venerdì, dicembre 26, 2008
domenica, dicembre 21, 2008
Due anni fa, Piero
Esattamente a due anni di distanza, ieri se ne è andata anche la tua carissima mamma.
Di lei conservo il ricordo della sua grande vitalità e dei suoi ottimi spaghetti.
Di te, il vuoto immenso che mi hai lasciato. Per chi ha avuto la fortuna di conoscerti rimarrari sempre un maestro di vita.
venerdì, dicembre 19, 2008
Se una sentenza non vale nulla
La Repubblica del 17 dicembre
di Adriano Sofri
Il cerchio dei bracconieri si stringe addosso al corpo di Eluana Englaro. Ora è il ministro Sacconi a rovesciare un’estenuante e definitiva trafila di sentenze con una circolare imperiosa a tutte le regioni -un ukaz, per l’esattezza - perché nessuna struttura sanitaria, né pubblica né privata, sospenda mai l’alimentazione artificiale a una persona "diversamente abile", cioè a Eluana, perché è di lei che così si tratta. Peccato, Sacconi è un ministro del Pdl che non rinnega il proprio passato di socialista: lo ridicolizza. Del resto è l’ultimo arrivato nella muta arrabbiata che bracca quella famiglia italiana, che la butta a spintoni da un tribunale all’altro, che la caccia ululando da una regione all’altra, che le nega il silenzio rispettoso e doloroso al quale aveva da sempre umanamente diritto, e se l’è conquistato legalmente attraverso un calvario giudiziario accompagnato da una pubblica gogna.
«La legge non la fa Sacconi», ha protestato il legale della famiglia. Già: ma Sacconi la disfa. O almeno ci prova. Non costa niente. Ci provano, negli stessi giorni, nello stesso ministero della pubblica virtù, con la Ru 486. Espedienti e spregiudicatezza sembrano diventatile armi di un vittimismo oltranzista che pretende per sé l’amore assoluto per la vita, avventandosi contro le particolari e fortuite vite altrui. Chi ha provato compassione, rispetto e solidarietà per i signori Englaro non ha desiderato al posto loro nessuna decisione: che la vita di Eluana finisse prima o dopo, e in questo o quel luogo. Ha solo desiderato, come cosa giusta e umanamente degna, che la loro disgrazia ridiventasse solo loro, che la decisione, e se e quando e dove, riguardasse loro, così come legge e sentenze hanno definitivamente garantito. Gli oltranzisti dell’amore per la Vita maiuscola (e del cinismo sulle minuscole vite personali) avrebbero dalla loro una forza decisiva, che è l’obiezione di coscienza. Dei cristiani non dovrebbero mai dimenticarsene, della chiesa primitiva o dei loro confratelli martirizzati in tante parti del mondo d’oggi.
La coscienza permette di obiettare alle leggi e alle sentenze, a costo della persecuzione: di rovinarsi una carriera, di perdere il lavoro, di finire in galera, di pagare con la vita... Quando l’obiezione non costa niente a sé e tutto ad altri, quando anzi giova alla carriera e rende più facile una vita facile, non c’entra più con la coscienza. E’ un trucco. E’ la Morale, nascosta in una mezza manica.
di Adriano Sofri
Il cerchio dei bracconieri si stringe addosso al corpo di Eluana Englaro. Ora è il ministro Sacconi a rovesciare un’estenuante e definitiva trafila di sentenze con una circolare imperiosa a tutte le regioni -un ukaz, per l’esattezza - perché nessuna struttura sanitaria, né pubblica né privata, sospenda mai l’alimentazione artificiale a una persona "diversamente abile", cioè a Eluana, perché è di lei che così si tratta. Peccato, Sacconi è un ministro del Pdl che non rinnega il proprio passato di socialista: lo ridicolizza. Del resto è l’ultimo arrivato nella muta arrabbiata che bracca quella famiglia italiana, che la butta a spintoni da un tribunale all’altro, che la caccia ululando da una regione all’altra, che le nega il silenzio rispettoso e doloroso al quale aveva da sempre umanamente diritto, e se l’è conquistato legalmente attraverso un calvario giudiziario accompagnato da una pubblica gogna.
«La legge non la fa Sacconi», ha protestato il legale della famiglia. Già: ma Sacconi la disfa. O almeno ci prova. Non costa niente. Ci provano, negli stessi giorni, nello stesso ministero della pubblica virtù, con la Ru 486. Espedienti e spregiudicatezza sembrano diventatile armi di un vittimismo oltranzista che pretende per sé l’amore assoluto per la vita, avventandosi contro le particolari e fortuite vite altrui. Chi ha provato compassione, rispetto e solidarietà per i signori Englaro non ha desiderato al posto loro nessuna decisione: che la vita di Eluana finisse prima o dopo, e in questo o quel luogo. Ha solo desiderato, come cosa giusta e umanamente degna, che la loro disgrazia ridiventasse solo loro, che la decisione, e se e quando e dove, riguardasse loro, così come legge e sentenze hanno definitivamente garantito. Gli oltranzisti dell’amore per la Vita maiuscola (e del cinismo sulle minuscole vite personali) avrebbero dalla loro una forza decisiva, che è l’obiezione di coscienza. Dei cristiani non dovrebbero mai dimenticarsene, della chiesa primitiva o dei loro confratelli martirizzati in tante parti del mondo d’oggi.
La coscienza permette di obiettare alle leggi e alle sentenze, a costo della persecuzione: di rovinarsi una carriera, di perdere il lavoro, di finire in galera, di pagare con la vita... Quando l’obiezione non costa niente a sé e tutto ad altri, quando anzi giova alla carriera e rende più facile una vita facile, non c’entra più con la coscienza. E’ un trucco. E’ la Morale, nascosta in una mezza manica.
giovedì, dicembre 04, 2008
Giovanna Marini live
Agli inizi degli anni 70 la città di Reggio Calabria, in competizione con Catanzaro per l'attribuzione del capoluogo di Regione, fu teatro di gravi disordini con blocchi stradali, barricate, occupazione della stazione ferroviaria. La rivolta strumentalizzata dai partiti di estrema destra e capeggiata dal neo fascista Ciccio Franco, caporione di Sbarre, durò più di un anno fino ad assumere i contorni di una vera e propria rivolta contro lo Stato.
Il 22 ottobre 1972 più di 40.000 lavoratori provenienti da ogni parte d'Italia giunsero a Reggio Calabria per testimoniare la loro solidarietà e riaffermare i valori della democrazia sfidando un clima di pesanti intimidazioni e violenza.
Video registrato il 18 luglio 2006 alla cava di Tarpezzo (San Pietro al Natisone Cividale del Friuli) durante lo spettacolo "Storie di lavoro".
Andavano col treno giù nel meridione
per fare una grande manifestazione
il ventidue d'ottobre del settantadue
in curva il treno che pareva un balcone
quei balconi con la coperta per la processione
il treno era coperto di bandiere rosse
slogans, cartelli e scritte a mano
da Roma Ostiense mille e duecento operai
vecchi, giovani e donne
con i bastoni e le bandierearrotolati
portati tutti a mazzo sulle spalle
Il treno parte e pare un incrociatore
tutti cantano bandiera rossa
dopo venti minuti che siamo in cammino
si ferma e non vuole più partire
si parla di una bomba sulla ferrovia
il treno torna alla stazione
tutti corrono coi megafoni in mano
richiamano "andiamo via Cassino
compagni da qui a Reggio è tutto un campo minato,
chi vuole si rimetta in cammino"
dopo un'ora quel treno che pareva un balcone
ha ripreso la sua processione
anche a Cassino la linea è saltata
siamo tutti attaccati al finestrino
Roma ostiense Cisterna Roma termini Cassino
adesso siamo a Roma tiburtino
Il treno di Bologna è saltato a Priverno
è una notte una notte d'inferno
i feriti tutti sono ripartiti
caricati sopra un altro treno
funzionari responsabili sindacalisti
sdraiati sulle reti dei bagagli
per scrutare meglio la massicciata
si sono tutti addormentati
dormono dormono profondamente
sopra le bombe non sentono più niente
l'importante adesso è di essere partiti
ma i giovani hanno gli occhi spalancati
vanno in giro tutti eccitati
mentre i vecchi sono stremati
dormono dormono profondamente
sopra le bombe non sentono più niente
famiglie intere a tre generazioni
son venute tutte insieme da Torino
vanno dai parenti fanno una dimostrazione
dal treno non è sceso nessuno
la vecchia e la figlia alle rifiniture
il marito alla verniciatura
la figlia della figlia alle tappezzerie
stanno in viaggio ormai da più di venti ore
aspettano seduti sereni e contenti
sopra le bombe non gliene importa niente
aspettano che è tutta una vita
che stanno ad aspettare
per un certificato mattinate intere
anni e anni per due soldi di pensione
erano venti treni più forti del tritolo
guardare quelle facce bastava solo
con la notte le stelle e con la luna
i binari stanno luccicanti
mai guardati con tanta attenzione
e camminato sulle traversine
mai individuata una regione
dai sassi della massicciata
dalle chine di erba sulla vallata
dai buchi che fanno entrare il mare
piano piano a passo d'uomo
pareva che il treno si facesse portare
tirato per le briglie come un cavallo
tirato dal suo padrone
a Napoli la galleria illuminata
bassa e sfasciata con la fermata
il treno che pareva un balcone
qualcuno vuol salire attenzione
non fate salire nessuno
può essere una provocazione
si sporgono coi megafoni in mano
e un piede sullo scalino
e gridano gridano quello che hanno in mente
solo comizi la gente sente
ora passa la notte e con la luce
la ferrovia è tutta popolata
contadini e pastori che l'hanno sorvegliata
col gregge sparpagliato
la Calabria ci passa sotto i piedi ci passa
dal tetto di una casa una signora grassa
fa le corna e alza una mano
e un gruppo di bambini ci guardano passare
e fanno il saluto romano
Ormai siamo a Reggio e la stazione
è tutta nera di gente
domani chiuso tutto in segno di lutto
ha detto Ciccio Franco "a sbarre"
e alla mattina c'era la paura
e il corteo non riusciva a partire
ma gli operai di Reggio sono andati in testa
e il corteo si è mosso improvvisamente
è partito a punta come un grosso serpente
con la testa corazzata
i cartelli schierati lateralmente
l'avevano tutto fasciato
volavano sassi e provocazioni
ma nessuno s'è neppure voltato
gli operai dell'Emilia-Romagna
guardavano con occhi stupiti
i metalmeccanici di Torino e Milano
puntavano in avanti tenendosi per mano
le voci rompevano il silenzio
e nelle pause si sentiva il mare
il silenzio di qulli fermi che stavano a guardare
e ogni tanto dalle vie laerali
si vedevano sassi volare
e alla sera Reggio era trasformata
pareva una giornata di mercato
quanti abbracci e quanta commozione
il nord è arrivato nel meridione
e alla sera Reggio era trasformata
pareva una giornata di mercato
quanti abbracci e quanta commozione
gli operai hanno dato una dimostrazione
Quel simbolo religioso che spacca la politica
A. Sofri Repubblica 2 dicembre
Pochi giorni fa con tante persone diverse ho ricordato un amico caro che è morto prima del tempo. Il nostro amico abitava a Montalcino, a pochi chilometri dall´abbazia di Sant´Antimo. Non era credente, ma amava l´abbazia e i suoi canonici bianchi, e gli piaceva portare i suoi ospiti a visitarla. Molti di noi che lo salutavamo per l´ultima volta, eravamo stati guidati da lui in quel posto bellissimo. Dentro, fa un gran freddo, quando fa freddo, ma la luce lo compensa. Era un giorno di cielo azzurro e di nuvole candide, così il sole irrompeva e spariva dalle finestre sotto il soffitto della fiancata, e la bifora dell´abside inquadrava una corsa di nuvole. Al centro del gioco di luce, sospeso sopra l´altare è un grandioso crocifisso ligneo policromo del Duecento, le cui braccia si spalancano a occupare lo spazio spoglio. Il priore parlava con simpatia e rispetto del nostro amico, e spiegava che senza la fede nella resurrezione quel nostro trovarci là non avrebbe avuto senso. Io, e altri come me, non pensavamo così. Quel bel crocifisso, la cui positura mostra probabilmente l´intenzione di raffigurare già, oltre il tormento e l´agonia, un movimento verso l´alto - una resurrezione - a molti di noi sembrava abbracciare fraternamente la sofferenza attraverso cui era passato il nostro amico e il nostro lutto per lui. Anche senza la fede nella resurrezione, aveva senso stare lì e condividere un commiato con altre persone, con quell´immagine di rinnegato, venduto e suppliziato, e con la solennità del luogo. Fuori dall´abbazia, di fronte alla facciata, si alza un colle sulla cui cima è stata piantata poco fa una croce alta 22 metri, dedicata al leggendario fondatore dell´abbazia, Carlo Magno. Quando mi aveva guidato fin là, il mio amico me l´aveva mostrata con una perplessità, come un impianto invadente ed estraneo al profilo del poggio e della valle, una specie di proclama proprietario. L´ho riguardata con la stessa sensazione, ora più netta, per il contrasto col crocifisso dell´altare. So che è una tradizione antica, quella di segnare le cime con la croce, e magari di adibirla a parafulmine. Tuttavia qui, con la croce incombente sopra l´antichità di pietre e di piante, ho avuto ancora una volta l´impressione dei tanti significati diversi che può prendere il crocifisso. A ciascuno la sua croce. Si dice così, e vuol dire che è difficile a una vita umana sfuggire all´agguato della disgrazia. Prendiamola invece alla lettera, quell´espressione, come se volesse dire che la croce ha altrettanti significati quanti sono quelli che la portano. La croce tanto più brillante sulla scollatura tanto più generosa di una signora, per esempio: è difficile che rinvii a pensieri pii, e tantomeno allo "scandalo della croce", quello che ha reso sublime uno strumento di ignominia. Piegata all´odio e alla ferocia razzista, la croce incendiata del Ku Klux Klan è il più osceno dei simboli. È ambigua e turbante la croce che si associa a un potere pubblico, fra la rivalsa della potenza e la reminiscenza di una iniqua condanna. In un´aula di tribunale, né la legge, né il crocifisso riescono davvero a essere uguali per tutti. Si dice, lo disse anche una famosa sentenza del Consiglio di Stato, che, esposto fuori da un contesto religioso, nelle aule scolastiche per esempio, il crocifisso conservi «un valore altamente educativo» anche «a prescindere dalla religione professata». Che sia un simbolo "universale". Può esserlo alla condizione elementare che l´universalità sia riconosciuta da tutti coloro cui si rivolge, e cessi di esser pretesa tale quando il riconoscimento manchi, e intervenga un´obiezione. Tolti i muri pubblici, resterà sempre uno spazio ampio abbastanza in quelli di culto, fra le pareti private e nei cuori delle persone. Natalia Ginzburg scrisse un articolo memorabile per l´Unità, nel 1988. Si intitolò "Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano". Chissà se lo riscriverebbe così. Oggi ci sono tanti nuovi cittadini che dal crocifisso appeso in un´aula di scuola possono sentirsi offesi o esclusi. È un povero modo di intendere la fede quello che la lega all´ostensione nei luoghi pubblici dello Stato, e nella rinuncia a quel compromesso col potere temporale vede, addirittura, l´avvento di una "Cristofobia". Un passaggio dell´articolo diceva: «Non può essere obbligatorio appenderlo. Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo». Rimuovere un simbolo non è la stessa cosa che insediarne uno nuovo. Vale per i muri, vale per il linguaggio quotidiano. Non si smetterà da un giorno all´altro di dire, come in certi nostri dialetti "nu cristiano", e intendere un essere umano, o dire, in lingua, "un povero cristo". E gli altri, i nuovi arrivati, cercheranno anche loro di andare oltre la lettera. Si tratterà di rispetto e buon senso. Tuttavia, nonostante tanti usi perversi o fatui o distratti, il crocifisso è ancora capace di scandalo. Non parlo dello scandalo suscitato nei contemporanei di Gesù da un supplizio infamante, ed ereditato da chi, come Nietzsche, rimpiangeva gli dèi pagani spodestati da una religione malata e servile e spregiatrice della vita. Benché Gesù gli apparisse innocente dell´impostura della Chiesa, "l´unico cristiano", e benché nei "biglietti della follia" si firmasse coi nomi di Dioniso e di Anticristo, ma anche di Crocifisso. Il suo Gesù è comunque il disarmato asceta della beatitudine, non il rivoluzionario delle Beatitudini. Lo scandalo inesausto della croce sta qui, nel rovesciamento senza precedenti e senza eguali di un simbolo di ignominia in uno di nobiltà e addirittura, per i credenti nella resurrezione, di regalità e di trionfo. Non era mai avvenuto né sarebbe avvenuto mai più, non a tal punto. (Ma che impressione devono aver fatto i superstiti dei campi di sterminio la prima volta che decisero di sfilare con le uniformi e la stella). Quella cristiana è una vera rivoluzione: la rivoluzione dell´ebreo Gesù, l´inveratore della profezia di Isaia. L´inversione che rende possibile - sia pure nell´arco di tre secoli - il passaggio dalla crocifissione come patibolo d´infamia al simbolo di gloria e di venerazione, è annunciata nel Vangelo del Discorso della montagna, e nella sua formidabile alternanza di beatitudini e minacce. Beati i poveri e guai a voi, i ricchi. Beati quelli che hanno fame, e guai a voi, che ora siete sazi. Beati quelli che ora piangono, e guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. La rivoluzione, alla lettera: quello che sta sotto andrà sopra, quello che sta in alto precipiterà nel fondo. Molti degli ultimi saranno i primi. Il rovesciamento impronta l´intera lezione. I ricchi e i poveri. I nemici da amare, da benedire quelli che maledicono. Sarà così che un condannato a morte, reietto, senza difesa, deriso e canzonato - lo incoroneranno di spine, giocheranno con lui allo schiaffo del soldato - giustiziato sulla croce con due delinquenti comuni, siederà alla destra del Padre e verrà a giudicare i vivi e i morti. Basterebbe recitarle oggi all´uscita di un supermercato, le inversioni delle beatitudini, per sentirne lo scandalo. Oggi, quando i ricchi sono più ricchi ancora, disgraziati. A maggior ragione lo scandalo della croce brucia ancora in ogni luogo conculcato della terra. Là il crocifisso non è un simbolo di rassegnazione e di negazione di sé, e tanto meno di potenza e di vanagloria, ma di resistenza e libertà e anelito di giustizia, spesso a costo del martirio. François Xavier Nguyen Van Thuan è stato un principe della Chiesa, il primo cardinale vietnamita. È morto nel 2002 a Roma, dove viveva dal 1994, presidente del pontificio consiglio Iustitia et Pax. Prima era stato arcivescovo e prigioniero, nelle galere del Vietnam a noi così caro, del Vietnam "liberato", per 13 anni, e tenuto per nove in isolamento. Nel "campo di rieducazione" di montagna di Vinh Quang si era intagliato una piccola croce di legno. In un´altra prigione era riuscito a procurarsi un po´ di filo elettrico, e ne aveva fatto una catenella per portare la croce al collo. Si capisce che quando, liberato e riparato a Roma, si vide offrire una croce d´oro, ringraziasse e si tenesse la sua.
Pochi giorni fa con tante persone diverse ho ricordato un amico caro che è morto prima del tempo. Il nostro amico abitava a Montalcino, a pochi chilometri dall´abbazia di Sant´Antimo. Non era credente, ma amava l´abbazia e i suoi canonici bianchi, e gli piaceva portare i suoi ospiti a visitarla. Molti di noi che lo salutavamo per l´ultima volta, eravamo stati guidati da lui in quel posto bellissimo. Dentro, fa un gran freddo, quando fa freddo, ma la luce lo compensa. Era un giorno di cielo azzurro e di nuvole candide, così il sole irrompeva e spariva dalle finestre sotto il soffitto della fiancata, e la bifora dell´abside inquadrava una corsa di nuvole. Al centro del gioco di luce, sospeso sopra l´altare è un grandioso crocifisso ligneo policromo del Duecento, le cui braccia si spalancano a occupare lo spazio spoglio. Il priore parlava con simpatia e rispetto del nostro amico, e spiegava che senza la fede nella resurrezione quel nostro trovarci là non avrebbe avuto senso. Io, e altri come me, non pensavamo così. Quel bel crocifisso, la cui positura mostra probabilmente l´intenzione di raffigurare già, oltre il tormento e l´agonia, un movimento verso l´alto - una resurrezione - a molti di noi sembrava abbracciare fraternamente la sofferenza attraverso cui era passato il nostro amico e il nostro lutto per lui. Anche senza la fede nella resurrezione, aveva senso stare lì e condividere un commiato con altre persone, con quell´immagine di rinnegato, venduto e suppliziato, e con la solennità del luogo. Fuori dall´abbazia, di fronte alla facciata, si alza un colle sulla cui cima è stata piantata poco fa una croce alta 22 metri, dedicata al leggendario fondatore dell´abbazia, Carlo Magno. Quando mi aveva guidato fin là, il mio amico me l´aveva mostrata con una perplessità, come un impianto invadente ed estraneo al profilo del poggio e della valle, una specie di proclama proprietario. L´ho riguardata con la stessa sensazione, ora più netta, per il contrasto col crocifisso dell´altare. So che è una tradizione antica, quella di segnare le cime con la croce, e magari di adibirla a parafulmine. Tuttavia qui, con la croce incombente sopra l´antichità di pietre e di piante, ho avuto ancora una volta l´impressione dei tanti significati diversi che può prendere il crocifisso. A ciascuno la sua croce. Si dice così, e vuol dire che è difficile a una vita umana sfuggire all´agguato della disgrazia. Prendiamola invece alla lettera, quell´espressione, come se volesse dire che la croce ha altrettanti significati quanti sono quelli che la portano. La croce tanto più brillante sulla scollatura tanto più generosa di una signora, per esempio: è difficile che rinvii a pensieri pii, e tantomeno allo "scandalo della croce", quello che ha reso sublime uno strumento di ignominia. Piegata all´odio e alla ferocia razzista, la croce incendiata del Ku Klux Klan è il più osceno dei simboli. È ambigua e turbante la croce che si associa a un potere pubblico, fra la rivalsa della potenza e la reminiscenza di una iniqua condanna. In un´aula di tribunale, né la legge, né il crocifisso riescono davvero a essere uguali per tutti. Si dice, lo disse anche una famosa sentenza del Consiglio di Stato, che, esposto fuori da un contesto religioso, nelle aule scolastiche per esempio, il crocifisso conservi «un valore altamente educativo» anche «a prescindere dalla religione professata». Che sia un simbolo "universale". Può esserlo alla condizione elementare che l´universalità sia riconosciuta da tutti coloro cui si rivolge, e cessi di esser pretesa tale quando il riconoscimento manchi, e intervenga un´obiezione. Tolti i muri pubblici, resterà sempre uno spazio ampio abbastanza in quelli di culto, fra le pareti private e nei cuori delle persone. Natalia Ginzburg scrisse un articolo memorabile per l´Unità, nel 1988. Si intitolò "Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano". Chissà se lo riscriverebbe così. Oggi ci sono tanti nuovi cittadini che dal crocifisso appeso in un´aula di scuola possono sentirsi offesi o esclusi. È un povero modo di intendere la fede quello che la lega all´ostensione nei luoghi pubblici dello Stato, e nella rinuncia a quel compromesso col potere temporale vede, addirittura, l´avvento di una "Cristofobia". Un passaggio dell´articolo diceva: «Non può essere obbligatorio appenderlo. Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo». Rimuovere un simbolo non è la stessa cosa che insediarne uno nuovo. Vale per i muri, vale per il linguaggio quotidiano. Non si smetterà da un giorno all´altro di dire, come in certi nostri dialetti "nu cristiano", e intendere un essere umano, o dire, in lingua, "un povero cristo". E gli altri, i nuovi arrivati, cercheranno anche loro di andare oltre la lettera. Si tratterà di rispetto e buon senso. Tuttavia, nonostante tanti usi perversi o fatui o distratti, il crocifisso è ancora capace di scandalo. Non parlo dello scandalo suscitato nei contemporanei di Gesù da un supplizio infamante, ed ereditato da chi, come Nietzsche, rimpiangeva gli dèi pagani spodestati da una religione malata e servile e spregiatrice della vita. Benché Gesù gli apparisse innocente dell´impostura della Chiesa, "l´unico cristiano", e benché nei "biglietti della follia" si firmasse coi nomi di Dioniso e di Anticristo, ma anche di Crocifisso. Il suo Gesù è comunque il disarmato asceta della beatitudine, non il rivoluzionario delle Beatitudini. Lo scandalo inesausto della croce sta qui, nel rovesciamento senza precedenti e senza eguali di un simbolo di ignominia in uno di nobiltà e addirittura, per i credenti nella resurrezione, di regalità e di trionfo. Non era mai avvenuto né sarebbe avvenuto mai più, non a tal punto. (Ma che impressione devono aver fatto i superstiti dei campi di sterminio la prima volta che decisero di sfilare con le uniformi e la stella). Quella cristiana è una vera rivoluzione: la rivoluzione dell´ebreo Gesù, l´inveratore della profezia di Isaia. L´inversione che rende possibile - sia pure nell´arco di tre secoli - il passaggio dalla crocifissione come patibolo d´infamia al simbolo di gloria e di venerazione, è annunciata nel Vangelo del Discorso della montagna, e nella sua formidabile alternanza di beatitudini e minacce. Beati i poveri e guai a voi, i ricchi. Beati quelli che hanno fame, e guai a voi, che ora siete sazi. Beati quelli che ora piangono, e guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. La rivoluzione, alla lettera: quello che sta sotto andrà sopra, quello che sta in alto precipiterà nel fondo. Molti degli ultimi saranno i primi. Il rovesciamento impronta l´intera lezione. I ricchi e i poveri. I nemici da amare, da benedire quelli che maledicono. Sarà così che un condannato a morte, reietto, senza difesa, deriso e canzonato - lo incoroneranno di spine, giocheranno con lui allo schiaffo del soldato - giustiziato sulla croce con due delinquenti comuni, siederà alla destra del Padre e verrà a giudicare i vivi e i morti. Basterebbe recitarle oggi all´uscita di un supermercato, le inversioni delle beatitudini, per sentirne lo scandalo. Oggi, quando i ricchi sono più ricchi ancora, disgraziati. A maggior ragione lo scandalo della croce brucia ancora in ogni luogo conculcato della terra. Là il crocifisso non è un simbolo di rassegnazione e di negazione di sé, e tanto meno di potenza e di vanagloria, ma di resistenza e libertà e anelito di giustizia, spesso a costo del martirio. François Xavier Nguyen Van Thuan è stato un principe della Chiesa, il primo cardinale vietnamita. È morto nel 2002 a Roma, dove viveva dal 1994, presidente del pontificio consiglio Iustitia et Pax. Prima era stato arcivescovo e prigioniero, nelle galere del Vietnam a noi così caro, del Vietnam "liberato", per 13 anni, e tenuto per nove in isolamento. Nel "campo di rieducazione" di montagna di Vinh Quang si era intagliato una piccola croce di legno. In un´altra prigione era riuscito a procurarsi un po´ di filo elettrico, e ne aveva fatto una catenella per portare la croce al collo. Si capisce che quando, liberato e riparato a Roma, si vide offrire una croce d´oro, ringraziasse e si tenesse la sua.