morti o i vivi che rimarranno tali quando saremo tutti passati, non sappiamo, né noi né voi.
Io auguro a voi ogni bene. Spero davvero (ma temo fortemente che così non sia), spero davvero che questo augurio vi raggiunga, si realizzi, perché questo "voi" oggi manca anche a me, anche a noi altri.
Per finire, grazie Signor Direttore per la sua tollerante attenzione. A questo mio estremo, ultimo tentativo di trasmettere parola. Grazie sincero,
SuoPiero Welby
p.s. Chiedo - ringraziandoli fraternamente - alle oltre 700 mie compagne e compagni, antiche e nuovi, che sono in sciopero della fame, alcuni al sedicesimo giorno, di sospendere questa loro forma di lotta, che ha contribuito in modo determinante al radicamento di un nuovo grande momento di dialogo e di conoscenza a tutto il Paese.

giovedì, dicembre 07, 2006

SolitograndeSofri

da Il Foglio del 7 dicembre
Adriano Sofri
Caro Giuliano, ecco la mia obiezione. Io parlo di Piergiorgio Welby, tu dell'in­grosso, vita e morte, embrioni e aborto, dolore e compassione, compassione e pietà. Succede per altri argomenti, libertà di ricerca scientifica o guerra in Iraq compresa. Trattengo, della tua posizione, la disponibilità all'aiuto "a chiunque ti sia caro e te lo chieda", a con­dizione "che la procedura legale ti resti contraria". La trattengo per fatto persona­le, e addirittura sono disposto a forzarla, togliendo quel "mi sia caro", perché può succedere che il naufrago sconosciuto che ne abbia bisogno fino a quel punto e te lo chieda ti diventi per ciò stesso caro: è que­sta, direi, la storia del buon samaritano. Però io ho scritto proprio per uscire dalle categorie generiche, più che generali, e altisonanti e intimidatorie, com'è nel dibat­tito attuale la parola di eutanasia, e per sostenere che Welby, che avrà in qualun­que momento il diritto di cambiare la sua volontà, sta chiedendo quello che la legge e l'umanità autorizzano già pienamente. La legge, perché la sospensione della ventilazione è un diritto della persona universalmente riconosciuto e costituzional­mente garantito, l'umanità, perché la scel­ta abominevole è che ciò avvenga nello spasimo dell'asfissia piuttosto che nella sedazione, che sarebbe anzi rifiutata solo in questo caso, chissà per quale ferocia, o per quale idolatria. Anche ieri ho letto tanti articoli, come il tuo e il mio, che cer­cavano di esporre la propria idea di umanità e di proporre la propria speranza pie­tosa, e poi ho letto, in un qualunque pezzo di cronaca, la secca frase del medico pre­sidente della Società di anestesia, analge­sia e rianimazione, pronunciata all'uscita di un convegno della categoria: "Ciò che Welby chiede si fa già, tutti i giorni, in tut­ti gli ospedali". Per questa stessa ragione mi auguro che, quando Welby incontrasse il passaggio che così ardentemente chie­de, gli si facesse attorno un silenzio. Sempre ieri, c'era sulla Stampa un pezzo di Elena Loewenthal su come morì il Rabbi Yehuda. "Al suo capezzale i discepoli con­tinuavano a pregare Iddio di tenerlo in vi­ta: docile alle suppliche, il Cielo obbedi­va. Per fare arrivare la morte, ci volle il gesto pietoso di una serva affezionata, che dalla cucina fece cadere un oggetto di coccio. Gli oranti sussultarono e interruppe­ro per un istante le loro preghiere: in quel momento di silenzio il maestro spirò. La tradizione non considera la serva per aver deliberatamente procurato la morte del maestro: la considera anzi un esempio di virtù. Difficile, ma necessaria là dove la vi­ta non è più vita".

Video del giorno

martedì, dicembre 05, 2006

A. Sofri da "Repubblica"

Il diritto di Welby a staccare la spina
La Repubblica del 5 dicembre 2006, pag. 1
di Adriano Sofri
Prima di dire di qualcuno che è felice, bisogna aspettarne l´ultimo giorno. Così, più o meno, Ovidio, e tanti sapienti antichi. Premeva loro di avvertire gli umani cui sembrasse arridere la fortuna: non se ne sentissero al sicuro, e gli altri non li invidiassero, fino all´ora della morte, e anzi alle esequie avvenute. Montaigne cita Plutarco. A uno che invidiava il re di Persia, arrivato così giovane su un così gran trono, lo spartano Agesilao rispose: «Già, ma nemmeno Priamo era stato infelice a suo tempo». E che cosa penseremo del contrario? Piergiorgio Welby è dannato alla sua malattia da più di quarant´anni. L´ultima ora, che ha tanto invocato, non gli sarà felice, benchè si sia spinto, poco fa, a immaginarla così: «Morire dev´essere come addormentarsi dopo l´amore, stanchi, tranquilli e con quel senso di stupore che pervade ogni cosa». Non gli sarà felice, non riscatterà i troppi anni, ma che almeno non lo sprofondi nell´offesa e nel dolore supremo. L´ha già percorso a ritroso, il cammino degli umani, come racconta lui: «gattonare, muovere i primi passi, camminare correre…», e invece: «da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, fino all´ultimo stadio: respiro con un ventilatore polmonare, mi nutro con un alimento artificiale, parlo con l´ausilio di un computer». Fino ai 60 anni. Non ha resistito abbastanza? Non l´ha protratto abbastanza, il suo dolore, da meritare una mano fraterna? Dimenticate per un momento le parole grosse, che servono a spaventare e affascinare, e a rimuovere la cosa. La cosa è questa: c´è un uomo che ne ha abbastanza. La sua vita, che lui stesso, pienamente lucido, non chiama vita, dura solo grazie a un´efficienza di macchinari che sarebbe ammirevole, a condizione d´esser voluta.La ragione e la stessa Costituzione gli riconoscono il diritto di rifiutarne la prosecuzione. I congegni che, contro la sua volontà inequivocabilmente espressa, gli prolungano il tormento sono l´esempio nitido di quell´accanimento terapeutico che tutti proclamano di non volere, salvo rifiutarsi di vederlo quando si compie. Le macchine che ora lo torturano a oltranza, Welby avrebbe potuto rifiutarle, come ha fatto il suo predecessore nella carica che sta onorando, Luca Coscioni: dunque quale patto diabolico e irreversibile gli vieterebbe di rinunciare a esse dopo tanta pena? Tante, troppe voci si alzano a intimare o a scongiurare che le macchine non siano spente, che «la spina non sia staccata» - che lui vi resti attaccato, come il prigioniero al filo elettrico nel quale è incappato fuggendo. Ma attenzione: che quei congegni possano essere revocati qualcuno è disposto a riconoscerlo. Altre formule sono pronte per inquadrare quel gesto perfino ovvio: il Consenso informato, il Testamento biologico. Però Welby, esosamente, non si accontenta di chiedere d´esser staccato dal meccanismo che vive per lui e contro di lui - ci provò del resto, si è saputo, con le sue sole, irrisorie forze... Chiede che al suo commiato sia risparmiata l´atrocità di un´agonia strozzata e bestiale, che i suoi sensi siano sedati, come si deve contro la sopraffazione del dolore. Lo chiede con la meticolosità e l´osservanza che si deve alle pratiche d´ufficio: «Il sottoscritto Piergiorgio Welby chiede al Dott (…) il distacco dal ventilatore polmonare sotto sedazione terminale se possibile orale». Ecco, è questa richiesta, la dose minima di umanità, che si infrange contro la voracità della legge, e lo scandalo dell´ipocrisia, anche la più accorata, dunque più difficile da debellare. Ci sono persone che hanno troppa compassione per sè, per la severità inflessibile di cui si sentono investite, per riservarne ancora un po´ al proprio prossimo. L´anestesia che Welby chiede sarebbe omicidio, dicono. Ma che omicidio sarebbe, se il distacco dalle macchine è il suo diritto, e se la conseguenza automatica ne è la morte? Si chiama omicidio una fine meno storta dalla convulsione e dall´asfissia, che si chiamerebbe dunque morte naturale se si compisse lentamente negli spasimi del dolore. L´eutanasia: mai - si proclama. Si è appena imparata quella vecchia nuova parola, per esorcizzarla. Ma si accetti allora di proclamarne il complemento, il contrario auspicato e imposto di prepotenza: non so, la cacotanasia, la morte cattiva e incattivita, ma la cercherete invano nel dizionario dei contrari, perché la cattiveria degli umani non è arrivata a escogitarla. Il nome no, il fatto sì. Eutanasia è il dare la morte a chi la implora - salvo che diventi, tradendosi, l´assassinio del debole o dell´inconsapevole, che non vuole o non può autorizzare a niente, e che è di peso o superfluo al mondo. L´eutanasia è pietosa. Ma non occorre ammetterla: e che il cielo esima dalla prova dei fatti chi la mette al bando per sé e per gli altri. Ma la morte a Welby non sarebbe inflitta dal farmaco che chiede, bensì soltanto dalla rinuncia alla dipendenza artificiale dalle macchine. Dunque, che battaglia stiamo combattendo, se non quella ennesima della clandestinità contro la lealtà?La lucidità di Welby, che lui sente forse come la peggior condanna, dovrebbe almeno impedire di compiacersi delle accuse di strumentalizzazione ai suoi amici e compagni radicali. È lui che dedica la sua vita e la sua morte a una causa. Mi figuro quanto caro gli sia costato e gli costi - ma si smette presto di figurarsi una simile prova. È un fatto che il suo estremo desiderio personale coincide con la sua convinzione solidale. Welby non chiede a nessun altro di fare come lui. Chiede a tutti che chi lo voglia possa fare come lui. Ho ascoltato parole impensabili. Un parlamentare cristiano, per il quale non avevo che ragioni di simpatia, ha detto: «Lo stesso Welby sa benissimo che le leggi dello Stato italiano non consentono, se non attraverso il suicidio, di decidere personalmente di morire, quindi se lui ritiene di voler dare un taglio alla propria vita può suicidarsi con l´aiuto della moglie». Oltretutto, le leggi dello Stato italiano mandano in galera per molti anni la moglie di Welby che sapesse aiutarlo. Si discute accanitamente (ci sono accanimenti retorici assurdi quasi quanto le terapie) di questioni proprietarie. La vita non ci appartiene, eccetera. Dunque io non sarei padrone del mio corpo? Certo che lo sono. Però anche in questa ovvietà - senza chiamare in causa le definizioni giuridiche - entrano un paio di complicazioni. La prima è la separazione fra il soggetto e il complemento, che la sintassi verbale consente ma la realtà no. Chi sono «io» fuori dal «mio corpo»? La seconda è nell´intrusione quasi inavvertita del piacere della proprietà privata: «padrone» del «mio» corpo. Si capisce che sia la naturale replica a chi pretende di espropriarmi del mio corpo e sottoporlo a una proprietà altrui - dello Stato, della società, di Dio, e Dio sarebbe il più offeso di tutti di una supposizione così patrimoniale. Forse si può licenziare l´idea che io sia padrone del mio corpo, o il suo vendicativo reciproco, che io finisca prigioniero del mio corpo, e dire più semplicemente che io sono il mio corpo. Temiamo di mancare di riguardo all´anima, o alla mente, o allo spirito, e a qualunque altro battito che non si esaurisca nel corpo e magari gli sopravviva: e tuttavia anche la mia anima e la mia mente e il mio spirito esistono nel mio corpo vivo, e solo in esso sono i miei, sono me. Le donne, che dell´espropriazione del corpo, anche senza il pretesto della malattia, anzi con l´attribuzione di una debolezza naturale, sono specialmente esperte, lo vollero rivendicare, contro i maschi e lo Stato (maschio) e le presunte ragioni della collettività dichiarando: «Io sono mia». Bello slogan, per il momento: alla lunga, per così dire, è più bello rinunciare al possessivo. «Io sono io» - piuttosto che mia e mio. Io sono io, e la manomissione della mia libertà non è solo l´appropriazione indebita di uno Stato, di una Chiesa, di un Partito e di una Ragione collettiva, bensì la violazione sacrilega della mia persona. È questa violenza, tanto più penosa quando è più inavvertita e anzi scandalizzata e ispirata, a suggerire la messa al bando dei «casi singolari» come irrilevanti alla definizione della norma, e la superstizione delle parole, come «eutanasia». Nel primo caso si dice: non si può commisurare la legge a un caso particolare - dunque la legge deve passar sopra, alla lettera, al caso particolare, e schiacciarlo. Nel secondo si proclama: mai, anzi, MAI, ammetteremo anche solo di prendere in esame l´accettabilità dell´eutanasia - dunque la categoria generale, un nome, basterà a escludere il caso particolare, la sua povera carne e le sue ossa rotte, e a schiacciarlo. «Rivoglio la mia morte, niente di più, niente di meno!» Così Welby: abbiamo già sentito questa cosa, no? «... E nell´ora della nostra morte». Della nostra, dunque. E così sia.

Editoriale da "Il Riformista" 5 dicembre

Il rispetto della volontà di Welby è il primo dei nostri valori Piergiorgio Welby continua a vivere. Quindi a soffrire. E continua a chiedere che si ponga fine alla sua vita, quella di un uomo colpito da una distrofia muscolare che non può più regredire, che non è tanto lontana dal concetto di tortura. Ce ne sono, eccome, di «casi Welby» in Italia. E ce ne sono stati prima che l’intervento di Giorgio Napolitano abbattesse la grande barriera tra la politica, le istituzioni e le persone come Piergiorgio. Ha ragione Fausto Bertinotti quando dice che «il caso Welby dimostra che c’è un vuoto che deve essere colmato» e che «la politica deve avere la capacità di rispettare scelte di vita, ma poi deve intervenire nella realtà senza lasciare grandi vuoti». Parole sagge, cui si potrebbe dar seguito discutendo di testamento biologico, del rapporto tra etica e politica, di individui e dei famosi “valori” con cui molti si riempiono la bocca. Discutere per cercare di colmare il grande vuoto è necessario. Ma per farlo serve un tempo che Piergiorgio Welby e la sua sofferenza quotidiana non possono aspettare. Per la sua richiesta di mettere fine alle proprie sofferenze stanno scioperando in 250. Tra questi c’è anche il ministro Emma Bonino. E ieri Fabio Mussi, ha dichiarato: «Non ci si può accanire a tenere in vita il dolore». Eppure, c’è chi di fronte alle sofferenza di Welby la “butta” nella solita caciara dell’eterno scontro tra laici e cattolici. Ieri, ad esempio, Livia Turco ha insediato la commissione sulla terapia del dolore, le cure palliative e la dignità del fine vita. Una decisione che, tanto per dirne una, l’uddiccino Luca Volontè ha accolto con queste parole: «I laicisti tacciono sui pericoli di un governo che si arroga il potere di decidere quale vita valga la pena di essere vissuta. A noi non sfugge la tentazione totalitaria del ministro Turco». Per fortuna, non tutti i cattolici la pensano come Volontè. «Staccare la spina? Penso che sarebbe una scelta giusta. Welby non ha nessuna possibilità di migliorare, dobbiamo rispettare la persona, altrimenti ne prolunghiamo solo la sofferenza», ha detto il cattolico a Repubblica Ignazio Marino, trapiantologo e (diessino) presidente della Commissione Sanità del Senato. «In questo caso, come in altri - ha aggiunto Marino - staccare la spina non significa uccidere ma accettare che non c’è più nulla da fare». È così difficile, aggiungiamo noi, accettare questa realtà e decidere, prima di qualsiasi altra discussione, di rispettare l’ultima volontà di Piergiorgio Welby? Ci dicono che c’è sempre la speranza. E che la speranza è sempre l’ultima a morire. È così difficile rendersi conto che nel caso di Welby è «il morire» l’ultima speranza?

A. Sofri aderisce allo sciopero della fame per Welby


Eutanasia: Welby, anche Sofri due giorni in sciopero della fame
ROMA - Adriano Sofri partecipera' per due giorni allo sciopero della fame in sostegno delle ragioni di Piergiorgio Welby, il copresidente dell'associazione Luca Coscioni, gravemente malato, che ha chiesto alle piu' alte cariche dello Stato una chiara presa di posizione sul tema dell'eutanasia. (Agr)

sabato, dicembre 02, 2006

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