lunedì, ottobre 30, 2006

Don Lorenzo Milani (guarda)

Filmato reso disponibile grazie alla collaborazione di Arcoiris tv

Papa e preti pedofili (leggi)

Turco: il capo dello stato Città del Vaticano ascolti e dia seguito alle parole pronunciate oggi da Benedetto XVI
Roma, 28 ottobre 2006
Dichiarazione di Maurizio Turco, deputato della Rosa nel Pugno, segretario della Commissione Affari costituzionali:
Non v´è dubbio che quanto detto oggi da Benedetto XVI rispetto ai casi di abusi sessuali da parte di religiosi, con particolare riguardo agli atti di pedofilia, sia esattamente quello che andiamo suggerendo da oltre tre anni: "stabilire la verità di quanto accaduto, al fine di adottare qualsiasi misura sia necessaria per prevenire la possibilità che i fatti si ripetano."Senza alcuna pretesa di stabilirla noi, la verità, ci permettiamo di suggerire al Capo dello Stato della Città del Vaticano - che ci auguriamo ascolti e dia seguito alle parole di Benedetto XVI - di cominciare a dare alcune risposte.Perché nel 1962 fu inviata a tutti i Vescovi l´istruzione "de modo procedendi in causis de crimine sollicitationis"? Perché doveva essere "diligentemente conservata nell´archivio segreto della curia"? Perché fu deciso di non pubblicarla nell´Acta Apostolicae Sedis, la "Gazzetta ufficiale" dello Stato Città del Vaticano? Perché nel 2001 il prefetto e il segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Ratzinger e arcivescovo Bertone, hanno inviato l´epistola "de delictis gravioribus"?Rispondendo a queste domande forse non arriveremo alla "verità" di quanto accaduto, ma sicuramente Benedetto XVI potrà capire perché, come ha affermato oggi, "le ferite create da atti del genere sono profonde". Profonde e, ci consenta, purulenti.

sabato, ottobre 28, 2006

Quando il medico stacca la spina

Adriano Sofri da "Repubblica" 27 ottobre
Nonostante le serie televisive di successo, le rianimazioni restano luoghi in ombra: i pazienti non ci arrivano per propria scelta, come dai primari più prestigiosi, ma per disgrazia. Dunque costano molto cari (un ricovero costa sui 2 mila euro al giorno), e non rendono. Non sono il fiore all'occhiello delle aziende ospedaliere: dovrebbero esserlo. Questa volta proverò a guardarlo con gli occhi dei padroni di casa, il reparto di rianimazione, e a riferirne più prosaicamente e utilmente. Il trascinatore della rianimazione, quella legata al pronto soccorso e all'urgenza, è Paolo Malacarne, che ha un viso di giovane profeta, testa rasata e barba folta, e gli avevo dato dentro di me, come se non bastasse il suo, il cognome dostoevskiano di Verchovenski. Malacarne è una specie di riservato e intransigente missionario. Benché sia giovane, ha vent'anni di lavoro alle spalle, e ha fatto in tempo a sentire i pazienti, cui si presentava come anestesista, domandare ansiosamente: "E mi può chiamare il dottore?”. Nel reparto ci sono sei posti: sono sempre occupati, e succede di dover mandare altrove, magari in un'altra provincia, i malati esuberanti, o di ricorrere ad altri espedienti. E la Toscana ha una sanità invidiabile per competenza e umanità. Aspettano da tempo due letti in più, che sarebbero la soluzione: vuol dire cinque infermieri in più. Le infermiere, e gli infermieri, sono protagonisti decisivi della cura. Quando trovarvi una vena diventa un'impresa, l'infermiera che sappia riuscirci entro il terzo tentativo piuttosto che bucarvi trenta volte in ogni punto del corpo è un angelo del cielo. E se una parola affettuosa e intelligente, o la carezza di cui parla Veronesi, e così importante, sono le infermiere e gli infermieri a tenerne il segreto. In alcune terapie intensive esistono gruppi di attenzione composti, oltre che dai sanitari, da sociologi, psicologi, sacerdoti e altre figure simili; più rara è la partecipazione degli infermieri. I quali si sentono spesso e a ragione esclusi da questioni, comprese le decisioni sulla fine della vita, alle quali hanno un titolo forte per la confidenza continua, carnale, coi corpi dei pazienti, e coi familiari, ai quali tanto spesso spiegano “che cos'ha detto il dottore”.
Sono loro ad ascoltare i racconti dei malati, a guardare la fotografia di famiglia che si sono portati dietro, a notare il colorito della loro nuova giornata. I luoghi in cui le decisioni di fine vita tengano qualche conto del parere degli infermieri non arrivano a un quarto. E’ vero che per lo più gli infermieri pensano che i medici tirino le cose troppo alla lunga, non per cinismo, ma per un peculiare realismo, e una più intima partecipazione alla sofferenza. Scrivo infermieri, come si usa, ma il femminile è determinante, e lo è sempre più anche fra i medici. E tutt’altro che ovvia la constatazione che le donne sono più riluttanti a “staccare la spina”. La presenza dei familiari, non confinata in orari avari, auspicata da Ignazio Marino, e naturalmente più complicata in rianimazione (in altri reparti, come in pneumologia, l'ho trovata accolta senza riserve, e considerata poco meno che un toccasana), ma preziosa. (Marino ha ricordato che in rianimazione le infezioni si rischia di prenderle, più che di portarle, coma sa chi si è misurato col famigerato Acinetobacter Baumanii).
Quanto alla missione, Malacarne è schivo, e preferisce attribuire la peculiare sensibilità dei rianimatori alla consapevolezza di come sia brutto morire in rianimazione, per il malato che si disfa e per i parenti. "C’è un tale corpo a corpo con la sofferenza che chi ci rimane deve avere una compassione”. 2 su 10 ricoverati in rianimazione ci muoiono. Nel 2005, la ricerca del "Gruppo di valutazione degli interventi in terapia intensiva" ha considerato 3.700 morti (su 21 mila pazienti, e 114 terapie intensive su 140). Nello studio manca per motivi legali la domanda esplicita sulle azioni intraprese per "abbreviare il processo del morire”. C'è un dato europeo del 2-3 per cento, senz'altro sottostimato. Sono i casi in cui al morente si somministra morfina, o valium, e quando è del tutto privo di coscienza si stacca il respiratore, o si inietta potassio in vena. In un 15 per cento di casi si decide di interrompere le cure, rinunciando a usare strumenti esistenti, perché manca ogni ragionevole prospettiva di recupero. Si rinuncia all'intubazione, o alla dialisi. In un altro 15 per cento si decide di desistere da una terapia intrapresa: a un malato intubato, attaccato al respiratore, sottoposto a dialisi, coperto da farmaci per la pressione, si sospende la dialisi, o i farmaci. E’ ragionevole pensare che in questa percentuale di casi, dove le cure si sospendono, si faccia anche qualcosa per abbreviare l'agonia. Malacarne indica tre situazioni tipiche. Nella prima, una persona, sana fino al momento del male, arriva incosciente, i familiari non hanno titolo legale per decidere, né si sa che cosa vorrebbe se fosse cosciente: gli si fa tutto, il respiratore, la tracheotomia...(La terapia intensiva e quella in cui vengono sostenute artificialmente tutte le funzioni vitali; nella sub intensiva una sola, respiratoria, il ventilatore, cardiocircolatoria, i farmaci). Il malato peggiora, e sottoposto alla dialisi, riceve farmaci che sostengano il cuore. Peggiora ancora, subentrano infezioni, si capisce che non c'è più una capacità di ripresa. Un organismo fino a poco fa sano non ce la fa. Si capisce che questa situazione che riguarda per lo più traumi, o eventi acuti drammatici, spesso in persone molto giovani renda più penosa e difficile la decisione di desistere, o piuttosto di non insistere invano. Seconda circostanza: arriva in rianimazione un malato cronico. Può avere un'età assai avanzata, soffrire di un enfisema grave, un'insufficienza respiratoria, forse già a casa aveva l'ossigeno, e una crisi ha riacutizzato la sua malattia cronica. Al Pronto Soccorso, dove arriva incosciente, viene intubato e portato in rianimazione. Qui si sveglia e dice che vuole essere stubato, che non vuole assolutamente la tracheotomia, che vuole solo essere lasciato in pace. E’ lui a rifiutare recisamente la terapia "lìfe substaioing". Il medico si adegua, rinunciando a fare qualcosa che potrebbe fare. Terzo caso, quello di Pier Giorgio Welby. Tutte le risorse terapeutiche sono state già applicate, è lucido, vuole che siano sospese, e che gli si permetta di morire. Ci sono tante persone, a casa loro, attaccate a un respiratore. Anche fuori dall'impegno senza orario dell'ospedale, molti rianimatori li seguono a casa. C'è un momento in cui i malati dicono basta. Tornano in ospedale, oppure a casa loro, e chiedono: staccami. Deontologicamente un medico, oggi, non può staccare. Ci sono casi in cui un medico obbedisce a una legge più forte della deontologia professionale, e ne risponde alla sua coscienza. E’ importante notare che la frontiera non passa fra il medico cattolico e quello non credente. Come rifiutarsi di fronte alla richiesta di un malato cosciente e al consenso dei suoi cari? Troverete difficilmente un medico che non l'abbia fatto. E’ fuorviante chiamare questo eutanasia. Si pensa all’eutanasia come alla situazione in cui una persona viene da te e ti chiede: Mi fai un'iniezione, perché voglio morire? La realtà è molto più complicata, e soprattutto non conosce categorie astratte, bensì storie singolari di malati, famigliari, medici, ciascuno con una sua responsabilità: dove l'autodeterminazione di chi sta male deve avere il primo posto. Diversa è la situazione dei reparti anti-dolore, e anche lì non e così netto il confine fra la morfina somministrata per alleviare il dolore, o un po' di più. Ma nel cancro non c'è un impedimento delle funzioni vitali, per cui bisogni decidere se ripristinare artificialmente.
Un diffuso pregiudizio è quello che, per scusabile ignoranza, o per cavillo fanatico, distingue fra il non iniziare una terapia salvavita, e l'interromperla dopo averla intrapresa. (Si tratta, in un buon terzo dei casi, del ventilatore, ma si muore anche sei giorni dopo la sospensione della dialisi, o un paio d'ore dopo l'interruzione dei farmaci cardiaci in vena che provoca un infarto). Secondo quel pregiudizio, c'è una differenza etica fra il non fare che sembra un'astensione e il sospendere che sembra un'attività. Nei famigliari è la frase ansiosa: "Se si intuba poi non si può stubare”. Nei professionisti, è una sciocchezza. L'omissione può essere altrettanto colpevole altrettanto innocente che l'azione. Nelle terapie intensive quello che chiede Welby viene fatto, col consenso dei famigliari con o senza diritto, o nell'incertezza del diritto. (Welby però non chiede di “staccare la spina”, ma di liberarlo dal dolore e dallo squallore dell'agonia). Su tutti questi casi si sovrappone un’altra necessità: quella del posto. Non di rado è una nuova urgenza a imporre una scelta. Spesso, quando si può, il malato viene trattenuto nella terapia intensiva, pur di non passarlo alla corsia ordinaria, dove rischia di morire. Se ci fossero subintensive sufficienti, molti malati delle intensive potrebbero uscire prima, e alleviare la penuria diletti. Gli studi Usa ed europei calcolano (escluse le unità coronariche) un fabbisogno di 1 posto letto in terapia intensiva su 7-10 mila abitanti. La nostra media oggi e di 1 ogni 14 mila. Nei Paesi più maturi si è elaborato un sistema di valutazione di qualità (fondato sulla differenza fra le morti “attese" e le morti effettive alla dimissione dall'ospedale) cui i medici tengono molto, senza di che l'unica valutazione è quella economica. L'Italia ha, rispetto a quel criterio, una buona qualità. La mortalità nelle rianimazioni si è ridotta, negli ultimi 10 anni, del 10 per cento.
La terapia intensiva resta una nicchia a parte rispetto all'autodeterminazione o all’eutanasia, perché ci si arriva incoscienti. Il testamento biologico sarebbe dunque risolutivo in molti casi, e sempre prezioso. Anche rispetto al fenomeno più sconvolgente, l’accanimento terapeutico praticato per cautelarsi da ritorsioni medico legali. Si arriva a compiere interventi chirurgici, sapendoli vani, solo per questo.

mercoledì, ottobre 25, 2006

Lauzi (ascolta)

La Stampa del 26 ottobre
di Paolo Conte

E’ un grande dolore. E subito un grande vuoto. Scompare con Bruno una persona, e una personalità, tutta speciale, un alto valore artistico e intellettuale. Nessuno ha scritto una canzone così elegante dal disegno squisito e semplice come la sua «Ritornerai». La sua vocalità tagliente e intonatissima era e rimarrà inconfondibile, come la sua assoluta maestria di accompagnatore sulla chitarra.Voglio dirlo forte, in questa triste occasione: Bruno era dotato di un talento ineguagliabile e di una magnifica devozione verso tutto quello che fosse autenticamente arte. Laico e libertario, è stato un intellettuale «di sostanza», senza sofismi né bizantinismi.Mi diceva: «Forse tu sei Cab Calloway e forse io sono Bob Hope». Gli piaceva Bob Hope, sentiva di somigliargli nella ironia profonda e intelligente espressa con signorile distacco e consapevole simpatia. Addio, Bruno. Io ed Egle non ti dimenticheremo mai, ti stimeremo sempre, ti ricorderemo con il nostro affetto e la nostra amicizia.

martedì, ottobre 24, 2006

Welby: posso staccare la spina senza soffrire?


Ad un mese dalla lettera al Presidente della Repubblica Napolitano, Piergiorgio Welby (co-Presidente Associazione Coscioni) torna sul tema della sua malattia e dell'eutanasia. «È mia ferma decisione - dice - rinunciare alla ventilazione polmonare assistita. Staccare la spina mi porterebbe ad una agonia lunga e dolorosa. Anche una sedazione protratta nel tempo non mi garantirebbe una morte immediata senza dolore. Chiedo: è possibile che mi sia somministrata una sedazione terminale che mi permetta di poter staccare la spina senza dover soffrire?».Su possibili risposte alla domanda di Piergiorgio Welby si confronteranno giuristi, medici e politici ad un seminario promosso urgentemente dall'Associazione Coscioni appena giunta tale sollecitazione. Il seminario si terrà a Roma venerdì 27 ottobre 2006, in Via di Torre Argentina 76, presso la sede del Partito Radicale dalle ore 9.45 alle 14.30.

lunedì, ottobre 23, 2006

A. Sofri ricorda P.P.P. (guarda)

a 30 anni dalla morte

da radioradicale

sabato, ottobre 21, 2006

LUCA (guarda)

giovedì, ottobre 19, 2006

I nostri deputati! (guarda!!!)

Veronesi risponde a Sofri

Repubblica di oggi
Il medico e l’angoscia delle vite sospese
Caro Sofri,
fanno male le parole con cui lei descrive le vite sospese in terapia intensiva ed è stato un atto di coraggio di questo giornale pubblicarle in prima pagina. Quelle parole non contengono infatti rancore polemico, né note strappalacrime, e neppure consolatorie promesse di salvezza. Danno voce autentica al dolore che non fa notizia. Quello con cui nessuno si vuole identificare e dunque nessuno pensa a come affrontare, quello che i medici preferirebbero ignorare perché rappresenta la sconfitta della loro professione e che ognuno relega fra le sventure di fronte alle quali non resta che allargare le braccia, con la sola speranza che “proprio a noi” non accada mai. A chi interessa “cosa sognano i pesci rossi”? Non a caso cito il titolo del libro di Marco Venturino, medico direttore della divisione di anestesia e rianimazione all'Istituto europeo di oncologia. Il suo racconto, caro Sofri, mi ha subito richiamato alla mente quello del protagonista del libro, un uomo nel pieno dell'età e della carriera che si trova di colpo travolto nella tragedia di un cancro inoperabile e metastatico. Un intervento chirurgico inutile e sbagliato lo trasforma in un “prigioniero del suo corpo”, in un numero, il 7, quello del suo letto in terapia intensiva, in un “pesce rosso” che, a causa di una tracheotomia, non emette alcun suono e che vive, “come in una vasca di un acquario troppo piccolo, l'unico esistere che gli compete, a dirigere dice il flusso dei miei pensieri che peraltro non mi appartengono più di tanto perché io vorrei soltanto dimenticare, annullare, prolungare gli oblii e uscire in silenzio da questa scena che mi è stata imposta e che verosimilmente sarà l'ultima della mia vita terrena - ma a cosa diamo la definizione di vita?”. Anche queste parole mettono a nudo tre grandi nervi scoperti: il rapporto dell'uomo con la malattia, il dolore e la morte; il rapporto fra potenza e impotenza della medicina; il rapporto fra medico e paziente. Se le leggiamo con attenzione, tutti noi, medici e no, malati e no, riusciamo a sentire su di noi l'angoscia del malato grave. E ci accorgiamo che questa angoscia non deriva tanto (o soltanto) dalla paura della fine ma la perdita di dignità causata dal dolore e dalla aggressività delle cure. E il dolore che annulla la persona e che riduce l'uomo a cosa. Per questo bisogna usare ogni mezzo per evitarlo. Inoltre sentiamo una nuova paura nei confronti della fine della vita... Mentre un tempo il terrore unico e universale era quello di morire, ora si associa anche quello di essere tenuti tecnologicamente in una vita artificiale. E qui arriviamo al secondo punto: la potenza e impotenza di una medicina che cura sempre di più e guarisce sempre di meno. Ma quale allora il nuovo limite della cura? Se la medicina non può guarire, deve davvero ugualmente curare per dimostrare le sue capacità? E se si, fino a che punto e a quali costi umani, per non diventare accanimento terapeutico e ripiombarci nel dramma del dolore? Paradossalmente il grande sviluppo dei mezzi tecnici e tecnologici delle scienze biomediche hanno allargato in molti casi il divario fra possibilità di cura e possibilità di guarigione, mettendo i medici di fronte a dilemmi sempre più complessi che riguardano non solo la malattia del paziente, ma la vita e la sua fine. Ed eccoci al terzo punto il rapporto medico paziente. Il medico moderno ha dimenticato l’esistenza di una medicina dei gesti (le parole prima di tutto, ma anche gli sguardi e le carezze), di una dimensione soggettiva sempre presente nella malattia, ogni malattia, anche la più grave, che va compresa e anch’essa curata. E un medico che spesso non sa più vedere la differenza fra curare la malattia e curare il malato e tra curare il dolore e curare la sofferenza. Ci sono malattie che provocano un dolore terribile, ma che si può dominare e annullare con le medicine. Ma la sofferenza, quella profonda, psicologica ed esistenziale, si risolve solo con la ”compassione”, nel senso greco del termine (soffrire insieme), e con l'empatia, che significa immedesimazione nei bisogni e nelle paure di chi ci sta di fronte...Bisogna non solo aver voglia di comunicare, ma anche saperlo fare. Bisogna saper esplorare chi ci sta dolorosamente di fronte, prima di mettere in atto qualsiasi terapia. Di ogni malato bisogna saper capire la sensibilità, la storia, il passato, il carattere. Non è un compito facile per il medico: si sbaglia, si confonde. E allora? Comunque, nel limbo infinito della rianimazione “si decide, si sceglie. Tutti i giorni e così là dentro, tutte le notti”. Sofri, lei ha assolutamente ragione ma io aggiungo che non possiamo fermarci qui. Penso che se sia la conoscenza che la coscienza che abbiamo di noi stessi si è evoluta e qualcuno ha il coraggio di dirlo, non possiamo più lasciare troppi nervi scoperti. Dobbiamo riconsiderare il rapporto fra cittadini e medicina: rinforzare i diritti di tutti all'autodeterminazione, incoraggiare i pazienti ad essere consapevoli ed esprimere le proprie posizioni rispetto alle cure che vengono loro proposte, educare i medici a tenere conto sempre delle volontà del malato e allo stesso tempo fare in modo che non si trovino da soli di fronte alle decisioni terapeutiche più difficili. Abbiamo strumenti da analizzare, già utilizzati in altri paesi: dal consenso informato alle cure (che per fortuna è un obbligo anche in Italia), al testamento biologico, fino alla legalizzazione dell’eutanasia. Vorrei che su questi temi l'attenzione fosse alta, la riflessione profonda e che nel dibattito si ascoltasse sempre la voce dei malati. Come io e molti altri abbiamo ascoltato, caro Sofri, la sua.

mercoledì, ottobre 18, 2006

Rianimazione

Quelle vite sospese nel reparto di rianimazione
Adriano Sofri - Repubblica di oggi
La prima volta che tornate, da pellegrini, coi vostri piedi, nel reparto di rianimazione, siete un po' delusi dalla piccolezza e dalla calma, come a rivedere da adulti certi luoghi favolosi e tumultuosi dell'infanzia. Poco meno di una metà di ricoveri dura meno di 24 ore, la media degli altri è di otto giorni. Ci siete stati invece dieci giorni in coma, e poi venti giorni in uno stato vigile, benché non subito lucido. O piuttosto, troppo lucido, com'é il delirio paranoico, effetto di sedazioni potenti il curaro, chi immaginerebbe di essere curato dal curaro? Nella transizione dall'anestesia alla veglia, siete vittime di una mostruosa cospirazione, medici e infermieri vi torturano e si preparano ad ammazzarvi, i vostri stessi famigliari non vogliono credere al vostro allarme, e forse stanno prestandosi alla congiura. Quando state meglio, ve ne vergognate un pò non tanto, però e capite che forse morirete, e che medici e infermieri stanno cercando di impedirio. Allora avete paura di non morire, e di restare compromessi nei corpo, o nella mente, e che vogliano salvarvi per una vita che non vorreste accettare. Prima avete temuto che vi volessero torturare e assassinare. Adesso temete che vi vogliano torturare e salvare la vita. Non è solo la paranoia indotta dagli anestetici: la rianimazione assomiglia a una sala di tortura. E', per così dire, una tortura alla rovescia, non per spogliare meticolosamente di dignità e di vita un corpo sano, ma per risanare un corpo già esanime e spossessato. Simile è la sensazione di essere privati di se, e di guardare penosamente il proprio corpo, reso estraneo e umiliante, in balia di sconosciuti. Negli altri reparti d'ospedale i malati, anche i più gravi, sono di norma svegli, e dunque si suppone magari assurdamente che possano dormire, mentre in rianimazione i pazienti sono di norma addormentati, e non sono in grado di risvegliarsi, o addirittura sono trattenuti in un sonno profondo, e dunque in rianimazione non c'è differenza fra giorno e notte, né per i pazienti, né per i medici e gli infermieri, mentre negli altri reparti si rispetta fin troppo strettamente, non so se per la forza dell'abitudine o per ragioni sindacali, la differenza fra giorno e notte, e di notte le cure ordinarie sono sospese, e vige solo un'azzardata custodia cautelare, anche se chi sta male non vuoi saperne di star meglio solo perché è scesa la notte, e le notti insonni dei malati non finiscono mai. Quando per un'eccezione l'ospite della rianimazione è vigile, l'indistinzione fra giorno e notte lo disorienta, in un modo che può essere penoso o allegro, come un soggiorno invernale al Polo sud. La luce dei giorno non entra nel reparto, dove sono sempre accese le luci artificiali e colorate della catasta di macchinari che alimentano i respiri e il battito dei cuori e l'introduzione di liquidi nei corpi, e la batteria di suoni meccanici che li scandiscono, base fissa, inframmezzata da suoni di allarme ed emergenza, fino a quelli, come un singhiozzo artificiale, che segnalano la vita che si spegne. Chi è vigile, dunque, guarda similmente al proprio e agli altrui corpi vicini con un senso di estraneità e di compassione, e osserva l'affaccendarsi esperto, e spesso frenetico e convulso, di medici e infermieri attorno ai corpi altrui, vedendoli trattati come una provvisoria materia inerte ancora riscattabile alla vita, e figurandosi il proprio corpo maneggiato con la stessa esperienza e frenesia in bilico fra un'inerzia sui punto di spegnersi definitivamente e una scommessa di risveglio. A volte i curatori maneggiano il corpo senza accorgersi che è a suo modo vigile, e li guarda e li ascolta, e li introduce dentro una propria trama, spaventata o rassicurante, come succede a volte dei sogni che incamerano e piegano a sè suoni ed eventi reali esterni prima di cedere ai risveglio. Chi è vigile conosce e inventa insieme la storia dei suoi vicini: una bambina in coma da settimane, i cui genitori non si staccano dal capezzale, un giovane albanese che ha sbattuto con la moto, una ottuagenaria operata all'aorta che urla improperi e ricade in una catalessi, un anziano operaio che tiene gli occhi aperti ma non c'è, e le visite intimorite di sua moglie, che sembra scusarsene. Ci arrivano anche i bambini, in rianimazione, perfino i neonati, e tuttavia è raro che ci siano posti pensati per loro: i rianimatori si ingegnano, escogitano una nicchia in cui tenerli immobili, un casco da motociclista, per esempio. Chi è vigile e giace, attaccato a un ventilatore, ammutoilto dalla tracheotomia contento, in principio, di essere esonerato dalla parola traforato di cavi di entrata e tubi di uscita, guarda, e gli sembra che la propria sorte dipenda fatalmente da quella dei vicini, il suo imprevisto prossimo, e oggi forse stamattina forse stanotte, chissà ai giovane albanese della moto e stata amputata una gamba, e l'operaio anziano continua a tenere gli occhi aperti a vuoto, e gli fanno una ginnastica inerte, come a un manichino, pollo rimettono giù, inclinato sull'altro fianco, e la vecchia grida oscenità e ripiomba in letargo, e i genitori tengono la mano della bambina e si tengono per mano. Che cosa sarà di loro, che cosa sara di lui, e la stessa cosa. E' un'impresa comune. Chi è vigile si sente chiamato a battersi anche per loro, che giacciono addormentati e ignari. La rianimazione è in verità una nave mascherata da edificio cittadino, ma al tramonto un tramonto immaginato, a occhio, sui cambio turno degli infermieri cade l'impalcatura cittadina e si scopre lo scafo l'alberatura e le vele dei vascello corsaro, che salpa alla volta deilla quotidiana battaglia navale sotto una luna piena, nella distesa d'acqua della Piazza dei Miracoli. Il capitano è un anestesista con la barba da pirata, o da populista russo, e prende nota di tutto su un suo quaderno segreto, il nostromo è un chirurgo dai capelli rossi, il miglior uomo dei mondo, per voi un rinnegato, che sbandiera ogni giorno di nuovo su una nuova costa la resurrezione di un paziente, sempre lo stesso, in combutta con lui per fingere e riscuotere certe medaglie internazionali. Chi è vigile ma inchiodato ai suo letto deve contemporaneamente partecipare all'arrembaggio di un'ammiraglia nemica e ordire un ammutinamento contro la fellonia del rosso e dei suoi accoliti, infermieri e agenti segreti travestiti da lavoranti delle pulizie. Finché tramonta la luna, cambia di nuovo il turno, la nave corsara torna ad ancorarsi e a drizzare la sua facciata di palazzina, e si ricomincia con la recita delle visite, delle misurazioni, dei prelievi, delle terapie, degli sguardi d'intesa fra i medici e delle battute delle infermiere che parlano ai corpi vigili o sedati come si parlerebbe a un neonato,e in effetti quelli sono vicini alla parete dell'aldilà come un neonato, e hanno loro stessi l'impressione, se possono avere impressioni, che fra lo stare per andarsene all'altro mondo e l'essere appena venuti a questo mondo non ci sia pressoché differenza. E questo dura un'eternità. Finché si accetta di nuovo di parlare, si chiede un foglio e una matita, e con una mano semilibera si scrive un pensiero, un desiderio, un ordine, un insulto ma l'infermiera, la moglie, la dottoressa, la figlia, prende il foglio, lo guarda, scuote la testa e non sa leggervi che uno scarabocchio insentato, uno zig zag infantile che parte in alto a sinistra e finisce in basso a destra. Non sapete scrivere, non sapete parlare né camminare, né padroneggiare il vostro respiro, né i vostri sfinteri, e non sapete se mai sarete capaci di reimparare, e tanto meno se ne avete voglia, e vi prende una febbre così alta da darvi il delirium tremens, e di nuovo si corre attorno a voi a fare movimenti frenetici che vi sfuggono e non fanno più appello a voi, si compiono alle vostre spalle, per così dire, forse per finirvi, forse per salvarvi, forse, e quello che fa paura, per rifiutarsi di finirvi senza potervi salvare. Succedono cose. Il giovane motociclista, poco più che ventenne, robusto com’era, aveva perso una gamba, e ora perde la vita. La bambina dalla testa fasciata ha aperto gli occhi, ha guardato i suoi genitori come se li avesse lasciati la sera prima, e loro sono pazzi, la coprono di baci, e stringono le mani dei medici e delle infermiere. Tutti contenti e intimiditi, anche la moglie dell'operaio anziano, il quale ha gli occhi aperti chissà su cosa, e ha un viso bruciato che starebbe bene a un Papa. Il paziente vigile, così com'è, senza respiro, senza parola, col cavi d'entrata e i tubi d'uscita, viene messo su un'ambulanza e trasferito in un reparto normale, con un'allegra sirena, nei mondo in cui si fa differenza fra il giorno e la notte. Non è in salvo, ma puo farcela. Via da quel limbo di corpi in aspettativa, santi tauniaturghi, arcangeli e churubine infermiere, diavoli inforcatori. Restare in rianimazione, d'ora in avanti, potrebbe fargli più male che bene, e poi bisogna liberare il posto. Dicono che chi abbia trascorso anche una sola ora in rianimazione da sveglio, non vede l'ora di dimenticarlo. Però a certi pazienti resta una nostalgia. Come di altri posti di sofferenza estrema, città assediate, città bombardate, celle di isolamento, luoghi che non dovrebbero esistere, ma dai quali ci si stacca a malincuore, perché si ha la sensazione di essersi avvicinati al senso della morte, o della vita, che è lo stesso. Si libera il posto guarendo, o morendo. Non di rado i rianimatori, alle prese con il posto, devono scegliere fra l'uno e l'altro: fra il ragazzo del motorino e l'anziano cronico. Per liberare un posto, si può trasferire l'occupante a un'altra rianimazione provvisoriamente disponibile è un rischio. Si può staccare, in favore dei nuovo arrivato che può farcela, un malato che non ha possibilita di sopravvivere (ma allora perche era attaccato? I parenti, il rischio legale, l'accanimento...). Ma se si stacca per liberare il letto si perdono gli organi per il trapianto: un candidato alla morte cerebrale si può far aspettare. Si può arrangiare un letto in più, in qualche angolo: ma vuol dire ridurre l'assistenza per tutti. Allora? Si decide, si sceglie. Tutti i giorni è così, la dentro, tutte le notti.

Le Déserteur (ascolta)

Le Déserteur è sicuramente la canzone contro la guerra e antimilitarista più celebre di tutti i tempi. Eppure la strofa finale originale recitava, come è noto, in tutt'altro modo di quella da tutti conosciuta: Prévenez vos gendarmes, que je serai en arme et que je sais tirer, il che ne faceva una canzone non "pacifista" in senso stretto. Tutti gli "eppure" che si vuole: ma l'antimilitarista (e non "pacifista") Boris Vian scrisse una feroce canzone contro la guerra, probabilmente riferendosi a delle guerre francesi in particolare: la guerra d'Indocina appena conclusasi con la disfatta di Dien-Bien-Phu, oppure la guerra d'Algeria che stava iniziando.
Il manoscritto della canzone porta la data del 15 febbraio 1954; viene trasmessa, interpretata da Marcel Mouloudji, per la prima volta in radio dalla storica (ed ancora esistente) emittente Europe 1 il 4 marzo 1954 (con la chiusa finale già modificata), e scoppia il putiferio.
Malgrado le numerose modifiche via via apportate al testo (scompaiono non solo la strofa finale originale, ma anche i riferimenti al Presidente, sostituito da dei più generici Messieurs qu'on nomme grands), nel gennaio del 1955 il consigliere municipale parigino Paul Faber ottiene la censura completa della canzone in radio. Boris Vian reagisce con la sua consueta ironia, pacata ma devastante: la sua prima dichiarazione è che Ma chanson n'est nullement antimilitariste, mais, je le reconnais, violemment pro-civile ("la mia canzone non è affatto antimilitarista, ma, lo riconosco, violentemente pro-civili"); a Paul Faber invia invece una lettera aperta in cui, tra le altre cose, si legge:
"Oui, cher Monsieur Faber, figurez-vous, certains militaires de carrière considèrent que la guerre n'a d'autre but que de tuer les gens" ("sì, caro signor Faber, figuratevi che certi militari di carriera considerano che la guerra non abbia altro scopo che quello di ammazzare gente") e, soprattutto, ciò che segue:
"Ancien combattant", c'est un mot dangereux; on ne devrait pas se vanter d'avoir fait la guerre, on devrait le regretter - un ancien combattant est mieux placé que quiconque pour haïr la guerre. Presque tous les vrais déserteurs sont des "anciens combattants" qui n'ont pas eu la force d'aller jusqu'à la fin du combat. Et qui leur jettera la pierre ? Non. si ma chanson peut déplaire, ce n'est pas à un ancien combattant, cher monsieur Faber."
"Ex combattente" è una parola pericolosa; non si dovrebbe vantarsi di aver fatto la guerra, dovrebbe dispiacere. Un ex combattente è in condizione più di chiunque altro di odiare la guerra. Quasi tutti i veri disertori sono degli ex-combattenti che non hanno avuto la forza di arrivare fino alla fine del combattimento. E chi scaglierà loro contro la prima pietra? No. Se la mia canzone può spiacere, non è certo a un ex combattente, signor Faber".
Eliminata dalla diffusione radiofonica e discografica, "Le Déserteur" cade più o meno nel dimenticatoio; per averla cantata, Marcel Mouloudji subisce una sorta di esilio decennale dalla canzone francese. Nel 1966 con lo sviluppo delle protest songs e con i moti di Berkeley, viene ripresa da Peter, Paul and Mary, peraltro nella versione "edulcorata" interpretata da Mouloudji. Diviene così la canzone-simbolo che tutti conosciamo.
Innumerevoli sono le versioni in altre lingue. In questa sezione ne saranno presentate tutte quelle reperite in rete e con altri mezzi, ma ne esistono probabilmente molte altre.
In Italia è stata incisa per la prima volta nel 1964 (nella versione francese originale) da Margot, ovvero Margherita Galante Garrone (figlia di Alessandro Galante Garrone, moglie di Sergio Liberovici e madre di Andrea) nel periodo dei Cantacronache (1958/1960), quindi ci sono state 5 traduzioni italiane, a cura di Paolo Villaggio, Luigi Tenco, Giorgio Caproni (celebre poeta livornese), Giangilberto Monti e Giorgio Calabrese. Quest'ultima versione è quella cantata da Ivano Fossati nel suo album "Lindbergh" (1992). Ornella Vanoni l'ha inserita nella scaletta del suo tour nel 1971, ma non è affatto vero, come precisa giustamente Enrico de Angelis, che la prima incisione italiana del Disertore sia di Ivano Fossati: dopo essere stata effettivamente incisa in francese da Margot nel '64 (e più tardi da Adriana Martino), la canzone è stata incisa in italiano dal trio francese The Sunlights nel '67 e poi, tra il '71 e il '72, da Ornella Vanoni, da Serge Reggiani e da Achille Millo.
Riccardo Venturi, 29 ottobre 2004/2 luglio 2005.
Ascolta la versione di Ivano Fossati

domenica, ottobre 15, 2006

Dignità nella morte (maggio 2006)

Giovane spagnolo cerca aiuto per porre fine al suo calvario psico-fisico e lo trova in rete
«Ho bisogno della mano che sostiene il bicchiere, la mano abile che supplisca alla mia mano inutile, una mano che agisca secondo la mia volontà ancora libera: ho preparato tutto in modo che chi mi aiuta resti in incognito». E alla fine quella mano Jorge León, pentaplegico di Valladolid (Spagna) l'ha trovata. In rete. Sul suo blog. Scritto sotto il falso nome di Lucas S. Così ora la polizia sta cercando quella "mano". Ma c'è chi (e sono in tanti) spera che no non la trovi mai.
Nel suo blog Jorge non cercava conforto, non voleva sfogarsi. No. «Che faccia attenzione chi si avvicini a queste note con spirito innocente e ancora carico della zavorra dei buoni sentimenti. Non troverete coraggio per andare avanti né consolazione affettuosa in questo angolo». Il suo intento era un altro. Ben preciso. Lucido. Determinato. Definitivo. Affermare la propria scelta (l'unica cosa che ancora poteva sentire sua) al di là di quel corpo immobile, fuori da ogni controllo: «Offro solo crude riflessioni senza speranza, con la freddezza della ragione padrona del suo destino inesorabile verso la morte. Quando c'è speranza si perde la possibilità di pensare razionalmente e affrontare la nostra morte liberi e senza paure».
Da sei anni la sua vita era cambiata: infermiere abituato a convivere coi dolori altrui a un tratto quel dolore se l'è ritrovato tutto sulle spalle, nel corpo, nel cuore e nella mente. Colpa di un incidente domestico: scivolare a due metri d'altezza mentre si stanno facendo esercizi appesi a una sbarra di metallo. Risultato: lesione medulare in C3: cioè paralizzato dal collo in giù e costretto su una sedia a rotelle. Un progetto arrivato dopo le inutili richieste alla giustizia di poter morire in pace e nel pieno rispetto dlela legge. Neanche la lettere inviata al quotidiano "El País" e pubblicata nel gennaio 2005 (il titolo: "Parliamo di eutanasia", la firma "Jorge León Escudero. Pentaplegico. Valladolid") era servita ad aprire la strada a una seppur minima speranza.
Ora, insieme ai commenti che continuano a raccogliersi intorno alle ultime parole di Jorge (uno fra tutti: «Ti giuro che non riposerò in pace fino a quando la legge non riconosca il nostro diritto a morire degnamente. Per te. Per me. Per tutti»), rimane solo il pensiero di un uomo che per sé ha voluto scegliere una morte dignitosa. Ogni rispetto a lui e quella "mano amica". E che questo porti i governi ad aprire davvero il dialogo sull'eutanasia.

venerdì, ottobre 13, 2006

Una mia foto (ascolta)


Noi alberi viviamo di piogge di rugiade eterne e delle brume dei fiumi e degli oceani di mattutini vaporie delicate nebbie
Durante il giorno il calore dei raggi del sole dilata i nostri corpi sublunari che assorbono cosi, nel profondo, la soavissima rugiada notturna.
Márcia Theóphilo

lunedì, ottobre 09, 2006

Cosa ascoltavo (oltre ai cantautori) anni ''70/'80

Patty Smith
http://www.youtube.com/watch?v=uoGdx3I3dPE
Television
http://www.youtube.com/watch?v=kDrLzeAMqOw
Talking Heads
http://www.youtube.com/watch?v=3ArVh2d7LPg
Ramones
http://www.youtube.com/watch?v=DO8QU3U8bqM
Clash
http://www.youtube.com/watch?v=IiVbkHhJUzw
Cure
http://www.youtube.com/watch?v=j1iMjSu362g
Sex Pistol
http://www.youtube.com/watch?v=1Pn7u3DAgp8
Van Morrison
http://www.youtube.com/watch?v=BKoL6VCTT1Q
Bruce Springsteen
http://www.youtube.com/watch?v=RUGfeLpXhkw
REM
http://www.youtube.com/watch?v=yUZ-KJvkcfk
Prince
http://www.youtube.com/watch?v=9SF_jY-vMuY
Brian Eno
http://www.youtube.com/watch?v=8QLXTsviMxk
Laurie Anderson
http://www.youtube.com/watch?v=0hhm0NHhCBg
Frank Zappa
http://www.youtube.com/watch?v=2-_HsMVQVe8
Luo Reed
http://www.youtube.com/watch?v=4be4Az5BM-c
XTC
http://www.youtube.com/watch?v=RRrm22b__vA
Stranglers
http://www.youtube.com/watch?v=dF_3sGjvjG4
David Sylvian
http://www.youtube.com/watch?v=pz5qoNXhlUk
Roxy Music
http://www.youtube.com/watch?v=17M6xZkko8Q
Jam
http://www.youtube.com/watch?v=FHLhdxSEa-o
Style Council
http://www.youtube.com/watch?v=d6ttJaQmPYE
Police
http://www.youtube.com/watch?v=b7UmQ00bhFg
U2
http://www.youtube.com/watch?v=qH1FbD1jBI8
Simple Minds
http://www.youtube.com/watch?v=hIZFEu0zMDk
Psychedelic Furs
http://www.youtube.com/watch?v=9iPZIUK7jFs
Echo & the Bunnymen
http://www.youtube.com/watch?v=YRCB9fPLEs4
Joy Division
http://www.youtube.com/watch?v=nz3EDyzyqjQ
Pink Floyd
http://www.youtube.com/watch?v=fheAn_pQLi8
Siouxsie
http://www.youtube.com/watch?v=38odeHsdR1Y
Sisters Of Mercy
http://www.youtube.com/watch?v=YLBnJGVg0LI
Kraftwerk
http://www.youtube.com/watch?v=qo0iW0B0lI4
Devo
http://www.youtube.com/watch?v=tDPDaphgR3k
Ultravox
http://www.youtube.com/watch?v=fOKMxMjc8Mk
Eurythmics
http://www.youtube.com/watch?v=8QUWG_JFhQM
Stranglers
http://www.youtube.com/watch?v=afcgr5upsjE
David Bowie
http://www.youtube.com/watch?v=TIaFsVwren8
Peter Gabriel
http://www.youtube.com/watch?v=iLg-8Jxi5aE
Ramones
http://www.youtube.com/watch?v=kzYlUMwB7o4

venerdì, ottobre 06, 2006

Anni'60

Petula Clark
http://www.youtube.com/watch?v=Gb87hPzZ2us
Sylvie Vartan
http://www.youtube.com/watch?v=7uiyvfT1HYY
Francoise Hardy
http://www.youtube.com/watch?v=vc4sL3wsYSY
Marianne Faithfull
http://www.youtube.com/watch?v=UVSJt5r5n6U
Mal and the Primitives
http://www.youtube.com/watch?v=KhVBaAPZqIs
Mina
http://www.youtube.com/watch?v=b6s_kjlhP5U
Patty Pravo
http://www.youtube.com/watch?v=7OtKaSTeumo
Caterina Caselli
http://www.youtube.com/watch?v=jF_lGrD_3gg
Rita Pavone
http://www.youtube.com/watch?v=LbiRzglq5L4
Gianni Morandi
http://www.youtube.com/watch?v=Pc6m0S_6iI4
Adriano Celentano
http://www.youtube.com/watch?v=Bxb2QxgtSdM
http://www.youtube.com/watch?v=VuOQzt9uNk0
Giorgio Gaber
http://www.youtube.com/watch?v=sFXQNYuIvbE
Lucio Battisti
http://www.youtube.com/watch?v=fmvmEmeidD4
Sergio Endrigo
http://www.youtube.com/watch?v=r5SaLIqtVYA
Gino Paoli
http://www.youtube.com/watch?v=HwwclipeKGc
Edoardo Vianello
http://www.youtube.com/watch?v=5z-ZaesiIH4
Nico Fidenco
http://www.youtube.com/watch?v=1QebKMqdElg
I Corvi
http://www.youtube.com/watch?v=r5SaLIqtVYA
Equipe 84
http://www.youtube.com/watch?v=ESG038zpMUE
I Nomadi
http://www.youtube.com/watch?v=VOE4boNa51g
The Rokes
http://www.youtube.com/watch?v=zfHJ5b9VVEA
Elvis Presley
http://www.youtube.com/watch?v=oOHqjcxjwVo
Velvet Underground
http://www.youtube.com/watch?v=zEwpIjpW7zU
Nico
http://www.youtube.com/watch?v=c9XY3qX2siw
Velvet Underground
http://www.youtube.com/watch?v=wRSpPaKyP8U
The Doors
http://www.youtube.com/watch?v=F_XFxShBL_c
Procol Harum
http://www.youtube.com/watch?v=wuPIz1zqmJ8
http://www.youtube.com/watch?v=AjqtmLIiCVc
Los Bravos
http://www.youtube.com/watch?v=N59miT2Psq4
WOODSTOCK
http://www.youtube.com/watch?v=dhis7jn4ciQ
http://www.youtube.com/watch?v=DgO86H7PBl4
Jimi Hendrix

http://www.youtube.com/watch?v=OFj5qhcKuxo
Arlo Guthrie
http://www.youtube.com/watch?v=pOLjUYqp8Lg
Jefferson Airplane
http://www.youtube.com/watch?v=nsTgRxuviEI
Country Joe McDonald
http://www.youtube.com/watch?v=s5btZWbViPA
Crosby Stills Nash
http://www.youtube.com/watch?v=pOLjUYqp8Lg
Canned Heat
http://www.youtube.com/watch?v=dVF4--uslh4
Santana
http://www.youtube.com/watch?v=jTLEj-BKRwM
Joe Cocker
http://www.youtube.com/watch?v=a2__ffjmEJ0
Neil Young and Stephen Stills
http://www.youtube.com/watch?v=9ILS7VGK838
Joan Baez
http://www.youtube.com/watch?v=nWGbw4c5l3o
Janis Ioplin
http://www.youtube.com/watch?v=PkmmBa7wDG4
The Beatles
http://www.youtube.com/watch?v=xo076MXzr9Y
http://www.youtube.com/watch?v=wtBVF1D-QN8
http://www.youtube.com/watch?v=jPgEoBlNuqM
http://www.youtube.com/watch?v=FxqoGtogsTc
http://www.youtube.com/watch?v=6UhG0w46-r8
The Rolling Stones
http://www.youtube.com/watch?v=lmK1iiKl-nQ
http://www.youtube.com/watch?v=BcobTE9owFE
http://www.youtube.com/watch?v=nCR7ke3CQh0
http://www.youtube.com/watch?v=CUmYuTLrFJM
Bob Dylan
http://www.youtube.com/watch?v=4EpTBpS5wBU
http://www.youtube.com/watch?v=Nz3b5paT7nQ
http://www.youtube.com/watch?v=NrGSVyJBLNU
http://www.youtube.com/watch?v=rJSseVSvxVE
Luigi Tenco
http://www.youtube.com/watch?v=BrW67O3HX48
http://www.youtube.com/watch?v=Qk3TjByz3X0
http://www.youtube.com/watch?v=kZr5HIs3h3A
http://www.youtube.com/watch?v=0ZYCtHsILrM
http://www.youtube.com/watch?v=6RNsgtU8jJM

giovedì, ottobre 05, 2006

Antonio Russo


Adriano Sofri 18 ottobre 2000
Radio radicale ha offerto agli ascoltatori un numero di telefono per partecipare del dolore per la morte di Antonio Russo. Io non posso chiamare, e unisco da qui la mia voce. Sono molto addolorato, come lo si è per una morte lontana e solitaria, guadagnata volendo stare nel posto giusto. Le corrispondenze di Russo dal Caucaso suonavano qui quasi grottesche, con quella puntigliosa e minuziosa ricostruzione quotidiana tanti morti, tanti feriti, tanti scomparsi, tanti profughi - in un silenzio generale non spezzato neanche dalle catastrofi a grandi numeri. Non conoscevo Russo. L'avevo sentito, in una pausa della mia assenza, e mi aveva chiesto consigli e notizie per il suo nuovo viaggio. Non avevo potuto dargliene molte, perché la Cecenia che io conoscevo era pressoché cancellata, e le persone morte o disperse o imprigionate. E' morto, Russo, nel momento in cui l'Onu decide fino a che punto prestarsi all'infamia del potere russo contro i radicali, accusati d'essere complici del terrorismo ceceno. Fra i pochissimi ad avere difeso un onore italiano di fronte alla vergogna della violenza russa contro quel piccolo popolo odiatissimo e strenuo, i radicali ne hanno ricevuto in cam-bio una disattenzione casuale o discesa da una misera ragion di stato, appena rotta qua e là, da ultimo in parlamento per iniziativa di Marco Boato. Esito a dirlo, ma nella tristezza con cui penso alla morte - chissà, abbandonata, spaventata, infreddolita, tradita - di Russo sulle montagne del Caucaso, c'è anche un po' di invidia. Un buon posto per morire, ammesso che ce ne sia uno

http://www.radicalparty.org/antoniorusso.htm

Politkovskaia e Antonio Russo, le anologie

http://repubblicaradio.repubblica.it/player.php?mode=focus&ref=4105

lunedì, ottobre 02, 2006

Omaggio a CIELLE (ascolta)

http://andso.supereva.it/Files/cl_pinel.bl
http://andso.supereva.it/Files/cl_viagg.bl
http://andso.supereva.it/Files/cl_musci.wav
http://andso.supereva.it/Files/cl_giacc.wav
È vero che non ci capiamo, che non parliamo mai in due la stessa lingua. A scrivere di musica, l’ho già detto, non si fa altro che buttare il tempo e cercare di agganciare anime gemelle. Qualcuno di voi, uno, due, avrà ancora in casa una copia del vinile di “Ho visto anche degli zingari felici”, con scritto in copertina il prezzo di lire tremilacinquecento? Io ce l’ho, ma non è mio: quando uscì, nel 1976, avevo undici anni e dovevo ancora comprare il mio primo ellepì, una raccolta dei Beatles. La mia copia di “Ho visto anche degli zingari felici” la presi a prestito qualche anno dopo a Serena, e poi non gliel’ho più ridata. Adesso in qualche punto salta.“Ho visto anche degli zingari felici” è forse la più grande canzone della storia della musica italiana. Claudio Lolli capì subito che l’aveva fatta grossa, e la tirò a durare quasi sei minuti, e nel disco la mise all’inizio: e poi ne aggiunse un altro po’ alla fine del lato B. “Nell’attacco arioso del sax”, come lo raccontò poi in una sua poesia Gianni D’Elia, e nel giro di chitarra che lo segue e sostiene tutta la canzone, c’è di che fare schiattare di invidia I maggiori arrangiatori dei decenni seguenti. Se Eminem ascoltasse gli Zingari felici oggi, vorrebbe farci una cover rap, altro che Dido. Poi la ascolterebbe di nuovo e capirebbe che l’aveva già fatto Lolli, il rap, altro che Kurtis Blow. Se Eminem sapesse l’italiano, aprirebbe una ferramenta al solo pensiero che venticinque anni prima di lui, ci fosse uno capace di inventarsi parole così.E siamo noi a far bella la luna con la nostra vita coperta di stracci e di sassi di vetro. Quella vita che gli altri ci respingono indietro come un insulto, come un ragno nella stanza. Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,riprendiamoci la vita,la terra, la luna e l'abbondanza.Passati un po’ di anni, gli imbarazzi per certe bassezze estetiche degli anni Settanta fecero trattare Lolli come un reduce di tempi da superare, di cose datate. Ma i versi degli Zingari felici sono perfetti. Sono stati perfetti per ventotto anni: otto strofe senza una caduta, uno scricchiolìo, otto strofe annodate a quella chitarra. E a quel sassofono: lo suonava Danilo Tomasetta. Adesso ha un negozio di dischi, a Bologna.Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l'amore e rotolarsi per terra.Ho visto anche degli zingari felici in Piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.“Lolli non esiste è una figura dell’immaginario di tutti i lolliani”: ha detto il chitarrista Paolo Capodacqua. Lolli abita a Bologna, insegna a Casalecchio, e ne ha fatte di cotte e di crude, in questi ventotto anni. Ai concerti gli chiedono ancora di fare gli Zingari felici, e lui è contento, perché lo sa. Lo sa, che a un certo punto ha scritto forse la più grande canzone della storia della musica italiana. Sono cose che capitano.
Luca Sofri- Donna 2004