sabato, marzo 28, 2009

A. Sofri Il punto sul fine vita: era tutto uno scherzo.

Il punto sul fine vita: era tutto uno scherzo.


In principio era il silenzioso operato di medici infermieri e famigliari, nei reparti di rianimazione e nelle case. Guidato dalla pietà, dal dolore, qualche volta dalla distrazione, qualche volta dal cinismo. Si faceva e non si diceva. Poi qualcuno si propose di definire legalmente ciò che era giusto fare, e riconoscere alle persone, prima che il diritto, la responsabilità e libertà nei confronti della propria vita. Con un vantaggio: una Costituzione che, benché scritta quando ancora non si presumeva di padroneggiare nascita vita e morte, e di modellare, all'occorrenza, sembianze di vita senza data di scadenza, riconosceva già inequivocabilmente quella responsabilità e libertà, dunque quel diritto. In realtà, quel diritto coincide con l'habeas corpus. Si sarebbe detto che il cristianesimo e i suoi interpreti ufficiali, compresi i cattolici, quando si ricordassero di essere cristiani, avrebbero tutelato con più premura quel diritto, per una preziosa diffidenza verso l'invadenza statalista e per una peculiare attenzione al valore della persona e della sua cerchia di relazioni famigliari e sociali. Bene: i promotori della legge, pur tra le esitazioni di tanti che diffidano dall'eccesso di regolamentazione delle vite quotidiane, si impegnarono molto, convinti di far fare un passo avanti all'Italia civile. In questo impegno si distinsero insieme credenti e no. La Chiesa decise di opporsi a priori al proposito: sarebbe stata un sacrilegio, avrebbe espropriato lei -o la medicina, o lo Stato, qualche altra autorità costituita, invariabilmente patriarcale- del controllo sui corpi, dunque sulle anime, avrebbe spalancato la strada all'eutanasia, all'eugenetica e ad altre nequizie accumulate alla rinfusa. L'opinione delle persone andava nella direzione opposta, e una serie di vicende umane commoventi ed esemplari la rese tesa e forte: così fra le altre la scelta di Piergiorgio Welby prima, poi della famiglia Englaro. Allora la Chiesa, e con lei lo schieramento politico di centrodestra, temette di essere messa nell'angolo e sconfitta, e con un brusco voltafaccia proclamò di essere d'accordo con la necessità di fare una legge. Voleva dire che, non riuscendo a sventare la spinta verso il riconoscimento legale delle disposizioni sulla fine della vita -il cosiddetto testamento biologico- si sarebbero impegnati a farla così tortuosa e svuotata da renderla innocua. Di fronte a questa piccola furbizia, i benintenzionati promotori della legge avrebbero potuto rinunziarvi, evitando un risultato che non solo non avrebbe corrisposto all'avanzata civile che si proponevano, ma avrebbe suscitato una situazione molto peggiore: purtroppo non lo fecero. La tragica vicenda di Eluana indusse Chiesa e politica a lei allineata a vendicarsene con l'escogitazione di un'assurdità impensabile a qualunque mente appena ragionevole: la definizione della nutrizione artificiale come una pratica ordinaria, piuttosto che come un trattamento medico (so abbastanza di che cosa parlo, avendo avuto a lungo una sonda infilata nella pancia: e comunque alla lunga ciascuno è purtroppo destinato a sapere di che cosa si parla) e la proibizione di disporre, per quando si fosse ridotti a un'irreversibile esistenza vegetativa o a una sofferenza intollerabile, il rifiuto della nutrizione artificiale. Questa vendetta è stata votata al Senato -dovrà poi passare alla Camera- l'altroieri. La natura della decisione è resa più amaramente e grottescamente rivelatrice dal fatto che gli stessi votanti hanno espropriato se stessi e i propri cari della responsabilità per la propria vita. Dice infatti la saggezza antica che Dio fa uscire di senno quelli di cui vuole la rovina. La rovina qui è però universale. L'esito -provvisorio, ma spettacoloso- è venuto ieri. Un emendamento Udc ha stabilito che, anche una volta adempiuti tutti gli obblighi acrobatici cui la legge sottopone la volontà delle persone (dalle modalità irrealizzabili di dichiarazione alla frequenza della ripetizione ecc.), i medici non siano tenuti ad applicarla, e vengano successivamente consultati comitati di neurofisiolofi, radiologi, psicologi, filosofi, e alla fine magistrati -tutto ciò mentre qualcuno agonizza in una terapia intensiva. Cioé, in soldoni: la legge non c'è più. Resta solo quella magnifica conquista: che d'ora in poi le singole persone non sono più libere di decidere se nutrirsi o no. Sonda obbligatoria per tutti. Sacra, la vita? Solenne, il dibattito? Compunte, le facce dei dibattenti? Ma no: era uno scherzo, era tutto uno scherzo.

giovedì, marzo 19, 2009

A. Sofri da Repubblica

Già' dall'alto dei cieli, sull'aereo che lo sta portando al prediletto continente africano, il Papa proclama che l'Aids non si risolve distribuendo preservativi, i quali anzi aggravano il problema. Si può rassegnarsi a che la Chiesa ripeta le sue posizioni assolutiste, in nome della fedeltà ai principii, ma c'è una gamma di sfumature possibili. Di occasioni, di toni. Invece no. Invece vince l'oltranza. È la posizione di sempre della Chiesa, si obietta, è stata del suo predecessore. (L'innovazione, annotano i filologi, sta nel fatto che questa volta il Papa ha pronunciato proprio la parola: preservativo). Ma c'è un di più, una troppa grazia, nell'inaugurare così il pellegrinaggio africano. E non limitandosi a dire che i preservativi non bastano ad affrontare il flagello - certo che non bastano - ma che lo aggravano. Dunque additando il peccato e la colpa di chi i preservativi in Africa cerca di distribuirli, e passa così per untore. C'è un'impressione di pazzia che ricorre attorno a queste scelte, e non si capisce come la Chiesa voglia ignorarla, quando non si compiaccia di fomentarla. Di dare scandalo. Erano passati dieci giorni dallo scandalo per la bambina brasiliana. Quale persona ragionevole e di cuore, cattolica o no, credente o no, può voler costringere una bambina di nove anni e di trenta chili a partorire due gemelli, frutto della lunga violenza esercitata su lei da un patrigno che l'aveva in balia? Otto giorni dopo la notizia che la madre della bambina e i medici che l'avevano soccorsa - questo è il verbo: soccorsa - erano stati scomunicati dall'arcivescovo di Recife, e che il Vaticano ne aveva approvato l'operato, otto giorni dopo, un prelato romano ha ritenuto di correggere quel gesto scandaloso. E come l'ha fatto? Dicendo (cito il titolo, testuale, dell'Avvenire): "Scomunica sì, ma serviva misericordia". Una scomunica misericordiosa, questo serviva? "Prima di pensare alla scomunica era necessario e urgente salvaguardare la vita innocente della bimba...". Non "prima di pensare alla scomunica", ma "invece di pensare alla scomunica", era urgente. Tuttavia la mezza marcia indietro può essere il modo della Chiesa di fare una marcia indietro intera, e va almeno apprezzata l'insistenza sulla necessità di trattare i singoli casi, perché nella casistica, e in una casistica magari ipocrita ma intelligente, sta l'eventualità che la Chiesa di oggi riapra l'occhio della misericordia. Resta il fatto che il tentativo di restituire alla Chiesa un'aura di sensibilità ha impiegato otto giorni, e nel frattempo si erano sguinzagliati i cani arrabbiati, e non è poi facile richiamarli a cuccia. La dottoressa Fatima Maia è la direttrice del Centro sanitario in cui la bambina brasiliana ha potuto abortire, è cattolica, e ha avuto anche lei il tempo di riflettere, e poi ha dichiarato: "Grazie a Dio, mi trovo fra quelli che sono stati scomunicati". Lo ripeto, senza nessun compiacimento: un'impressione di non leggera follia. C'è un'esasperazione attorno a questo Papa e alla sua Chiesa. E non si tratta solo delle persone, di quelli che sanno immaginare di essere il padre o la madre della bambina di Recife, e di quelli così bravi e infelici da saper immaginare di essere quella bambina. E di essere un bambino o una bambina, una donna o un uomo della prediletta Africa. Ieri sono piovute le proteste secche di una serie di cancellerie. Non della pregiudicata Spagna di Zapatero, ma della Germania di Ulla Schmidt e di Angela Merkel e della Francia di Kouchner e Sarkozy, e della stessa Unione Europea. L'Unione Europea, gli impettiti e maturi rappresentanti di un continente fortunato costretti a ribadire che la diffusione del preservativo serve a salvare vite umane, in Africa e dovunque. Questo non succedeva con "l'altro Papa", benché anche lui, papa Wojtyla, fosse così rigido in ciò che tocca la sessualità. Non c'entra solo la diversa personalità dei due uomini. C'entra il tramonto di quella che si può chiamare l'"eccezione cattolica": una specie di accordo, metà rassegnato metà cortese, sulla bizzarria per la quale la Chiesa cattolica si riserva delle licenze paradossali per tutto ciò che riguarda il sesso, e di lì in poi si può averci a che fare. È questo che tanti uomini di Chiesa (compreso quell'arcivescovo di Recife) chiamano il primato della legge di Dio sulla legge degli uomini. Legge di Dio è quello che attiene alla sessualità. Attenzione: alla sessualità, e non alla "vita". Non si spiegherebbe se no la tiepidezza con la quale la Chiesa ha maneggiato la questione della pena di morte. Ma la sessualità non è più, ammesso che lo sia stata mai - come pretendeva un'epoca in cui i panni sporchi si lavavano in famiglia, e all'orecchio del confessore - un terreno riservato e appartato. Il Papa può proclamare, sempre dall'alto di quel cielo, che la soluzione stia nell'"umanizzare la sessualità, cioè innovare il modo di comportarsi verso il proprio corpo": ma questo vuol dire ignorare il problema presente e urgente, e sabotarne i rimedii parziali ma essenziali, com'è l'educazione all'uso del preservativo e la sua distribuzione. Specialisti papisti dichiarano che l'uso del preservativo è dannoso perché induce a una fallace sicurezza, e che dietro la sua promozione stanno le ingorde multinazionali produttrici. Balle: al complottismo dell'affarismo profilattico si risponda piuttosto rivendicando la gratuità, e il rischio residuo dell'uso del preservativo è incomparabile con il disastro dei rapporti non protetti, salvo che si finga di credere che davvero la gente smetta i rapporti sessuali, e lo faccia per giunta in misura e tempo utili a fronteggiare l'epidemia. Con una simile logica, se finalmente esistesse un vaccino anti-hiv, bisognerebbe vietarne la diffusione. Che sensazione di non lieve follia. Il Papa ha lodato la gratuità delle cure, e ci mancherebbe altro. Ma a condizione che si affronti la riproduzione allargata di malati da curare, gratis o no. Le impazienti reazioni di governi e istituzioni internazionali, che vedono offesa la ragionevolezza e sabotata la fatica di tanti professionisti e volontari, restituiscono il Vaticano alla sua misura terrena e alla sua responsabilità diplomatica, senza eccezione. Una stupidaggine è tale, anche se venga pronunciata da un Papa, e in nome di un Dio. Oltretutto in questa circostanza il Papa ha a che fare solo con se stesso: non con una Curia intrigante, non con una qualche solitudine, non con "un difetto - anche lui! - di comunicazione". E l'Italia? Il suo ministro degli Esteri ha spiegato che lui non commenta le parole del Papa. L'Italia è extraterritoriale. Per l'Italia, di gran parte del centrodestra e di una mortificante parte del centrosinistra, l'eccezione cattolica resta in pieno vigore. C'è una divisione del lavoro: alla Chiesa competono la nascita e la morte, più alcune cerimonie dell'intermezzo - i matrimoni, essenzialmente - alla maggioranza politica l'intermezzo vero e proprio, la vita, cioè, se non dolce, ottimista. La pietà dei credenti viene stirata tormentosamente. Muore Piergiorgio Welby e gli viene rifiutato il funerale. Quando si tratta di Eluana, i rifiutatori proclamano che "Welby era un'altra cosa". Lo vedemmo, che altra cosa era. Quando si tratta di Eluana, si grida all'omicidio. Per vendicarsene, una maggioranza pagana e sanfedista cambia il nome delle cose e confisca i corpi dei sudditi. Lasciando libertà di coscienza: graziosa espressione, che vuol dire che la coscienza è revocabile, e che la sua libertà è una cosa da "lasciare". Coscienze in deposito, oggetti smarriti. Può darsi che la gerarchia cattolica italiana sia contenta così: contenta di galvanizzare le sue schiere militanti, e di mettere a tacere i suoi fedeli dissidenti e amareggiati. Che addirittura questa faziosità le sembri una bella ed evangelica intransigenza. Non è escluso, dato che anche dalla parte opposta, di quella che si prende per sinistra, ci sono campionari simili. Ma che futuro verrà da un tal presente? L'eccezione cattolica accompagna come un'ombra la storia italiana, e in certe ore si allunga fino a inghiottirla. Ogni volta di nuovo i cittadini laici - credenti o no, davvero non è il discrimine - si chiedono se il saldo fra il dare e l'avere della presenza cattolica nella società italiana sia in fondo positivo o negativo. Se bisogni augurarsi di ridurla allo stremo, quella presenza, per diventare un paese un po' più normale, a costo di perdere tanta carità e solidarietà e premura per la vita indifesa, o se si ritenga ancora che quella presenza faccia argine al peggio, al razzismo, al cinismo, all'esclusione. Finora, la gran parte dei laici ha creduto, o almeno confidato e scommesso, sul secondo corno del dilemma. Anche i mangiapreti. Marco Pannella e i suoi andavano a piazza San Pietro per dare forza alla battaglia contro la fame nel mondo, o contro la violenza delle carceri. Oggi molte persone laiche - non saprei dire quante, ma molte - credenti o no, sono offese e respinte da una durezza della Chiesa che a volte sembra ottusità, a volte cattiveria, e ci vedono una malattia inguaribile della società italiana. A chi può far piacere?

domenica, marzo 08, 2009

A. Sofri da Repubblica

A Recife, in Brasile, c'è una bambina di nove anni. Ha un patrigno. Il patrigno abusa sessualmente di lei da quando aveva sei anni. Abusa di lei da tre anni. Il patrigno abusa anche della sorellina della bambina, che ha 14 anni ed è invalida. Ora il patrigno è in carcere. Ora la bambina di nove anni è incinta, di due gemelli. La bambina ha anche un suo padre, e una madre. La madre spera che abortisca, il padre no. A Recife c'è un medico che ha preso in cura la bambina, le ha somministrato dei farmaci che hanno procurato l'aborto. Il medico e i suoi collaboratori pensano, come vuole la legge, che non si debba obbligare una donna, e tanto meno una bambina, a mettere al mondo il frutto di uno stupro. Si sono anche spaventati del rischio che il parto gemellare avrebbe comportato per una bambina di nove anni. C'è un arcivescovo, a Recife - non importa il nome: non c'è il nome della bambina, né del suo violentatore, perché citare quello dell'arcivescovo - che ha scomunicato senza appello il medico che ha aiutato la bambina ad abortire, i suoi collaboratori, e la madre che ha approvato. Non il patrigno, "perché l'aborto è peggiore del suo crimine". Non la bambina. La bambina non ha l'età per essere scomunicata. Solo per partorire due gemelli. L'arcivescovo ha proclamato - indovinate - che la legge di Dio è al di sopra della legge umana. L'arcivescovo ha tenuto ad aggiungere che l'olocausto dell'aborto nel mondo è peggiore di quello dei sei milioni di ebrei nella Shoah. Peggiore. C'è anche, a Recife, un gruppo di avvocati cattolici che ha denunciato i medici per il procurato aborto: omicidio volontario aggravato, presumo. C'è, a Roma, il Vaticano e, in Vaticano, la Pontificia Accademia per la Vita. Con una gamma di sentimenti che vanno dall'imbarazzo al dolore alla perentorietà, i suoi esponenti hanno spiegato che la scomunica comminata dall'Arcivescovo di Recife era necessaria. Un atto davvero dovuto, come prescrive il Codice di Diritto Canonico. Un sacerdote del Pontificio Consiglio per la Famiglia, a sua volta, ha soffertamente ribadito che "L'annuncio della chiesa è la difesa della vita e della famiglia". E che i medici sono "protagonisti di una scelta di morte". Penso che non si debba commentare tutto ciò. Neanche una parola. Bisogna trattenere il respiro, fino a scoppiare.

martedì, marzo 03, 2009

Dostoevskij scoppia a piangere

Piccola posta
di Adriano Sofri

Il mio amico Carlo, famoso libraio, mi suggerisce, anzi addirittura me lo regala, un libretto del Melangolo di László F. Földényi, “Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere”. Sono poche paginette di un saggio sulla razionalità e la libertà, l’Inferno limpido e l’Inferno grigio, la scomparsa o l’eclisse di Dio. Prima del saggio c’è la storia, che è pressoché tutta compendiata nel titolo, il quale potrebbe essere, invece che un titolo, una storia completa. Neanche documentata, ma, pur credibilmente, ipotizzata. Dostoevskij è deportato in Siberia, il giovane procuratore Vrangel, che è diventato suo amico, ordina in Germania un libro di Hegel, forse sono le “Lezioni sulla filosofia della storia”, forse Dostoevskij vi legge le seguenti righe: “Per prima cosa dobbiamo escludere il declivio settentrionale, la Siberia. Questo declivio... non ci interessa qui in nessun modo, poiché la zona nordica giace fuori della storia”. E forse, lette queste righe “al lume di una candela di sego”, Dostoevskij scoppia a piangere. E poi ha tutto il tempo per risarcirsene. “Tutto si può dire della storia... Una sola cosa non si può dire: che sia uno spettacolo ragionevole”.

domenica, marzo 01, 2009

E lo chiamano atto dovuto

di ADRIANO SOFRI
Il signor Englaro indagato per omicidio volontario. Che cosa avete provato, prima ancora che pensato, sentendo la notizia? Vediamo. Il giorno prima era stata la volta delle fotografie scattate nella stanza di Eluana. Sequestrate la mattina da una procura, dissequestrate la sera dalla procura superiore, e pratica chiusa. Questione di un giovedì qualunque. Venerdì: il signor E. in associazione - in combutta, diciamo - con altre 13 (tredici) persone, medici e infermieri, è inquisito per omicidio volontario aggravatissimo. Scrivo prima di sapere che cosa stia per portare la sera di venerdì, e poi la mattina di sabato. Bisogna pure che ogni giorno abbia la sua pena. Però, superato il primo inevitabile moto di insofferenza e indignazione - le avete provate, no? - la domanda diventa: si può prendere sul serio tutto ciò? Non risponderò, e passerò al secondo punto, l'atto dovuto. Insieme alla notizia dell'apertura dell'indagine, infatti, come succede sempre più spesso, la Procura udinese si è premurata di aggiungere che si trattava di un "atto dovuto". Prescindendo dalla competenza in diritto e procedure, che non appartiene alla maggioranza di noi, si può interrogarsi sul significato comune, non specialistico, delle parole "atto dovuto". Vuol dire che non se ne può fare a meno. Per qualche ragione misteriosa, la magistratura inquirente non può fare a meno di una torbida assurdità come l'imputazione di una realizzata volontà omicida a quelle quattordici persone, dietro le quali sta oltretutto una sequela impressionante di pronunciamenti della stessa magistratura giudicante. Associazioni e cittadini dotati di nome e cognome hanno ritenuto di avanzare denunce per omicidio volontario aggravato: e questo basta a costringere la magistratura a prendere sul serio un'assurdità oltraggiosa? La giustizia ha qualcosa da guadagnare da una simile accezione dell'atto per lei dovuto? Perché l'atto dovuto abbia una minima parvenza di dignità bisogna che l'addebito abbia almeno una minima possibilità di mostrarsi fondato. Questo ci riporta alla casella di cui sopra, cioè alla domanda se sia possibile immaginare anche solo per un momento la condanna di quelle quattordici persone per omicidio volontario aggravato. È possibile? Prima di rispondere definitivamente, fermiamoci su un altro punto che ha costellato tutta questa vicissitudine fra poco ventennale. Il signor E. essendo stato protagonista di un impegno pubblico diventato così clamoroso e tormentoso, e così emotivamente e simbolicamente coinvolgente, il signor E., per quanto visto con gli occhi e ascoltato con le orecchie da tanti milioni di concittadini, è stato soprattutto immaginato. Benché si avesse l'impressione di conoscerlo, soprattutto lo si immaginava, per l'impulso irresistibile e umanissimo a mettersi nei suoi panni, a chiedersi che cosa, dietro quella sua tenacia pubblica e la paziente ripetizione dei suoi ricordi e dei suoi argomenti, lo rosicchiasse dentro e dentro gli ruggisse. La liberazione della quale il signor E. parlava da tanti anni, per sua figlia e per sé e per tutti, lo avrebbe restituito - lo stava già facendo - a una dimensione ordinaria, cioè non più straordinaria, lo avrebbe fatto conoscere, o dimenticare, come la persona che è, e non più immaginare come la figura cui la lunga sfida lo aveva consegnato. Niente da fare. Anche qui, il gioco dell'oca incattivita che ha sequestrato la vicissitudine del signor E. l'ha riconsegnato all'immaginazione. Da ieri, siamo tornati a chiederci: "Che cosa proverei se, nei panni di quel padre, mi fossi saputo indagato da una Procura del giovedì per omicidio volontario di mia figlia?". Veniamo alla risposta provvisoriamente finale. Evidentemente è possibile figurarsi una condanna dei Quattordici per omicidio volontario aggravato, dal momento che un Gran Cardinale ha già pronunciato la sua sentenza, rinviando ai dieci comandamenti fatti coincidere con la sua idea di codice penale. È così? No, per fortuna. Perché un piccolo parroco - piccolissimo: di Paluzza - ha detto: "Gli uomini di Chiesa moderino il linguaggio, non si può usare un linguaggio come quello del cardinale Barragan. Beppino ha sbagliato, lui sa che ho una visione opposta alla sua, ma tra noi c'è rispetto. Usare parole come "assassino" o "omicida" e apostrofare una persona in questo modo non è da cristiani". Ecco. Sarà dovuto, l'atto, ma non è da cristiani.
da Repubblica, 28 febbraio 2009