sabato, ottobre 11, 2008

25 anni in carcere vi sembran pochi?


da Liberazione del 9 ottobre 2008


di Andrea Colombo

Francesca Mambro è entrata in carcere nel 1982. Era una ragazza giovanissima, neppure 23 anni, ed era anche una pericolosa terrorista, macchiatasi di numerosi delitti. Da allora sono passati 26 anni, una ventina dei quali Francesca li ha passati chiusa in una cella. A qualcuno sembrano pochi.
Oggi Francesca Mambro è una donna adulta, e sarebbe falso affermare dire che è una persona diversa da quella che era allora. E ' la stessa ed è anche l'opposto. Non ha perso nulla dell'antica passionalità e ansia di trasformazione.
La stessa ansia che la spinse trent'anni fa su strade sbagliate e orrende un numero non insignificante di giovani di estrema sinistra e di estrema destra. Solo che ora non la adopera più per comminare pene di morte ma per combattere la pena di morte in tutto il mondo, e forse non è un caso che lavori da anni proprio in quell'associazione a cui si deve in buona misura l'impegno italiano per la moratoria contro la pena capitale, "Nessuno tocchi Caino".
Chiunque conosca Francesca Mambro, e a Roma la conoscono in moltissimi, sa perfettamente che si tratta di una persona non più socialmente pericolosa ma, al contrario, socialmente utile. Un'intelligenza e un'energia recuperate al mondo civile. La prova vivente di quanto assurda, feroce e fondamentalmente stupida sia la penacapitale, anche quando comina di quella morte bianca denominata "fine pena mai".
La libertà condizionale di cui Francesca gode da due giorni dovrebbe essere un'occasione di festa non per i suoi amici, numerosi tanto a destra quanto a sinistra, ma per chiunque non canti le lodi della nostra Costituzione solo per calcolo ipocrita ma per fondata convinzione. Incluso qualche sindaco che ha perso la testa correndo dietro ai ragazzini armati di bombolette di vernice come se fossero un pericolo pubblico. Dovrebbero, tutti, festeggiare una Carta che, scritta in tempi più civili, assegna alla pena la funzione di recupero e non di vendetta, e bolla non solo la forma ma anche lo spirito della condanna a morte.
Invece no. Invece da due giorni diluviano dichiarazioni indignate, elargite a piene mani da politicanti consapevoli di incamerare così una facile notorietà, che la galera non ha mai tirato tanto. Passi per quelli di destra, che un certo culto per le sbarre e i chiavistelli ce l'hanno in dote culturale e che almeno, a compenso della crociata forcaiola, ottengono voti sonanti. Meno comprensibile la foga carceraria della sinistra, che diffondendo scioccamente quella cultura, regala ai rivali voti e consensi in quantità massicce. Come si scopre ogni volta che si aprono le urne elettorali.
Ma, considerazioni opportuniste a parte, lo sbaglio è comune, e accomuna un'intera classe politica che, con poche eccezioni, ha dimenticato quello che dovrebbe essere il ruolo di una classe dirigente e lo ha confuso con il mestiere del piazzista pronto a tutto pur di incassare consensi facili. Solo che in questo caso il termine sbaglio non rende l'idea. Cannibalismo è più preciso.
Ed è cannibalismo anche la sentenza che, ieri, ha chiuso per altri tre anni Pierluigi Concutelli dietro quelle sbarre dove ne aveva già passati una trentina. A renderlo di nuovo una minaccia per la società non è stato un qualche delitto degno del nome, ma una quantità risibile di fumo. E checché ne dicano i codici, una condanna del genere con la giustizia c'entra poco e niente. Moltissimo invece con una cecità accanita e persecutoria, di quelle che producono criminalità assai più di quanto non la eliminino.

lunedì, ottobre 06, 2008

Il libro di Beppino Englaro sulla tragedia della figlia


da L’Opinione - Società 4 ottobre



di Alessandro Litta Modignani



Se per caso qualcuno nutrisse ancora dubbi su da che parte stia la ragione, nella lunghissima e tormentata vicenda di Eluana Englaro, legga il libro scritto a quattro mani da Beppino Englaro con Elena Nave, uscito mercoledì scorso ("Eluana. La libertà e la vita”, 232 pagine, Rizzoli-Bur). Vi si narra il dolore, ma non solo. Si spiegano i tanti dettagli del percorso medico. Si fanno i nomi delle amiche del cuore, testimoni delle reiterate affermazioni di Eluana quando era cosciente. Soprattutto si racconta il lungo calvario sanitario e giudiziario di un padre, alla disperata ricerca del rispetto della volontà della figlia come estremo, doveroso atto di amore. Qualcuno ha insinuato che la volontà di Eluana sia stata espressa in modo inattendibile: qualche frase generica, magari pronunciata da minorenne o addirittura da bambina. Non è così. Nel libro si citano circostanze precise: le vicende dello sciatore Leonardo David e poi di un caro amico (Alessandro, detto Furia), rimasto anch’egli in coma per un incidente, esattamente un anno prima che capitasse a lei. Fu allora che Eluana, ventenne, messa di fronte a quella condizione di sopravvivenza artificiale, disse ripetutamente ai suoi cari: “A me, mai !”. Le testimonianze sono numerose e unanimi, la documentazione medico-scientifica inoppugnabile. Le tristi condizioni della giovane sono descritte con precisione, appena velata dal pudore. L’irreversibilità dello stato vegetativo venne certificata a due anni dall’incidente, nel lontano ‘94. Tutti gli specialisti consultati non hanno mai lasciato margini alla speranza. Alla luce di quest’ultima considerazione, suonano quasi beffarde le motivazioni con le quali la Procura di Milano ha deciso di appellare la sentenza del Tribunale, che nel luglio scorso aveva autorizzato il padre-tutore a interrompere le cure. Non sarebbero state effettuate le opportune verifiche sullo stato di salute della donna, è scritto nella richiesta di sospensiva. Ma se lo stato vegetativo perdura dal ‘92 ed è stato giudicato “permanente” dal ’94, cosa c’era ancora da verificare? Così il Tribunale tornerà a riunirsi. L’udienza del 24 settembre è stata rinviata all’8 ottobre, mercoledì prossimo. Per singolare coincidenza, quello stesso giorno si riunisce la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento nei confronti della Cassazione, “colpevole” della sentenza che un anno fa aveva dato ragione a Beppino Englaro su tutta la linea, spianando la strada al pronunciamento del Tribunale di Milano. Sembra quasi di vederle, queste “Importanti Autorità”: supremi magistrati, alti prelati, onorevoli politici, filosofi e bio-eticisti, giuristi e giornalisti, scienziati e luminari. I Parrucconi dello Stato Etico in girotondo attorno al corpo inanimato di Eluana Englaro, da quasi 17 anni incapace di intendere, di volere, di deglutire e di defecare e perciò nutrita artificialmente dal naso, evacuata artificialmente dallo sfintere, lavata e frizionata, voltata e rivoltata in difesa della “sacralità della vita” e in attesa della “morte naturale”. Sembra un brutto film sull’oscurantismo medioevale, invece è la vita vera, in Italia, oggi. Di tutto questo parla il libro di Beppino Englaro, uomo dignitoso, mite e ostinato. Tutti dovrebbero leggerlo, perché – come scrisse Luca Coscioni - non possiamo aspettare le scuse di uno dei prossimi Papi, fra un secolo o due.

domenica, ottobre 05, 2008

Consigli per la catastrofe


da La Repubblica del 3 ottobre 2008

di Adriano Sofri

Consigli per la fine del mondo. Prima di tutto, tenersi nelle vicinanze dell’uscita. La fine del mondo infatti non avverrà mai del tutto: sarà l’allarme a rifinirla. Ma andiamo per ordine. C’è quell’espressione: panico nelle Borse. Singolare, no? Non per le Borse, per il panico. O per l’associazione fra i due. In apparenza, si tratta dei due capi della cosa: in basso c’è il panico, in altissimo l’euforia. L’euforia delle Borse. Ma non c’è affatto simmetria. In Borsa si va per giocare, una certa ilarità ci sta, e magari l’euforia. Tutt’al più qualche altro disgraziato diventa ricco. Ma quando la cosa va giù, giù davvero, e interviene il panico, il panico davvero, allora si salvi chi può. Per questo i veri grandi finanzieri, un momento prima di suicidarsi, sorridono e si fanno vedere alle corse dei cavalli e dicono: «Non c’è problema». Prendete l’esperimento del Cern. Non che si dovesse davvero temere che andasse storto, e che un buco nero ingoiasse tutto e buonanotte. Però costringeva a pensare che se davvero una comunità umana avesse a portata di mano un esperimento in cui o la va o la spacca, lo farebbe. In fondo è questo un compendio possibile della storia del genere umano fin qui: o lava o la spacca. Bè, è andata, direte voi. E’ vero, per il momento. Dunque, ammettiamo che davvero l’esperimento abbia queste due possibilità estreme (non importa quanto probabili rispettivamente). Se riuscisse, riprodurrebbe il Big Bang, fantastico, la fine del mondo - euforia fra i ricercatori e i tecnici. Se fallisse, sarebbe la catastrofe, la fine del mondo - panico fra i passanti. Ammettete che le due poste non sono comparabili. La distruzione non vale la creazione, il capo non è la coda. Del resto il corto circuito di Ginevra è suggestivo come una provvidenza- come se il Creatore ci avesse messo, non dico tanto, malo zampino. Ora, si dice, in America non è il capitalismo che è andato a sbattere, ma una certa specie di capitalismo. Già. Però per il socialismo - quello reale, intendo, quello che si chiamò comunismo non si può dire, se no diventa plausibile una rifondazione. «Una certa specie di socialismo»... Gli americani ci stanno provando: espropria la gente oggi, e promettigli il sestuplo domani. Il comunismo c’è riuscito, un po’ di volte: ma non l’ha mica fatto votare dal Congresso. In verità queste congiunture estreme servono solo a illudersi che esistano il liberismo e lo statalismo, anzi l’iperliberismo e l’ultraprotezionismo, e che bisogni stare o di qua o di là, ma sono solo canzonette. Il capitalismo, per mostrarsi razionale, organico - il"sistema" - aveva bisogno dello specchio nero del comunismo. Da quando ha perso l’ombra, la sua è apparsa l’euforia dell’ubriachezza. Esiste al mondo un colossale e minuzioso guazzabuglio cui, per esorcismo, si dà il nome di capitalismo. Il comunismo era una parte, faziosissima, che è rovinosamente e fortunatamente fallita: non a caso nel crollo di un muro, come una galera. Restarono macerie da sgombrare, e lo sgombero si è interrotto. Il capitalismo per i crolli predilige le Borse, e tocca il fondo perché è diventato tutto. Tutto è capitalismo, dunque il capitalismo è niente. Però quando il meccanismo si inceppa, i ricchi possono diventare più ricchi o cadere in disgrazia, i poveri sono rovinati e basta. I poveri infatti hanno pochissimo da perdere: ma quel pochissimo li teneva stentatamente in vita. I poveri lo sanno, o comunque lo sentono, e perciò provano uno speciale spavento di fronte al crollo delle Borse. Se no potrebbero ridersela. Invece no. Comunque, c’è ancora liquidità sufficiente. E se non c’è, la stampiamo. Non sarà il piano quinquennale, ma a mali estremi estremi rimedi. Se l’erano inventato per questo, il socialismo: per rimediare. Poi si vide che il rimedio eccetera. Adesso ci si butta dall’altra parte. In Austria per esempio, come l’altra volta. In Baviera hanno appena perso tutti. Beninteso, la civiltà non può essere così fragile. Migliaia di anni, e poi un intero dopoguerra (la Nostra Guerra). La crisi delle Borse non basterà a far rovinare dalle fondamenta una così bella e sofisticata macchinazione. Bè, non lei da sola. La questione è il panico. A un certo punto correrà una voce: O la borsa o la vita! E sarà come quando in una discoteca si alza un grido: Al fuoco! Allora la musica si spezzerà, cinque miliardi di persone, più o meno, smetteranno di colpo di ballare e correranno verso le uscite di emergenza calpestandosi e travolgendosi selvaggiamente. (L’altro miliardo e mezzo non ballava già, era rannicchiato e guardava i ballerini senza capire). Così può venire la fine del mondo. Non per l’incendio, che può scoppiare, o anche no: ma per il panico. Ecco perché conviene tenersi vicini all’uscita, in generale. Ho già avvistato, all’imbrunire, pattuglie di direttori di banca e commercialisti che si aggirano attorno al recinto del mio pollaio.

Caso Sofri, uccidere Calabresi fu giustizialismo politico


da Liberazione del 2 ottobre 2008


di Oreste Scalzone


L'incontro patrocinato dal segretario dell'Onu in occasione del Memory day in favore delle «vittime del terrorismo» ha fatto saltare i nervi ad Adriano Sofri. In nome di una indistinta nozione della figura di vittima si è tenuta nelle scorse settimane una cerimonia attorno alla quale sono state raccolte vicende molto diverse tra loro, distanti e persino opposte nello spazio, nel tempo, financo nella loro fenomenologia, morfologia e eziogenesi, come i morti delle Twin Towers, gli scolari trucidati a Beslan, i morti delle stragi di piazza Fontana o l'uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, per fare solo alcuni esempi. Condannato per quest'ultimo episodio, ma da sempre proclamatosi innocente, Sofri non ha sopportato l'accostamento. "Io terrorista, alla stregua dei sequestratori di Beslan? No, non ci sto!". È stato questo il senso della sua indignata reazione per un qualcosa che esplicitamente ferisce il suo onore. Sofri ha giustamente contestato che un episodio come l'uccisione di Calabresi, arrivato al culmine di una sequenza che vide la morte dell'innocente Giuseppe Pinelli e la montatura contro gli anarchici con l'incriminazione di Pietro Valpreda, possa essere messo sullo stesso piano della strage di piazza Fontana, accorpato addirittura a massacri di bambini e deportazioni a volte vicine al genocidio. Sul Foglio del 13 settembre ha sollevato la pietra dello scandalo affrontando la semantica di una delle parole più stregate al mondo: «terrorismo». Termine tra i più compromessi, multiuso, impiegato essenzialmente per delegittimare, mostrificare, demonizzare l'avversario piuttosto che per definire un particolare uso della violenza. Occasione per questo di un infinito autismo comunicativo . Si potrebbe forse obiettare che non ha molto senso rincorrere sul terreno della stigmatizzazione linguistica chi bombarda o ordina martellamenti d'artiglieria e poi rivendica virtuose illibatezze, senza mancare di dare del terrorista ai ragazzini col cappuccio che lanciano sassi, rompono qualche vetrina o riempiono i muri di tag . Da alcuni anni una direttiva europea considera terrorismo il pirataggio informatico o la semplice occupazione illegale di piazze e edifici pubblici. Di fronte a ciò, è lecito chiedersi se si possa passare la vita lasciandosi ipnotizzare nel tentativo di raddrizzare i torti semantici, di (ri)prendersi la ragione rispetto a un intreccio infinito di mascalzonate statali d'ogni tipo?… Forse a questo punto l'unica cosa possibile è fare un'operazione di radicale Jugitzu semantico, come quella realizzata dai movimenti afro-americani, quando decisero di svuotare l'aggressività coloniale e razzista dello stigma negro appropriandosi essi stessi di quella definizione. La parola terrorismo nasce sulla base di una autodefinizione del rivoluzionarismo statalista-borghese nel drittofilo del diritto di resistenza e del «diritto-dovere a insorgere con le armi alla mano contro il despota e l'usurpatore». Teorie, come quella del tirannicidio, finemente elaborate dai gesuiti spagnoli del 600, Birenbaum e altri, per argomentare la legittimità dell'attentato contro la persona dell'imperatore, se questi entrava in conflitto con l'autorità papale. Dottrine poi riprese con fedeltà mimetica da quello che potremmo chiamare legittimismo del futuro prossimo venturo , di parte repubblicana; e poi di nuovo, alla rovescia, dal legittimismo tradizionalista anti-repubblicano. Termini, dunque, di doppia matrice, cattolica apostolica romana prima e poi - nella teologia politica, con perfetta spinta alla ritorsione mimetica - giacobina. Tanto che potremmo parlare con pertinenza di concetto catto-giacobino. Che una traccia di filiazione con questa matrice ci sia anche nei vendicatori anarchici - dopo Felice Orsini e gli attentatori della «propaganda attraverso il gesto», i Gaetano Bresci, i Giovanni Passannante, i Sante Caserio, non deve stupire più di tanto. La stessa relazione conduce alle azioni dei populisti, gli amici del popolo , i Narodniki dell'attentato a Stoljpin; o ancora ai nazionalisti - e, se vogliamo distinguere il nazionalismo conculcato e irredentistico da quello già al potere, nazionalitarî ; e ancora più in generale ai movimenti caratterizzati da ideologia-passione identitaria nutrita di martirio. La realtà è che le idee delle classi dominanti costituiscono un reticolo concettuale da cui non ci si libera sollevandosi per il codino, come il barone di Munchausen… Per contro, non a caso il termine è ereditato senza complessi dal filone della sinistra della socialdemocrazia russa, i bolscevichi, e dal loro successivo costituirsi in Komintern. Quasi inevitabile riscontro degli effetti suscitati dalla contraffazione, oltreché lavorista e statalista , teorizzata da Ferdinand Lassalle. Nel programma di Gotha si stabiliva infatti una retrospettica filiazione non certo con l'Associazione internazionale dei lavoratori e la Comune di Parigi, ma proprio col giacobinismo, con certi passaggi dottrinari, in particolare di Robespierre e Saint-Just. D'altronde Trotsky non ha complessi quando risponde con l'opuscolo Terrorismo e comunismo al pamphlet Comunismo e terrorismo di Kautsky. Nei resoconti delle sessioni del Komintern si dà documentazione dei dibattiti sull'opportunità di ricorrere in talune circostanze a combinazioni e dosaggi di terrore come ingrediente dell'azione. In alcuni suoi passi Lenin argomenta la necessità di instaurare forme di terrore poliziesco, anche come antidoto e argine a una violenza spontanea insorgente, che altrimenti avrebbe fatto scorrere fiumi di sangue ancor più grandi (vengono in mente in questo caso Bronte, la repressione spietata gestita da Bixio, e altrove le osservazioni di Foucault - nel Dialogo con i maoisti e in Microfisica del potere - sulla violenza rivoluzionaria che quando si istituzionalizza in tribunali e carceri si trasmuta nel suo contrario). Ma queste cose Adriano Sofri le conosce meglio di me. Cionondimeno si è lasciato andare ad una stucchevole danza del ventre rivendicando non l'esistenza di una differenza (quella sì, fondata su una diversità di strategie e tattiche nell'uso della violenza politica, oltreché sugli obbiettivi), ma la presenza di una superiorità morale, di una qualità che avrebbe distinto la vicenda Calabresi dai successivi atti di lotta armata avvenuti nel corso degli anni 70. A suo avviso il movente dell'indignazione - che per civetteria definisce «privata», ma che vuolsi chiamare civile - sarebbe stata moralmente superiore - e per questo esente dall'infamia d'essere una pratica ritenuta terrorista - a qualsivoglia altra motivazione politica, come quella legata alla pedagogia della «lotta armata per il comunismo». Egli sembra suggerire una definizione della categoria di terrorismo a partire dal movente, per cui l'omicidio ingenerato da indignazione civile ne sarebbe esente e dopo ripetute contorsioni, correzioni, rettificazioni e sfumature via, via aggiunte, arriva anche a precisare quanto da sempre sostenuto dal marchese di Lapalisse: esiste una violenza che non è violenza politica (vedi la strage di Erba), e una violenza politica che non è terrorismo ( Corriere della sera del 16 settembre). Addirittura per rafforzare il suo ragionamento cerca appoggi nelle parole dei giudici che lo hanno condannato, interpretando la mancata applicazione dell'aggravante per «fini di terrorismo ed eversione dell'ordine costituzionale» come il riconoscimento, anche da parte della magistratura, della natura «privata» e non eversivo-terroristica dell'omicidio Calabresi. Argomento, questo, ribadito con ancora maggiore nettezza da Giuliano Ferrara sul Foglio del 22 settembre: «Chi ha ucciso il commissario non aveva un piano terroristico per attaccare il cuore dello Stato, bensì vendicare la morte dell'anarchico Pinelli. Sono due cose completamente diverse, il terrorismo e l'assassinio di Luigi Calabresi». Errore davvero macroscopico, visto che le leggi speciali dell'emergenza sono state varate sette anni dopo l'attentato, e che dunque la magistratura non poteva qualificare retroattivamente l'uccisione di Calabresi come un atto di sovversione dell'ordinamento costituzionale (come d'altronde avvenne anche per il sequestro Sossi e altri episodi analoghi fino al rapimento Moro), o applicare l'articolo 280 del codice penale, riscritto sempre nel 1979, (attentato con finalità di terrorismo o eversione), piuttosto che il generico 575, omicidio di diritto comune. Come se non bastasse, nel tentare un parallelo Sofri non trova di meglio che richiamare una delle azioni gappiste più importanti della Resistenza: l'uccisione di Giovanni Gentile. Un episodio che nulla ha di "esclusivo" ma che si iscrive nella strategia della lotta armata urbana condotta dai Gap. Insomma se uno dei requisiti del terrorismo è quello di avere una strategia, e dunque una sua riproducibilità nella azioni - come pare voler suggerire Sofri -, quello dei Gap era terrorismo anti-nazifascista, né più né meno, come si è ritenuto che fosse - a partire da un certo momento in poi - per Prima linea e le Brigare rosse. Toccherà agli storici futuri stabilire se la lotta armata degli anni 70 lo fu davvero, perché dal punto di vista del diritto non esiste una definizione universalmente riconosciuta, a meno che non si voglia prendere per buona quella offerta dai testi dell'Fbi o del Pentagono. Ciò che invece suscita sconcerto è il fatto che una vendetta , come l'uccisione di Calabresi, qualcosa che si apparenta ad una supplenza soggettiva della giustizia statale, all'epoca per giunta rifiutata da Sofri stesso, una sentenza di morte applicata sulla base di una colpevolezza stabilita sulla scorta di una vox populi , senza nemmeno la farsa di un processo popolare e addirittura considerata oggi un "errore giudiziario", come lo stesso Sofri scrive, possa essere ritenuta un gesto più nobile degli attentati successivi. Quello che già allora molti di noi ritennero una forma di giustizierismo politico ci fa orrore, tanto più quando in quell'episodio si arriva ad intravedere un segno del torvo giustizialismo impregnato del paradigma della colpa che sarebbe arrivato 36 anni dopo. Scriveva Lissagaray, il comunardo che riuscì a scrivere una storia al presente della Comune di Parigi: «Chi diffonde tra il popolo false leggende rivoluzionarie, e lo diletta di storie cantanti, è altrettanto nocivo che il geografo che indirizzi ai naviganti delle carte nautiche che mentono».

Il diario di Riccio, il testamento di Welby

da L'Unità del 3 ottobre 2008
di Luca Landò
Chissà se lo leggeranno. Chissà se i senatori della Commissione Sanità sfoglieranno il libro di Mario Riccio, il medico che ha aiutato Piergiorgio Welby a scegliere della sua vita, prima ancora che della sua morte. Lo speriamo davvero, perché chi è chiamato a discutere di una materia delicata come il testamento biologico dovrebbe conoscere bene la storia di Piergiorgio. E di Mina, sua moglie. E di Mario Riccio appunto, che ha accettato il rischio di finire in prigione, cioè di rinunciare alla propria libertà, pur di consentire a un uomo, anche se malato, anche se attaccato a un respiratore meccanico, la libertà di scegliere. Chissà se quei senatori si ricorderanno di essere stati scelti da persone che ben conoscono la felicità per una vita che sta per arrivare e il dolore per un’esistenza che sta per finire. Chissà se dopo l’errore della legge 40, che pone ostacoli a chi vorrebbe un figlio in ogni caso e comunque, rispetteranno la volontà di chi non vuole essere tenuto in vita, in ogni caso e comunque. Come Piergiorgio Welby che da anni chiedeva di non essere più costretto a vivere una vita che non riteneva più sua. Una scelta simile a quella di Eluana Englaro, da sedici anni in coma irreversibile e tenuta in vita biologica solo da un sondino che la nutre e la idrata. Chissà se i signori che discutono in questi giorni del testamento biologico indosseranno per una volta i panni, non dei politici e dei giuristi, ma dei malati e dei loro parenti. Quelli di Piergiorgio e di Eluana. O di Mina Welby e di Beppino Englaro. E magari di quei medici chiamati ad assistere fino all’ultimo i malati e le loro famiglie. Chissà se leggeranno i tormenti di Mario Riccio, convinto di quello che stava per fare, ma consapevole che la legge, lo Stato non lo avrebbero difeso, non lo avrebbero sostenuto. Chissà se capiranno perché, prima di salire in casa Welby, quel medico anestesista girava per Roma col desiderio di uscire dall’ombra e condividere con gli altri le sue paure, i suoi dubbi. Come ha fatto nel suo «Storia di una morta opportuna», scritto insieme a Gianna Milano, che abbiamo anticipato ieri su questo giornale e che uscirà nei prossimi giorni per Sironi Editore. Chissà se quei senatori continueranno a ripetere l’eterno gioco dello scaricabarile, dell’ipocrisia, del si fa ma non si dice. Chissà se sulle questioni personali, saranno i cittadini a decidere, anziché i "valori assoluti" che tanto piacciono alla Chiesa e ai suoi sostenitori. Chissà se un giorno verremo trattati da persone in grado intendere e di volere. E dunque di scegliere. Chissà se riusciremo, prima o poi, a diventare un Paese adulto.

Le ultime ore di Welby

da L'Unità del 2 ottobre 2008

di Mario Riccio e Gianna Milano


Il testo che riportiamo è tratto da «Storia di una morta opportuna», il diario del medico, Mario Riccio, che ha seguito Welby negli ultimi momenti di vita. Il diario, scritto insieme a Gianna Milano, è pubblicato da Sironi editore e sarà in libreria dal 10 ottobre.
Mercoledì 20 Dicembre E’ arrivato il giorno scelto da Welby. L’appuntamento al mattino è come sempre alla sede del Partito radicale. Arrivando, avverto una certa tensione. Chiedo a Cappato a che ora andremo da Welby. Non prima di sera, così ha deciso lui: vuole vedere la trasmissione su Rai1 "dei pacchi". (...) Mantenere la riservatezza si fa difficile: l’Unità scrive che sul caso Welby è giallo, che un anestesista di Cremona, membro della Consulta di Bioetica, è arrivato a Roma per una consulenza. Guardo la rassegna stampa del mattino: è incredibile l’approssimazione che regna su terminologia e definizioni. Si fa confusione fra eutanasia, sospensione delle cure, testamento di vita, accanimento terapeutico. Mi domando che succederà da domani se le cose andranno come si spera. Forse la confusione non è del tutto casuale e fa gioco a chi non vuole chiarezza su questi temi. Chissà se l’impegno di Welby servirà a sgombrare il campo da tanti equivoci. E io, mi chiedo, contribuirò a cambiare qualcosa rispondendo alla sua richiesta? Di nuovo mi incontro con Pannella e Cappato, e con i due medici belgi, che Welby ha conosciuto via internet, arrivati in tarda mattinata. Parlano solo francese, che io non parlo, ma capiscono l’inglese. Cappato fa da interprete. Hanno una valigia nella quale, dicono, c’è il necessario per portare a termine un atto eutanasico secondo il protocollo belga. Si mostrano convinti che questo sarebbe il modo giusto di agire, ma a me sembra un atteggiamento un po’ ideologico, che non valuta adeguatamente né la condizione di Welby, né il contesto in cui si trova. Del resto, mi spiegano che se dovessero procedere (in Italia l’eutanasia è contro la legge) non corrono il rischio di estradizione dal Belgio. Non è prevista per questo reato. Perciò non vedono problemi, salvo l’inconveniente che non potranno più venire in Italia. Io, invece, non sono disponibile a essere coinvolto in decisioni che conducano a una eutanasia: sul piano personale, ciò mi esporrebbe a una incriminazione per omicidio volontario e all’immediata sospensione dall’Albo dell’Ordine dei medici, che verosimilmente si trasformerebbe in radiazione. Insomma, perderei il lavoro e rischierei quindici anni di galera. Sul piano pubblico, poi, una scelta eutanasica significherebbe rinnegare quello in cui credo e che voglio affermare: e cioè il diritto di Welby e con lui di tutti i malati - al rifiuto di una terapia per lui intollerabile. L’eutanasia non è l’unica strada percorribile per risolvere una situazione come quella di Piergiorgio: ripeto a Pannella e Cappato che, anzi, sarebbe il fallimento della nostra tesi, ossia che è possibile ottenere la sospensione della terapia anche se salvavita, in un percorso di piena legalità, per un paziente cosciente e in grado di esprimere le sue volontà. Una volta stabilito legalmente questo precedente, sarà possibile compiere il passo successivo, e cioè quello della legge sul testamento biologico: rendere cioè valida la volontà dei singoli rispetto a determinati trattamenti medici, esprimendola anticipatamente da coscienti per il caso in cui non lo si fosse più. La battaglia che abbiamo condotto fin qui poggia su basi ben diverse da quelle eutanasiche. Se ne convincono infine sia Pannella sia Cappato. I medici belgi invece non capiscono la mia perplessità. Hanno portato il barbiturico da prendere per bocca (un potente sedativo ad azione rapida): la dose è tale da provocare arresto cardiaco e respiratorio, cioè eutanasia. In più hanno il curaro (un farmaco che blocca l’attività muscolare), che potrebbero somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sono disorientato. Capisco la preoccupazione che fallisca il mio tentativo di sedare Welby attraverso la vena femorale, ma c’è una netta differenza tra il mio percorso e la loro eutanasia. Ho difficoltà a seguire il dialogo perché devo aspettare che Cappato mi traduca, anche se spesso il senso lo capisco e rispondo in inglese. Loro mi chiedono perché non possono sedare Welby con il barbiturico per bocca dal momento che può deglutire. Rispondo che il tipo di farmaco, e soprattutto la dose, comporterebbero di per sé il reato di omicidio volontario, dato che in Italia l’eutanasia non è prevista nemmeno come reato! Siccome sarà certamente eseguita l’autopsia, il riscontro di una significativa quantità di barbiturico nello stomaco, oltre che nel sangue, anche se non assorbita del tutto, sarebbe la prova di una morte da noi volontariamente e direttamente provocata. A questo punto, dico, se si deciderà di imboccare una strada simile, io dovrò trarne le conseguenze e tornare subito a casa: infatti avevo deciso di venire a Roma spinto da profonda solidarietà, umana e professionale, verso Welby ma anche sulla base di altri principi. Ora temo che venendo meno la battaglia per il diritto al consenso e al rifiuto delle terapie, anche il caso Welby sarà strumentalizzato. Verrebbe preso a riprova che il rifiuto delle terapie non solo non è un diritto perfetto, ma nemmeno un’opzione tecnicamente praticabile; e che l’unica alternativa alla stoica sopportazione di Welby è l’illegale scelta dell’eutanasia. Insomma, in caso di atto eutanasico, i presenti - non io, che me ne andrei prima, ma i familiari, Cappato e Pannella - correrebbero rischi penali rilevanti; non i medici belgi che tornerebbero a casa loro il giorno dopo. Non so se questi comprendono il mio ragionamento, tanto sono convinti della loro idea, o se fingono. Pannella rompe la tensione che si è creata, dicendo che la decisione finale è di Welby. Se opterà per la soluzione eutanasica, la si praticherà solo dopo che io avrò lasciato Roma con un lasso di tempo sufficiente per tenermi fuori da ogni inchiesta. Ritiene che sarebbe una scelta di tipo politico, ma sulla quale vuole ancora riflettere e di cui intende assumersi in prima persona la responsabilità politica, se e solo se sarà il volere di Welby. Mi sembra di capire che Pannella e Cappato preferirebbero la mia soluzione; dato però che la riuscita dipende dalla mia capacità di reperire la vena femorale, vogliono anche tenere aperta l’opzione belga. La tensione cala. I belgi mi vorrebbero mostrare il contenuto della valigetta, ma dico loro che preferisco di no e che ne rimarrò lontano come il diavolo dall’acqua santa. Anche se, aggiungo scherzando, non so chi sia il diavolo e chi l’acqua santa. Tuttavia avverto il peso della responsabilità: tutto dipende dalla mia abilità nel trovare la vene femorale per la redazione. Mi consolo pensando che Welby ha ben chiara l’importanza di non optare per la soluzione eutanasica: l’ho capito ieri quando ne ho parlato con lui. (...) Welby ci aspetta da lui tra le 20.30 e le 21, sempre per via della trasmissione "dei pacchi". Adesso sono quasi le 19. Tutti liberi per un’ora, poi appuntamento qui in sede. Decido di concedermi una passeggiata, anche se sento di essere molto stanco. Mentre cammino tra la folla delle compere natalizie, ritorna quella sensazione di estraneità: come se la mia fosse una presenza furtiva. Tuttavia sono convinto che aiutare Welby aiuterà anche la coscienza civile e sociale di questo Paese che sembra bloccato, irrigidito. Un Paese dove i temi "eticamente sensibili" sono più che altro nervi scoperti, che creano inesorabilmente fronti opposti: laico e religioso. Difficile riuscire a trovare quei valori condivisi di cui leggo nei testi di bioetica di Engelhardt, che è medico, filosofo e credente. (...) Arriviamo rapidamente ed entriamo senza problemi. Mio zio mi messaggia che Veronesi ha dichiarato che un medico coscienzioso farebbe quello che Welby chiede. Penso che da adesso devo concentrarmi solo su quello che so che devo e voglio fare. Il tempo della riflessione è finito. Ora è il tempo dell’azione. (...) In casa il clima è il solito: tranquillo e cordiale. Come l’altro giorno siamo accolti da Mina con un sereno saluto. Cappato e Pannella entrano subito nella camera di Welby. Io rimango un po’ a parlare con Mina e Carla. Non si accenna a quello che deve succedere stasera, ma si chiacchiera d’altro. Mi chiedono se c’erano giornalisti sotto casa. Rispondo di no e penso che almeno questa preoccupazione è superata. Ormai sono dentro casa, di certo i giornalisti non potranno entrare con la forza. Mi fermo un attimo a riflettere e mi dico che non mi sto concentrando abbastanza. Ora basta parlare. Controllo tutto il materiale necessario che peraltro avevo già controllato lunedì. Penso: se stai ricontrollando vuol dire che sei nervoso. Se sei nervoso non riuscirai a prendere questa benedetta femorale. Non è vero, l’importante è non farsi prendere dalla paura di cose non ancora successe. Non voglio fare profezie che poi si avverano. Ho tutto quello che serve. Entro da Welby. Lo saluto, mi saluta. Gli chiedo se il parere del Css o altro ha cambiato qualcosa nella sua determinazione. La risposta è negativa. Gli domando se intanto posso iniziare a inserire la cannula nella vena femorale, come eravamo d’accordo. Inizio con l’anestesia locale. Sono contento perché vedo che non gli ho fatto male. Gli spiego che devo aspettare qualche minuto perché faccia effetto. Annuisce. Mi preparo per l’operazione. Metto i guanti, stendo un telo sterile, preparo il catetere. Il letto è molto basso, tanto che devo mettermi in ginocchio, e sulla destra, da dove intendo lavorare, non c’è molto spazio tra letto e parete. Nella stanza con me c’è solo Mina che mi aiuta e mi porge quello che le chiedo. Ho già preparato la flebo con il deflussore. (...) Chiedo a Welby se è pronto e se posso iniziare a sedarlo. Avevamo già concordato lunedì che l’inizio della sedazione coincidesse con il distacco dal ventilatore. Né prima né dopo. In modo che potesse stare il più possibile con i familiari e gli amici ma non dovesse avvertire da cosciente la fase dell’arresto respiratorio. Lo avevo già rassicurato che l’induzione completa della sedazione sarebbe durata non più di 90-120 secondi e che la sua autonomia dal respiratore senza affanno era superiore a questo tempo. Sapevo che con la moglie Mina aveva già fatto alcune prove di breve durata: avevano staccato il respiratore per vedere quanto in fretta scendessero i valori. In 10-15 minuti calavano rapidamente e lui andava in affanno. Sedandolo, gli avrei ridotto l’affanno e quindi allungato i tempi; avrebbe potuto chiudere gli occhi guardando le persone a lui care e mantenendo una espirazione residua in modo non doloroso.Lui chiede di iniziare e io parto con il primo sedativo (mmidazolam) e con la infusione del secondo (propofol), una dose sola in siringa che poi utilizzerò per mantenere la sedazione. Quando comincio avverto Welby, e lui lo vede. Come gli ho spiegato entro pochi secondi gli verrà sonno. Lui risponde annuendo. Lo saluto: «Ciao, Piergiorgio, ora riposerai». Guarda con gli occhi verso l’alto. Da questo momento non dirò più niente, come se lo lasciassi solo con i suoi familiari.