I fabbricanti di macerie
"La Repubblica", 11 agosto
ADRIANO SOFRI
Macerie: fabbricare macerie. Solo sulle macerie si può costruire la pace, e l´archeologia. Un paio di giorni bastano a distruggere: poi verranno anni alacri a riedificare, ed esumare salme. Ossezia del nord e Ossezia del sud furono uno degli sfizi di Stalin con la carta geografica. Sul versante fra Caucaso del nord e del sud, vennero divise in modo da appartenere, la prima, con capitale Vladikavkaz (è lì che si trova Beslan), alla Russia, la seconda alla Georgia. Immaginiamo un Tirolo caucasico. E teniamo conto delle misure. La Cecenia, vi ricorderete, è grande come la Calabria, e aveva, prima d´esser più che decimata, poco più di un milione di abitanti. L´Ossezia del sud è più piccola del Molise, e non tocca i centomila abitanti. L´Abkhazia ne ha attorno a 200 mila – gli abkhazi sono la metà – ed è grande, cioè piccola, come l´Umbria. È attorno a territori e a popoli così minuscoli che si scatena una simile furia. La Georgia, un quarto dell´Italia e meno di cinque milioni di abitanti, rivendica la propria sovranità su Abkhazia e Ossezia del sud, dopo essersi dichiarata indipendente dalla Russia al momento dell´esplosione dell´Urss, nel 1991. Ma nello stesso momento le due piccole regioni si dichiararono indipendenti dalla Georgia, e ricorsero alla Russia come protettrice. In questa tragicomica festa da ballo, alcune lezioni splendono. La prima: che tutte le potenze, quando giocano col mappamondo, seguono il criterio che di volta in volta assecondi i loro interessi materiali o i loro capricci psicologici. Non è vero che le democrazie agiscano allo stesso modo delle autocrazie: è vero però che non agiscono in modo abbastanza dissimile, e specialmente che non rinunciano alle doppie misure. Così, il riconoscimento dell´indipendenza del Kosovo – alla cui origine stette lo sciovinismo serbo – è venuto dopo che la comunità internazionale ha lasciato degradarsi e precipitare la situazione di quella regione, nonostante la catastrofe della Bosnia, fino a rassegnarsi all´investitura di un´autorità malavitosa e alla vendetta sulla minoranza serba. La Russia, che aveva perpetrato un vero genocidio contro il secessionismo della Cecenia, dopo averlo di fatto autorizzato, ha denunciato il secessionismo del Kosovo e il suo riconoscimento americano ed europeo, e ne ha fatto il pretesto per un invadente infeudamento dei "fratelli serbi", e soprattutto delle loro risorse economiche e militari. La stessa Russia, che ha scommesso sulla distruzione della ribellione cecena prima, e su petrolio e gasolio e grano poi, il restauro spettacoloso della propria potenza imperiale, ha chiamato terrorista la rivendicazione indipendentista cecena o inguscia o di ogni altra mossa centrifuga nel mosaico del Caucaso del nord, e si presenta come tutore cavalleresco – "peacekeeper": che bocca grande che hai – del secessionismo abkhazo e sudosseto. Le cui minoranze hanno molte ragioni dalla loro (non sono nomi esotici da cercare con la lente d´ingrandimento sulle carte: sono luoghi fatati, così l´Abkhazia del Vello d´oro o del Prometeo caucasico) e però hanno attraversato processi simili ai regimi di malaffare delle minoranze kosovara o serbobosniaca nella ex-Jugoslavia, come l´Ossezia meridionale. Luoghi minimi, ma di cerniera fra le genti, e di enorme peso simbolico – le guerre si fanno soprattutto per ragioni simboliche, sangue vero e posta simbolica, una qualche Elena, neanche tanto bella – hanno sperimentato dall´una e dall´altra parte il metodo che da sempre, e oggi più che mai, i grossi seguono per ingoiare i piccoli: "ripopolando" con la propria etnia il loro territorio, così da diventare maggioranza, ieri georgiani (ne sono stati espulsi dall´Abkhazia quasi 200 mila), oggi russi (ha ricevuto il passaporto russo il 90 per cento degli osseti meridionali). Il metodo cinese in Tibet. Altra lezione: le potenze sono stupide. Non dico solo che non siano lungimiranti, o appena intelligenti. Sono stupide, ottuse. Non è la maledetta sete di petrolio che rende stupidi: però rende più stupidi. Il petrolio è spesso la causa, altre volte il pretesto. E si moltiplicano colà oleodotti e gasdotti, pacchia dei terroristi venturi. Altre volte la stupidità e il furore trionfano senza che corra una goccia di petrolio. (O, come nel caso russo-georgiano-osseto, senza una goccia di islam). Basta pensare alla differenza fra l´oggi, e il momento, un pugno d´anni fa, in cui la svolta filoamericana del presidente georgiano Saakashvili si tradusse nell´impianto di consiglieri militari Usa nel Paese (e in altri della cruciale fascia turchica dell´Asia centrale): la Russia di Putin sembrava alle corde, e la politica occidentale e la Nato agivano come se fosse destinata ad andare al tappeto. Oggi Saakashvili ha scelto di forzare la mano ai suoi protettori occidentali – forzarla appena, perché la sua mossa era imprevista, ma solo per una differenza di pochi giorni, intanto che Putin in camicia salutasse gli atleti a Pechino e Medvedev pescasse sul Volga – e gliene è incolso un gran male, perché la Russia è tutt´altra da quella dell´indomani dell´11 settembre. Il tempo di un cambio di camicia con una mimetica, e Putin ha presieduto da Vladikavkaz a una ritorsione militare così schiacciante da far retrocedere la Georgia a rotta di collo. Altro che pirotecnia pechinese. E solo se fosse impazzito Saakashvili potrebbe immaginare oggi una discesa in campo militare degli Usa o della Nato al suo fianco: e doveva essere assai annebbiato per non prevedere che la spedizione a Tskhinvali sarebbe stata un regalo magnifico alla gloria guerresca di Putin. Altra lezione: la potenza è per definizione smisurata. Bush che protesta contro l´eccesso della ritorsione russa vuole scherzare: proprio lui, poi. La potenza disconosce e disprezza le proporzioni. Questa scacchiera caucasica (la culla del mondo, forse, dell´Europa certo) lo mostra spettacolarmente: il confronto semimondiale fra onnipotenze – se non altro perché ciascuna è in grado di provocare la fine del mondo – si accende e divampa sulla sorte di un paesino di montagna e della sua poca gente, pastori millenari e croupier reimmigrati. Semimondiale, perché qualcuno per il momento può starne alla larga, e, come la Cina, riderne di gusto. Sospendiamo l´elenco delle lezioni – vecchio elenco, del resto. E vediamo la piccola novità della guerra lampo. Vuol dire che non è affatto destinata a finire presto, e forse mai – finirà mai la guerra in Cecenia? – ma è la guerra che esplode in un lampo. Non ha bisogno di incubare, non aspetta macchinazioni diplomatiche, telegrammi di Ems, provocazioni terroristiche, attentati di Sarajevo, tergiversazioni sull´alleanza con cui schierarsi: si scatena in un batter d´occhio, emula finalmente del disastro naturale, del terremoto, dello tsunami, che non a caso sono ormai il lessico prediletto dalla politica quotidiana. Abitate nel vostro appartamento di Tskhinvali, o di Tbilisi, o di Gori, siete usciti a comprare la famosa anguria della costa del Mar Nero, vi siete preparati a guardare l´inaugurazione di Pechino, siete un vecchio seduto all´ombra su una panchina, oppure una ragazza che ha preso un appuntamento con un ragazzo, e in un momento siete estirpati dalla vostra terra, voi e le vostre case e i vostri giardini e i vostri pensieri. Finito. Mettiamo che i morti ammazzati di Tskhinvali siano davvero duemila: sui 35 mila della popolazione! E decine di migliaia di profughi. La guerra? I russi, mentre la loro aviazione bombardava smisuratamente, spiegavano di non essere in guerra. I georgiani, mentre ritiravano le loro truppe dall´incauta avventura, gridavano: siamo in guerra. Sapete, le parole non sono bombe. Ho conosciuto alcuni dei luoghi contemporanei che ricevono il nome di guerra. Abbastanza da provare una ripugnanza per lo sventato ricorso a parole guerresche in altri luoghi – l´Italia, per esempio, da più di sessant´anni a questa parte. So che differenza c´è fra abitare a Grozny, o a Sarajevo, o a Kigali e a Tskhinvali, e abitare a Firenze o a Napoli. Dunque so spiegarmi la facilità con cui passiamo oltre le immagini di Grozny ieri, di Tskhinvali oggi, e torniamo alla semifinale di nuoto quattro stili. Tuttavia in quella imminenza di un espianto improvviso dalla propria casa, dalla propria terra, dall´appuntamento con la propria ragazza, in cui tanta parte del mondo vive e muore, guerre e terremoti, tsunami e terrorismo, c´è una campana che suona anche per noi. Adulti vanitosi, gente che spesso alza il gomito, e che non è comunque all´altezza, guidano macchine troppo potenti per loro. È come dare in mano a un ragazzo, nuovo alla notte fonda e alla birra e alla guida, un´automobile che fa i 240, e stupirsi che non stia sotto i 60. Anzi, non è così, è molto più pazzesco. La gente che intervistata mette in cima alle proprie preoccupazioni la propria sicurezza, e poi dettaglia: gli zingari, gli scippi... Forse ha sentito l´universalità di quel vento che espianta le città. Forse ha sentito il repentaglio della terra intera, in cui il famoso rischio è globale, e i Paesi di monte e di mare da centomila abitanti vogliono ancora vivere e morire per diventare Stati, e accomodarsi, da sovrani, come un osso nelle fauci del competente lupo cattivo.