lunedì, febbraio 25, 2008

Se c'è lei non vi votiamo

giovedì, febbraio 14, 2008

La crudeltà dell'ideologia

di Francesco Merlo

Cosa avrebbero fatto i sette agenti di polizia se in quell'ospedale di Napoli fossero arrivati durante l'operazione e non subito dopo? Avrebbero rimesso il feto dentro la donna? "Fermi tutti, in nome della legge: controabortisca o sparo!".
Davvero la polizia che a Napoli irrompe in sala operatoria e sequestra un feto malformato è roba da teatro del grottesco e della crudeltà, da dramma di Artaud. Sembra un episodio inventato per dimostrare la stupidità dei fanatici della vita ad oltranza, per far vedere a quale ferocia si può arrivare in nome di un principio nobile e astratto ridotto ad ossessione e sventolato come un'ideologia, persino elettorale.
È difficile anche ragionare dinanzi a questa violenza che è stata commessa a Napoli. Una violenza contro la legge, innanzitutto, perché l'aborto era terapeutico e quindi legittimo, nel pieno rispetto della 194. Anche se va detto forte e chiaro che l'oscenità dell'irruzione non sarebbe cambiata di molto se quell'aborto fosse stato ai limiti della legge o persino fuorilegge, come si era arrogato il diritto di credere il giudice napoletano, informato - nientemeno! - da una telefonata anonima.
Ed ecco la domanda che giriamo ai lettori: perché un giudice, che ha studiato il Diritto laico e che sa che la giustizia mai dovrebbe muoversi in base ad una qualsiasi convinzione religiosa; perché un giudice che si è formato in un'Italia civile e tollerante non capisce che ci sono ambiti delicatissimi nei quali comunque non si interviene con i blitz, con le sirene, con le manette e con le pistole? Amareggia e addolora che questo signor giudice di Napoli si sia comportato come il burocrate di quella ferocia ideologica che si sta diffondendo in Italia su temi sensibili - e l'aborto è fra questi - che invece richiedono silenzio, rispetto, solidarietà. È come se un diavolo collettivo, un diavolo arrogante che presume di incarnare la morale pubblica, avesse spinto giudice e poliziotti a trattare un'intera struttura ospedaliera - dagli amministratori ai medici, dagli anestesisti agli infermieri - come un covo sordido di mammane abortiste.
Solo il fanatismo, che come sempre nasce da un'intenzione apparentemente buona, può fare credere che i medici di Napoli non siano persone per bene ma stregoni sadici, allegri assassini di nascituri. Il signor giudice, mandando la polizia in sala operatoria, ha trasformato un luogo di lenimento della sofferenza in un quadro di Bosch. E alla fine invece di mostrare il presunto orrore della professione medica, ha mostrato tutta l'asfissia di un'altra professione, della sua professione.
Quante telefonate anonime riceve un giudice a Napoli? Davvero ad ogni telefonata ordina un blitz in tempo reale? E come ha misurato l'urgenza dell'intervento? E quali rei stava cercando? La mamma? Il papà? I medici e gli anestesisti? Cosa voleva mettere sotto sequestro preventivo: l'utero di quella donna? Adesso, a quella signora che, appena uscita dalla sala operatoria, è stata sottoposta ad un incredibile interrogatorio, bisognerebbe che lo Stato chiedesse scusa. L'hanno trattata come un'omicida, come una snaturata che si vuole sbarazzare di un feto alla ventunesima settimana. Hanno inventato per lei il reato di feticidio, hanno applicato contro di lei il loro stupido estremismo che inutilmente vorrebbe deformare e deturpare il buon cattolicesimo italiano in schemi da sermoneggiatori fondamentalisti, con tutto questo parlare di Dio e dividersi su Dio.
La polizia non ha sorpreso una gang di infanticidi ma una donna provata da un terribile dramma personale, costretta ad abortire per non mettere al mondo, nel migliore dei casi, un infelice menomato. Per questa signora come per tutti gli italiani, di destra e di sinistra, l'aborto è, qualche volta, una disgrazia necessaria. Perché il diritto all'aborto, in questo caso terapeutico, risponde sempre e comunque a una legislazione d'eccezione. Speriamo dunque che serva questo orribile episodio di Napoli a mostrare tutta la miseria di un'idea che attribuisce alla sinistra di questo infelice paese la voglia matta di abortire e alla destra invece la difesa della vita. Non è così. Non ci sono in Italia da un lato gli abortisti che ballano attorno ai feti e dall'altro gli antiabortisti che si organizzano in squadre di polizia. In questo paese per tutti, e anche per la legge, l'aborto è sempre una tragedia.
Ecco perché, prima che il clima diventi infernale, ci permettiamo una volta tanto nella vita di esser d'accordo con Silvio Berlusconi che ha sconsigliato a Giuliano Ferrara di presentare una lista elettorale "per la vita". C'è forse in Italia qualcuno "per la morte"?
Berlusconi ha aggiunto ieri che secondo lui il dibattito sull'aborto andrebbe tenuto lontano dalla campagna elettorale. Ha ragione. E non perché il dibattito non meriti l'attenzione e il rispetto che anche Ferrara merita.
È stato Ferrara a dichiarare al "Corriere" che mai egli vorrebbe incriminare una donna che ha abortito, e che non è a cambiare la legge 194 che aspira con la sua battaglia. Chi allora, secondo lui, ha armato di ferocia l'interventismo del giudice e dei poliziotti di Napoli? Si sa che i cattolici sostengono che la vita va protetta sin dal concepimento, col risultato estremo di giudicare ogni aborto come una violazione del quinto comandamento. I protestanti invece considerano la nascita come la soglia decisiva senza tuttavia negare che la morte del feto sia un danno per i genitori. Per gli ebrei lo statuto del feto è una questione controversa perché un feto nel ventre della madre è un progetto di vita in corso d'opera. Per i musulmani il feto diventa un persona umana a quattro mesi dal concepimento anche se si tratta di "una persona umana allo stato vegetativo".
Come si vede - e ci scusiamo per il necessario schematismo - le religioni si dividono. E anche la scienza si divide. Ma nessuno stato laico, nessun legislatore laico può risolvere per legge questa disputa e nessuna sentenza di qualche Cassazione può fissare il momento in cui il nascituro diventa un individuo da proteggere giuridicamente. Senza arroganza dunque lo stato laico ha stabilito quel giorno e quell'ora nell'atto di nascita. Prima, il feto e la donna che lo porta in grembo vengono tutelate da un legge che, per quanto carente, è una buona legge, che ha fatto progressivamente diminuire il numero degli aborti, ha insegnato alle italiane che il diritto all'aborto è una drammatica conquista, un'angosciosa soluzione d'eccezione, e che la destra e la sinistra per una volta non c'entrano nulla.

da "Repubblica"
13 febbraio 2008

lunedì, febbraio 11, 2008

Sofri su Repubblica


La Repubblica 11 febbraio 2008


di Adriano Sofri


L’altra sera, tardi, ho chiamato Marco Pannella. L'avevo sentito troppo amareggiato, alla radio, mentre commemorava Giordano Bruno e un po' se stesso. Sei in una botte di ferro, gli ho detto, in una torre argentina. "Sono qui al par­tito, infatti". E come mai, a quest'ora? "Perché a casa c'è meno luce". Marco, che vuol dire che a casa c'è meno luce? "Mah, devono essersi ful­minate delle lampadine...". Ma allora, cambiale! "Ah no, non sono le lampadine, è che mi si è abbassata la vista. Allora ho portato la macchina da scrivere qui al partito...". La macchina da scrivere? "Sì, non ho ancora imparato a usare il computer. Fummo i primi a promuovere Internet, ma io... Solo che qual­cuno dev'essere passato, e sen­za sapere che era la mia, ha por­tato via la macchina da scrive­re". Poi abbiamo parlato di po­litica. Ma ormai mi figuravo questo vasto spettro che si aggi­rava per le stanze notturne di Torre Argentina cercando la sua antica macchina da scrive­re, nel febbraio del 2008. Prima avevo chiacchierato un po' con Emma Bonino, anche lei ama­reggiata dalla messa al bando da parte del Pd, coi ministri del quale aveva lavorato in pieno accordo per due anni, e soprat­tutto offesa dall'ennesimo invito a ripudiare Pannella e corre­re, lei sì "da sola", e non male ac­compagnata. "Come se non vo­lessero capire che nessuna in­giunzione, nessuna convenienza, mi indurrà a rinnegare un legame politico e umano che è, lui davvero, non negoziabi­le". Vorrei, con questo esordio aneddotico, lodare una lealtà e un affetto preziosi a segnare il valore della passione politica e i confini dentro i quali deve sa­persi tenere. Io faccio affidamento sul Par­tito democratico e sul suo lea­der, mi rammarico che le sue scelte si siano compiute in ritardo, e sotto i colpi della decaden­za - di un'emergenza della monnezza politica, per così di­re. Mi congratulo della decisio­ne di "andare da soli". Tuttavia non capisco perché questo "an­dare da soli" venga spinto fino alla superstizione, quando ci sia una concordia di program­mi e un'affidabilità di compor­tamenti. La partecipazione al governo dei radicali italiani non è più stata una circostanza "tat­tica", come potevano far teme­re i precedenti, ma un reim­pianto saldo dentro la vicenda della miglior sinistra. Si deve soprattutto a loro il bel voto per la moratoria della pena capita­le. Nel linguaggio burrascoso (ma, col senno di poi, penetrante) che gli è proprio, Pannella aveva dichiarato che nella lotta fra Capaci di tutto (il centrode­stra) e Buoni a niente (il centro­sinistra) bisognava stare coi se­condi, e starci senza riserve, come "l'ultimo giapponese", e l'ha fatto. La pattuglia radicale non ha avanzato veti e ultima­tum, gran voluttà dei commen­sali minori del governo Prodi. Venivano da una stagione dub­bia, in cui avevano rischiato di sovrapporre americanismo e bushismo, e liberismo e fetici­smo del mercato: tentazioni ab­bandonate, con l'aiuto robusto dei fatti. Si sono guardati dal ca­valcare la cresta d'onda dell' "antipolitica", pur vantando una primogenitura nella denuncia della partitocrazia. Pic­coli come sono, pensano al mondo in grande, e sono davve­ro europei. Hanno anticipato di anni, avversari ma affini alla Chiesa, sulla questione della persona e del corpo, un'agenda cui la politica arriva in affanno e soggezione. E sui temi più con­troversi preferiscono all'illu­sione dell'onnipotenza delle leggi la fiducia nelle trasformazioni dei modi di pensare e di vi­vere. Nessuno ignora, e tanto me­no Pannella che Pannella è un gran rompicoglioni, e che prendere un cappuccino con lui esige una dose speciale di cristiana pazienza. D'altra parte le per­sone cordiali, quelle che non pensano che il tempo sia sol­tanto denaro, provano una be­nevolenza per Pannella per le stesse ragioni che lo rendono un rompicoglioni, e anzi di più ora che "perde il filo" - lo sto ci­tando. Ammettiamo che una percentuale dell'ostracismo imposto a Pannella abbia que­sta umanissima spiegazione. Ma non si vorrà scambiarla per la vera ragione. Il rifiuto oppo­sto a un apparentamento coi ra­dicali - per esempio, nella di­gnitosissima forma di una Lista Bonino - che significa la scom­parsa dei radicali dal parlamen­to, è un grazioso regalo da por­tare alla propria bella. Non chiederò se sia davvero conve­niente: direi di no, perché non conviene mai eccedere in zelo. Piuttosto, è un buon segno? No senz'altro: perché l'unico veto accettabile all'interno di un partito che si voglia nuovo nella stessa concezione della politi­ca, è quello contro chi pretenda di imporre veti. I radicali non si sognano di farlo. E suona surreale sentire rispettabili espo­nenti di Opus Dei spiegare a nome del Partito democratico l'incompatibilità dei radicali. Con un piccolo slittamento di tema, osservo che la nettezza "decisionista" di Veltroni è, coi tempi appena corsi, benvenuta: la politica paga un prezzo al­to all'inefficacia, e la sua versio­ne nel centrosinistra testé suici­dato portava quel prezzo alle stelle, con gli ultimatum di mo­sche cocchiere. Dunque le scel­te d'imperio che Veltroni va compiendo, quando la stalla si è svuotata dei buoi, hanno una doppia giustificazione. E la sua investitura, già limpida (come al congresso ultimo dei Ds), è diventata insieme pleonastica e plebiscitaria con le primarie. Però il consenso, appena increspato da qualche mugugno, che l'accompagna ora, è d'occasio­ne: i tempi di urgenza elettorale e di compilazione di liste sono i meno propizi agli sgambetti di notabili e correnti. Ma gli sgam­betti sono solo dilazionati, e quando il momento verrà sa­pranno avvalersi dell'addebito di scarsa democraticità. Il fatto è che questo, che sarà un prete­sto dorato per le rivalità di cor­te, sarà anche un argomento ineludibile per i cittadini sim­patizzanti per il Pd. Si trascura la liquidazione di un tema come la democrazia interna ai partiti. Si da per scontato ciò che si è consumato nei fatti: che pres­soché tutti i partiti — un diritto costituzionale dei cittadini "per concorrere con metodo demo­cratico a determinare la politica nazionale"- sono diventati ap­parati clientelari o gregari sot­tomessi al comando per grazia celeste di un capo. Partiti si formano e si sciolgono in una com­parsa televisiva, da un predelli­no d'auto o in una telefonata. E' un paradosso seccante, ma l'e­stinzione della democrazia di partito per la proliferazione di partiti padronali e patrimonia­li, coincide con la liquidazione della prima repubblica. I partiti maggiori erano al proprio inter­no variamente "democratici", almeno nel senso di riconosce­re meccanismi di concorrenza e successione, sicché i congres­si democristiani (e i socialisti) avevano davvero svolgimento e conclusioni aperte e a volte spettacolarmente impreviste, e quelli comunisti, schiacciati nel centralismo democratico, dovevano proprio per questo concedere molto alle accuse esterne e alle insofferenze interne. Anzi, la sensibilità alla questione della democrazia in­terna era più alta proprio fra i comunisti, i più inclini, anche, a giustificarne il sacrificio con l'abnegazione personale alla causa collettiva. Negli eredi la traccia di quella sensibilità du­ra, sicché il Pd, anche nel suo frangente "dittatoriale" - nel senso romano, si augura, antico - fa tuttavia i conti con la demo­crazia interna, come non avvie­ne più in nessun partito del cen­trodestra (e non solo). Ma il tra­collo della democrazia nei par­titi e la sua sostituzione con una gamma di apparati caudillisti, politici e antipolitici, ha a che fare col tracollo della democra­zia in generale. Veltroni ha una doppia ragione per tenerne conto: perché la democrazia in generale deve stargli a cuore, e la sua leadership verrà prima o poi misurata a questa stregua. Nei giorni scorsi si sono ascoltate dichiarazioni sulla af­finità del Pd con l'Italia dei Va­lori, piuttosto che coi radicali o coi socialisti. Un'animaccia che si pretende legalitaria ed è di fatto forcaiola corre per tutti gli schieramenti, e del resto l'illegalismo italiano è così epide­mico da garantire a ogni giustizialismo una rendita sicura; ma non dovrebbe impedire di ri­tornare con la mente allo zenith di Mani Pulite, per chiedersi che cosa si sarebbe pensato del­l'eventualità che il Pubblico Accusatore Di Pietro, uscito dalla magistratura, diventasse il ca­po di un partito intitolato al suo nome e cognome. Davvero lo score dei radicali italiani — la li­tania pannelliana, divorzio, aborto, obiezione di coscienza, nonviolenza, tribunale inter­nazionale, liberalizzazioni... - è più incompatibile? Veltroni e gli ottimi suoi com­pagni e compagne hanno un gran daffare, in queste ore, e sia­no salutati dalla solidarietà di tanti di noi. Ma possono ancora fermarsi per qualche minuto su un paio di cose. La bella lezione di Emma Bonino che si rifiuta, e non certo per rispetto umano, di fare la fatina buona contro l'orco cattivo. E la lezione che darebbero loro se trovassero un modo dignitoso di accogliere la partecipazione dei radicali, dis­sipando l'impressione di voler­ne regalare, come si dice, lo scalpo a interlocutori che non andrebbero nemmeno loro ab­bassati al rango di collezionisti di scalpi. E assicurando al pro­prio risultato una percentuale in più, capace di avvicinare alla soglia ardua della vittoria. Non so quanti voti possano far per­dere, e quanti portarne i radica­li. So che senza di loro, il centro­sinistra del 2006 avrebbe perso le elezioni. (Magari fosse suc­cesso, direte voi: ma è un'altra storia).

mercoledì, febbraio 06, 2008

incontro

A. Sofri da "Il Foglio" 6/02/2008


Trovo assai istruttiva, quanto all'assurdità o peggio dei tempi, la polemica sul bando dei radicali da parte del Partito democratico. Un po' per lealtà, un po' perché se ne aspettavano molto meno che gli altri commensali (con quella formula pannelliana, i Capaci di tutto contro i Buo­ni a nulla) i radicali sono stati i più fedeli partecipi della vicenda del governo Prodi, e i meno inclini agli ultimatum e ai calcoli di botteguccia. Emma Bonino si è guada­gnata, come ogni volta che le venga affida­to un incarico di fiducia - come il soldato Nemecsek, pronto a immergersi nella vasca dei pesci rossi, se la consegna è quella - l'apprezzamento di tutti gli osservatori in buona fede. Ai radicali si deve in misura decisiva il più prestigioso dei rari meriti di cui il governo può andar fiero, il voto all'O­nu per la moratoria sulla pena di morte. Ai radicali è stato fatto il torto evidente - e co­me tale riconosciuto in pubblico da alcuni fra i più autorevoli giuristi, in privato da tutti - di sottrarre i seggi in Senato che la lettera della legge, cioè la legge, assegnava loro, capaci oltretutto di dare al governo quella infima maggioranza che ne avrebbe protratto l'esistenza. In una esperienza go­vernativa lungo la quale le cose buone so­no state realizzate non grazie ma nonostan­te o contro la coalizione di governo, e la consumazione di una maggioranza si è bru­ciata fino alla mortificazione e al rigetto di un intero popolo, e l'opposizione è cresciu­ta come un pallone gonfiato senza prende­re alcuna iniziativa degna di memoria, e anzi dando prove intestine di meschinità madornale e sbandierando dalla prima ora fantastici proclami di illegittimità del risul­tato elettorale, i radicali hanno fatto la loro parte costruttivamente facendosene un punto d'onore, come gli ultimi giapponesi di una guerra perduta. Nel corso di questa esperienza, e già alla sua vigilia, hanno am­piamente dissipato una rischiata confusio­ne fra l'americanismo, che rivendicano, e il bushismo, e fra il liberismo, che rivendica­no, e la legge della giungla. Vantando a ra­gione una estraneità ai vizi castali, e anzi una primogenitura nella denuncia della partitocrazia, si tengono alla larga dalla cresta d'onda demagogica, Hanno auspicato costantemente e vigorosamente indulto e amnistia, e non se ne sono pentiti ipocrita­mente quando piovevano pietre forcaiole. Hanno sostenuto, con l'esempio della vita e della morte di militanti e dirigenti politici che dalla loro solidarietà hanno tratto e soprattutto dato forza, da Luca Coscioni a Piergiorgio Welby, battaglie tra le più es­senziali per una nobile idea della politica. Quanto all'aborto, solo una confusione fra la dolorosa libertà di scelta personale del­le donne e l'infamia delle demografie coer­citive di stato può ricacciare su trincee op­poste e accanite persone accomunate da un intimo amore per la vita. I radicali sono lai­ci, ma questo non dovrebbe guastare in nes­sun partito, tanto meno nel Partito demo­cratico. Qualcuno di loro sarà anche mangiapreti, ma i preti contemporanei hanno a loro volta appetito da vendere. Insomma, la mia opinione è che l'idiosincrasia per i ra­dicali sia una brutta malattia, che per giun­ta vede loro come ammalati dal cui conta­gio guardarsi. Ora, in un serio partito che voglia fare da sé, ed essere davvero aperto, l'unico veto accettabile è quello contro chiunque voglia imporre veti alla parteci­pazione altrui. I radicali non lo fanno. Que­sta almeno è la mia opinione.
Adriano Sofri

venerdì, febbraio 01, 2008

Preghiera in gennaio