di Mario Riccio e Gianna Milano
Il testo che riportiamo è tratto da «Storia di una morta opportuna», il diario del medico, Mario Riccio, che ha seguito Welby negli ultimi momenti di vita. Il diario, scritto insieme a Gianna Milano, è pubblicato da Sironi editore e sarà in libreria dal 10 ottobre.
Mercoledì 20 Dicembre E’ arrivato il giorno scelto da Welby. L’appuntamento al mattino è come sempre alla sede del Partito radicale. Arrivando, avverto una certa tensione. Chiedo a Cappato a che ora andremo da Welby. Non prima di sera, così ha deciso lui: vuole vedere la trasmissione su Rai1 "dei pacchi". (...) Mantenere la riservatezza si fa difficile: l’Unità scrive che sul caso Welby è giallo, che un anestesista di Cremona, membro della Consulta di Bioetica, è arrivato a Roma per una consulenza. Guardo la rassegna stampa del mattino: è incredibile l’approssimazione che regna su terminologia e definizioni. Si fa confusione fra eutanasia, sospensione delle cure, testamento di vita, accanimento terapeutico. Mi domando che succederà da domani se le cose andranno come si spera. Forse la confusione non è del tutto casuale e fa gioco a chi non vuole chiarezza su questi temi. Chissà se l’impegno di Welby servirà a sgombrare il campo da tanti equivoci. E io, mi chiedo, contribuirò a cambiare qualcosa rispondendo alla sua richiesta? Di nuovo mi incontro con Pannella e Cappato, e con i due medici belgi, che Welby ha conosciuto via internet, arrivati in tarda mattinata. Parlano solo francese, che io non parlo, ma capiscono l’inglese. Cappato fa da interprete. Hanno una valigia nella quale, dicono, c’è il necessario per portare a termine un atto eutanasico secondo il protocollo belga. Si mostrano convinti che questo sarebbe il modo giusto di agire, ma a me sembra un atteggiamento un po’ ideologico, che non valuta adeguatamente né la condizione di Welby, né il contesto in cui si trova. Del resto, mi spiegano che se dovessero procedere (in Italia l’eutanasia è contro la legge) non corrono il rischio di estradizione dal Belgio. Non è prevista per questo reato. Perciò non vedono problemi, salvo l’inconveniente che non potranno più venire in Italia. Io, invece, non sono disponibile a essere coinvolto in decisioni che conducano a una eutanasia: sul piano personale, ciò mi esporrebbe a una incriminazione per omicidio volontario e all’immediata sospensione dall’Albo dell’Ordine dei medici, che verosimilmente si trasformerebbe in radiazione. Insomma, perderei il lavoro e rischierei quindici anni di galera. Sul piano pubblico, poi, una scelta eutanasica significherebbe rinnegare quello in cui credo e che voglio affermare: e cioè il diritto di Welby e con lui di tutti i malati - al rifiuto di una terapia per lui intollerabile. L’eutanasia non è l’unica strada percorribile per risolvere una situazione come quella di Piergiorgio: ripeto a Pannella e Cappato che, anzi, sarebbe il fallimento della nostra tesi, ossia che è possibile ottenere la sospensione della terapia anche se salvavita, in un percorso di piena legalità, per un paziente cosciente e in grado di esprimere le sue volontà. Una volta stabilito legalmente questo precedente, sarà possibile compiere il passo successivo, e cioè quello della legge sul testamento biologico: rendere cioè valida la volontà dei singoli rispetto a determinati trattamenti medici, esprimendola anticipatamente da coscienti per il caso in cui non lo si fosse più. La battaglia che abbiamo condotto fin qui poggia su basi ben diverse da quelle eutanasiche. Se ne convincono infine sia Pannella sia Cappato. I medici belgi invece non capiscono la mia perplessità. Hanno portato il barbiturico da prendere per bocca (un potente sedativo ad azione rapida): la dose è tale da provocare arresto cardiaco e respiratorio, cioè eutanasia. In più hanno il curaro (un farmaco che blocca l’attività muscolare), che potrebbero somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sono disorientato. Capisco la preoccupazione che fallisca il mio tentativo di sedare Welby attraverso la vena femorale, ma c’è una netta differenza tra il mio percorso e la loro eutanasia. Ho difficoltà a seguire il dialogo perché devo aspettare che Cappato mi traduca, anche se spesso il senso lo capisco e rispondo in inglese. Loro mi chiedono perché non possono sedare Welby con il barbiturico per bocca dal momento che può deglutire. Rispondo che il tipo di farmaco, e soprattutto la dose, comporterebbero di per sé il reato di omicidio volontario, dato che in Italia l’eutanasia non è prevista nemmeno come reato! Siccome sarà certamente eseguita l’autopsia, il riscontro di una significativa quantità di barbiturico nello stomaco, oltre che nel sangue, anche se non assorbita del tutto, sarebbe la prova di una morte da noi volontariamente e direttamente provocata. A questo punto, dico, se si deciderà di imboccare una strada simile, io dovrò trarne le conseguenze e tornare subito a casa: infatti avevo deciso di venire a Roma spinto da profonda solidarietà, umana e professionale, verso Welby ma anche sulla base di altri principi. Ora temo che venendo meno la battaglia per il diritto al consenso e al rifiuto delle terapie, anche il caso Welby sarà strumentalizzato. Verrebbe preso a riprova che il rifiuto delle terapie non solo non è un diritto perfetto, ma nemmeno un’opzione tecnicamente praticabile; e che l’unica alternativa alla stoica sopportazione di Welby è l’illegale scelta dell’eutanasia. Insomma, in caso di atto eutanasico, i presenti - non io, che me ne andrei prima, ma i familiari, Cappato e Pannella - correrebbero rischi penali rilevanti; non i medici belgi che tornerebbero a casa loro il giorno dopo. Non so se questi comprendono il mio ragionamento, tanto sono convinti della loro idea, o se fingono. Pannella rompe la tensione che si è creata, dicendo che la decisione finale è di Welby. Se opterà per la soluzione eutanasica, la si praticherà solo dopo che io avrò lasciato Roma con un lasso di tempo sufficiente per tenermi fuori da ogni inchiesta. Ritiene che sarebbe una scelta di tipo politico, ma sulla quale vuole ancora riflettere e di cui intende assumersi in prima persona la responsabilità politica, se e solo se sarà il volere di Welby. Mi sembra di capire che Pannella e Cappato preferirebbero la mia soluzione; dato però che la riuscita dipende dalla mia capacità di reperire la vena femorale, vogliono anche tenere aperta l’opzione belga. La tensione cala. I belgi mi vorrebbero mostrare il contenuto della valigetta, ma dico loro che preferisco di no e che ne rimarrò lontano come il diavolo dall’acqua santa. Anche se, aggiungo scherzando, non so chi sia il diavolo e chi l’acqua santa. Tuttavia avverto il peso della responsabilità: tutto dipende dalla mia abilità nel trovare la vene femorale per la redazione. Mi consolo pensando che Welby ha ben chiara l’importanza di non optare per la soluzione eutanasica: l’ho capito ieri quando ne ho parlato con lui. (...) Welby ci aspetta da lui tra le 20.30 e le 21, sempre per via della trasmissione "dei pacchi". Adesso sono quasi le 19. Tutti liberi per un’ora, poi appuntamento qui in sede. Decido di concedermi una passeggiata, anche se sento di essere molto stanco. Mentre cammino tra la folla delle compere natalizie, ritorna quella sensazione di estraneità: come se la mia fosse una presenza furtiva. Tuttavia sono convinto che aiutare Welby aiuterà anche la coscienza civile e sociale di questo Paese che sembra bloccato, irrigidito. Un Paese dove i temi "eticamente sensibili" sono più che altro nervi scoperti, che creano inesorabilmente fronti opposti: laico e religioso. Difficile riuscire a trovare quei valori condivisi di cui leggo nei testi di bioetica di Engelhardt, che è medico, filosofo e credente. (...) Arriviamo rapidamente ed entriamo senza problemi. Mio zio mi messaggia che Veronesi ha dichiarato che un medico coscienzioso farebbe quello che Welby chiede. Penso che da adesso devo concentrarmi solo su quello che so che devo e voglio fare. Il tempo della riflessione è finito. Ora è il tempo dell’azione. (...) In casa il clima è il solito: tranquillo e cordiale. Come l’altro giorno siamo accolti da Mina con un sereno saluto. Cappato e Pannella entrano subito nella camera di Welby. Io rimango un po’ a parlare con Mina e Carla. Non si accenna a quello che deve succedere stasera, ma si chiacchiera d’altro. Mi chiedono se c’erano giornalisti sotto casa. Rispondo di no e penso che almeno questa preoccupazione è superata. Ormai sono dentro casa, di certo i giornalisti non potranno entrare con la forza. Mi fermo un attimo a riflettere e mi dico che non mi sto concentrando abbastanza. Ora basta parlare. Controllo tutto il materiale necessario che peraltro avevo già controllato lunedì. Penso: se stai ricontrollando vuol dire che sei nervoso. Se sei nervoso non riuscirai a prendere questa benedetta femorale. Non è vero, l’importante è non farsi prendere dalla paura di cose non ancora successe. Non voglio fare profezie che poi si avverano. Ho tutto quello che serve. Entro da Welby. Lo saluto, mi saluta. Gli chiedo se il parere del Css o altro ha cambiato qualcosa nella sua determinazione. La risposta è negativa. Gli domando se intanto posso iniziare a inserire la cannula nella vena femorale, come eravamo d’accordo. Inizio con l’anestesia locale. Sono contento perché vedo che non gli ho fatto male. Gli spiego che devo aspettare qualche minuto perché faccia effetto. Annuisce. Mi preparo per l’operazione. Metto i guanti, stendo un telo sterile, preparo il catetere. Il letto è molto basso, tanto che devo mettermi in ginocchio, e sulla destra, da dove intendo lavorare, non c’è molto spazio tra letto e parete. Nella stanza con me c’è solo Mina che mi aiuta e mi porge quello che le chiedo. Ho già preparato la flebo con il deflussore. (...) Chiedo a Welby se è pronto e se posso iniziare a sedarlo. Avevamo già concordato lunedì che l’inizio della sedazione coincidesse con il distacco dal ventilatore. Né prima né dopo. In modo che potesse stare il più possibile con i familiari e gli amici ma non dovesse avvertire da cosciente la fase dell’arresto respiratorio. Lo avevo già rassicurato che l’induzione completa della sedazione sarebbe durata non più di 90-120 secondi e che la sua autonomia dal respiratore senza affanno era superiore a questo tempo. Sapevo che con la moglie Mina aveva già fatto alcune prove di breve durata: avevano staccato il respiratore per vedere quanto in fretta scendessero i valori. In 10-15 minuti calavano rapidamente e lui andava in affanno. Sedandolo, gli avrei ridotto l’affanno e quindi allungato i tempi; avrebbe potuto chiudere gli occhi guardando le persone a lui care e mantenendo una espirazione residua in modo non doloroso.Lui chiede di iniziare e io parto con il primo sedativo (mmidazolam) e con la infusione del secondo (propofol), una dose sola in siringa che poi utilizzerò per mantenere la sedazione. Quando comincio avverto Welby, e lui lo vede. Come gli ho spiegato entro pochi secondi gli verrà sonno. Lui risponde annuendo. Lo saluto: «Ciao, Piergiorgio, ora riposerai». Guarda con gli occhi verso l’alto. Da questo momento non dirò più niente, come se lo lasciassi solo con i suoi familiari.