giovedì, settembre 25, 2008

Su Pinelli, "la lobby" inesistente e le semplificazioni manichee


mercoledì, 24 settembre 2008

Pubblico di seguito due articoli scritti assieme al mio amico Sergio Sinigaglia. Entrambi si riferiscono a "La piuma e la montagna", libro che abbiamo curato e di prossima pubblicazione per Manifestolibri. Il primo articolo è quello che dà il titolo a questo post, e riscontra alcuni pezzi usciti in questi giorni sulla vicenda Pinelli-Calabresi-Sofri. Il secondo è una precisazione che è stata pubblicata oggi su Il Manifesto, dove ieri è apparsa l'anticipazione dell'intervista a Licia Pinelli che troverete ne "La piuma e la montagna".
Francesco Barilli

In questi giorni si è acceso il dibattito sulla vicenda della morte di Giuseppe Pinelli a partire da un articolo di Adriano Sofri sul Foglio, dove, tra l'altro, si fa riferimento all’intervista rilasciata da Licia Pinelli nel libro “La piuma e la montagna”, da noi curato e di prossima uscita con manifestolibri. Quell’intervista, prima ancora della sua pubblicazione, corre il rischio di trasformarsi nella miccia che, nel riaccendere il dibattito su quegli anni, porti di nuovo all'affermazione della logica del “muro contro muro”, riproponendo dinamiche appartenenti ad una fase politica ormai ben lontana. Capiamo che la delicatezza del tema (più corretto sarebbe parlare di temi, fra loro connessi, da Piazza Fontana alla condanna di Sofri, passando per le morti di Pinelli e Calabresi) possa portare le persone coinvolte a reagire, ogni volta che l’argomento viene ripreso, in modo passionale e viscerale, ma crediamo che tutto questo vada contro la necessaria riflessione su quei tempi, stando ben attenti a non ricreare gli schieramenti di allora. Ma andiamo con ordine, partendo proprio dall'intervista a D’Ambrosio di sabato scorso [nota: su "Il Riformista"]. A molte affermazioni ha già risposto lucidamente Adriano Sofri il 22 settembre 2008, sempre su questo giornale, e ci limitiamo a qualche sottolineatura. E’ inesatto affermare che la signora Pinelli sarebbe tornata a sostenere certe tesi “dopo che Sofri ha riaperto il caso”. L’intervista a Licia è del gennaio 2008, per cui la consecuzione logica e temporale con cui si sono riaccesi i riflettori sulla vicenda è ben diversa. Sull’indignazione di D’Ambrosio di fronte alla formula del “malore attivo”, che lui sostiene di non avere mai utilizzato, diremo che se Sofri, nel titolo del suo libro del 96 che raccoglieva e commentava la sentenza del 75, ha parlato di “malore attivo” non ha detto una falsità. Ha solo semplificato e sintetizzato quella che nel dispositivo fu definita l’ipotesi più verosimile per la caduta di Pinelli, una semplificazione aderente ai concetti che in quella sede venivano espressi (dove si parla di “precipitazione per improvvisa alterazione del centro di equilibrio”). Irrita maggiormente, nell’intervista a D’Ambrosio, l’adombrata esistenza di una “lobby per Pinelli”. Non solo, naturalmente non esiste nessuna lobby, ma Francesco Barilli, che ha curato l'intervista alla Pinelli, ha 42 anni, e non ha vissuto direttamente quei tragici fatti; conosce da tempo Licia e ha seguito il caso del marito per passione civile. Da quasi quarant’anni la signora Pinelli sostiene che su tutti quelli che collaborarono a quel fermo di polizia terminato tragicamente grava una responsabilità, morale se non penale, nella morte del marito. Tutto questo senza aver mai voluto ricondurre il fatto ad una sorta di guerra “Pinelli contro Calabresi”. Proprio quella semplificazione ha già causato abbastanza lutti e dolori. La morte di Giuseppe Pinelli, riprendendo ancora concetti che Francesco espose al figlio del commissario in una lettera aperta dello scorso luglio, non la si può cristallizzare nell’istante della precipitazione. La vicenda comincia prima di quell’ultimo interrogatorio e finisce dopo. Comincia col suddetto fermo di polizia (svoltosi in termini e modi contrari alla legge e questo lo conferma pure la sentenza, come già ricordato da Sofri). Termina con una campagna diffamatoria verso la vittima, di cui si volle sostenere il suicidio e il coinvolgimento nella strage di piazza Fontana. Queste due menzogne, acclarate anche in sede giudiziaria, furono portate avanti nell’immediatezza dei fatti e per diverso tempo in seguito, se non col consenso almeno con l’acquiescenza di tutti quelli che parteciparono a diverso titolo agli interrogatori di Pinelli, nessuno escluso. Non è nostra volontà tentare una sgradevole graduatoria d’importanza o di gravità fra la campagna denigratoria subita da Pinelli e quella che immediatamente dopo subì Luigi Calabresi (dal tragico esito e giustamente condannata), ma va sottolineato che a quella contro il commissario parteciparono movimenti, intellettuali e artisti, a quella contro il ferroviere anarchico partecipò lo Stato. Forse per questo è stata rimossa dalla memoria collettiva. Concludiamo rilevando che scopo del nostro libro, come argomentiamo nella presentazione, è quello di fare uscire dall'oblio vicende ormai rimosse, dimenticate, evitando di contrapporre morti a morti, ma valorizzando la scelta di chi allora, come tanti altri, optò per l'impegno pubblico, pagando con la vita. Con la “La piuma e la montagna” abbiamo voluto evidenziare come quel decennio non possa essere riduttivamente definito “anni di piombo” perché l'Italia di allora era anche un Paese attraversato da grandi movimenti di massa che lottavano per diritti sociali oggi sempre più messi in discussione. Il nostro libro, attraverso le testimonianze dei familiari e degli amici di undici uccisi per mano delle forze dell'ordine e dei neofascisti, parla di quell'Italia.


Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia






Perché “La piuma e la montagna” Nel ringraziare il Manifesto per l’attenzione e lo spazio concessi all’intervista a Licia Pinelli, vorremmo fornire alcune precisazioni, sulle quali concorda la signora Pinelli, che ci ha telefonato. Ci sembra che l’occhiello e il sottotitolo scelti per l’articolo taglino con l'accetta concetti in realtà diversi o comunque ben articolati. Infatti Licia non ha detto “Pino, vittima di Calabresi”, né “Mario Calabresi ha scritto un libro che, per difendere la memoria del padre, offende la nostra”. Capiamo che un sottotitolo o un occhiello debbano attirare l’attenzione del lettore e quindi a volte la sintesi possa contrastare con la complessità dell'argomentazione. Ma al di là di queste osservazioni, quello che ci preme è far sì che il dibattito e la riflessione attorno al nostro libro evitino di imboccare il vicolo cieco della contrapposizione frontale, riproponendo gli stessi schieramenti di allora, cosa grottesca e inutile. “La piuma e la montagna” nasce dall'esigenza, lo spieghiamo diffusamente nella nostra presentazione, da un lato di valorizzare chi allora, come tanti, scelse l'impegno politico pubblico, con passione e altruismo, e pagò con la vita questa scelta. Dall'altro evidenziare come continuare ad etichettare quel decennio come “anni di piombo” sia riduttivo e sbagliato, perché in quel periodo il nostro Paese fu attraversato da grandi fermenti sociali, dei quali parlano diffusamente i familiari e gli amici da noi intervistati. Ne emerge un'Italia, inevitabilmente molto lontana, dove migliaia e migliaia di giovani lottavano per ideali, oggi sempre più calpestati. Ecco perché pensiamo che la discussione che inevitabilmente sta nascendo sul nostro lavoro debba evitare di riproporre logiche e semplificazioni dannose quanto inutili, anche nel rispetto di chi, faticosamente, ha deciso di raccontare di nuovo fatti così dolorosi che hanno cambiato completamente la loro vita.


Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia

Calabresi: Pannella difende Sofri

da Corriere della Sera del 15 settembre 2008

di Alessandra Arachi

Questa volta il suo scritto è stato ben più breve, consono al titolo, «Piccola posta», della sua rubrica sul Foglio. Ma non certo meno incisivo. Ieri Adriano Sofri sul giornale di Giuliano Ferrara è tornato a parlare dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. E non ha esitato: «Salvo che si usi il termine terrorismo come un generico insulto, l’omicidio di Calabresi non può passare, nella versione che ne hanno dato imputazioni, processi e sentenze, per un atto di terrorismo». Punto.

Non molla il colpo l’uomo che proprio per l’omicidio di quel commissario di polizia milanese sta scontando ventidue anni di carcere. Fuori il dibattito ferve: fu un atto di terrorismo l’omicidio del giovane Calabresi? Del resto questa volta è stato lui, Sofri, a scatenarlo. E sono in tanti adesso che vanno contro le sue parole, le sue convinzioni. Tanti da sinistra, anche. Non Marco Pannella.

Il leader radicale ieri pomeriggio ha dedicato quasi un’ora proprio alla vicenda Sofri-Calabresi, la metà del tempo della sua conversazione settimanale con Massimo Bordin, lì nella diretta dalla radio del partito. «Sono molto grato ad Adriano...», il suo esordio prima di tagliar corto sulla domanda di base: fu terrorismo? Marco Pannella è serafico, si rifà al passato. Al suo: «Ricordo che quando giunse la notizia del mandato di arresto per Sofri, vent’anni fa, scrissi: "Non dobbiamo aver paura di nulla nella storia di Adriano. Poiché è vero che il potere e il terrorismo hanno avuto il loro rapporto, ma questo non c’entra nulla con la storia di Sofri. Con questa storia. Diamo un esempio e diciamo noi cosa sappiamo di quella storia».

Vent’anni dopo di quella storia si sa soltanto quello che i giudici hanno scritto, con grande chiarezza: fu Sofri il mandante dell’omicidio. E’ lui che sta scontando la pena. E di questo Pannella non si dà pace. «Io voglio sapere sé per la nostra cultura, la nostra civiltà, il diritto positivo, per uno come lui è ancora giustificata la detenzione. L’ho chiesto in tutti i modi, anche alla Corte Costituzionale. Mai avuto risposta. Eppure in questi anni Adriano ha dimostrato come ha chiuso Lotta continua, come ha vissuto in galera, come tutto questo...» .

Le ultime considerazioni sono tutte per l’anarchico Pino Pinelli. E’ Massimo Bordin che lancia a Pannella la provocazione: «Il caso Pinelli è una vergogna che lo stato italiano deve ancora sanare, mentre siede in Parlamento il giudice che chiuse il suo caso dicendo che in questura Pinelli ebbe un "malore attivo"....». Rilancia Pannella, sarcastico: «E’ il fascismo dell’antifascismo».

martedì, settembre 23, 2008

Strano volo di un anarchico

da Il Manifesto del 23 settembre 2008
di Francesco Barilli, Sergio Sinigaglia
Licia è una donna per nulla incline a sentimenti di vendetta, che ancora oggi chiede giustizia rifuggendo dai sensazionalismi e dal clamore mediatico. Vive ancora oggi a Milano e l’intervista si svolge a casa sua, il 14 gennaio 2008. Volevamo chiederti qualcosa su quegli anni, sulla militanza di Pino. E sulla vostra vita a Milano, anche paragonandola con il contesto attuale. Sono situazioni totalmente diverse, quasi impossibili da confrontare. Un tempo c’era un clima molto più aperto, mentre oggi si ha un’impressione di estraneità, di distacco fra le persone, persino fra chi abita nello stesso condominio. Già un dialogo, un livello minimo di conoscenza, è difficile; l’idea di darsi una mano è addirittura impossibile. A questo discorso si collega pure la militanza di Pino. Alcuni mesi prima di piazza Fontana, c’erano stati altri attentati (in diverse città italiane), e già in questi casi erano stati incolpati gli anarchici. Lui si era attivato subito dopo quelle prime accuse, cercando di portare aiuto. Ricordo gli scioperi della fame, lui che andava a portare da bere a chi era impegnato in iniziative di solidarietà. Spiegare cos’era Milano e la nostra vita è davvero difficile. Quel che voglio farvi capire è che se oggi i rapporti interpersonali si mantengono al minimo essenziale, all’epoca era diverso. All’epoca io battevo a macchina le tesi per diversi studenti, quindi casa nostra era sempre aperta e piena di ragazzi, ricordo la sensazione di avere sempre gente da noi. Quegli studenti venivano per le loro tesi, quindi anche in quel caso in teoria ci si poteva limitare a un rapporto «distaccato»; invece si finiva col parlare di tutto, anche e soprattutto di politica, perché pure quella faceva parte della vita, e il confronto era normale. È vero, erano tempi di conflittualità molto dura, ma c’era un atteggiamento aperto verso l’idea stessa dì politica. Pino, poi, figuriamoci... Non gli pareva vero di poter intavolare una discussione su quegli argomenti; appena entrava in casa e trovava uno di quei ragazzi gli diceva subito «Io sono un anarchico. Voi come la pensate?». Finiva spesso che io facevo da mangiare per tutti e con noi si fermavano anche quegli studenti Era una vita allegra, malgrado le difficoltà, le bambine piccole, il suo stipendio bassissimo. Ecco, questo mi dispiace: mi chiedevate di Milano come città, e io oggi la ricordo buia, scura, quando ci penso la vedo d’inverno, il cielo coperto come oggi. Probabilmente perché il ricordo di Milano di quell’epoca lo associo e si sovrappone proprio a quei giorni di dicembre 1969. (...)
Dobbiamo chiederti «del fatto». Tu come e quando ne vieni a conoscenza?
Dobbiamo fare un passo indietro, prima di parlare della notte del 15 dicembre. Dobbiamo partire dal 12, dal giorno di piazza Fontana. Pino viene invitato in questura, non viene arrestato. Addirittura segue l’invito accodandosi all’auto della polizia col suo motorino, senza nessuna coercizione. Nessuno mi telefona per dirmi che Pino è stato chiamato in questura, lo vengo a sapere qualche ora dopo, quando la polizia viene a casa nostra per una perquisizione. In quel momento io non solo non sapevo che mio marito era in questura, ma non ero a conoscenza nemmeno della bomba alla Banca dell’agricoltura: semplicemente perché avevo il televisore rotto e non avevo sentito i notiziari; per cui anche la perquisizione mi capita come una cosa strana, scioccante... Ricordo i poliziotti che rovistavano per casa, probabilmente alla ricerca di qualcosa di compromettente, e sono finiti con lo scartabellare fra le tesi (i ragazzi spesso me ne lasciavano una copia per ricordo, una volta finita). Fra questi lavori ce n’era uno che attirò l’attenzione dei poliziotti. Adesso non saprei dirti con sicurezza di cosa si trattasse: forse era sulla rivoluzione francese, oppure sull’epoca in cui c’era stata una rivolta contro lo Stato Pontificio nelle Marche, qualcosa del genere... Sta di fatto che gli agenti all’inizio pensavano di aver trovato chissà quale documento rivoluzionario! Spiegai che era una tesi, che io le battevo a macchina per lavoro, e uno di loro mi chiese «ma lei lavora per hobby o per bisogno?». Credo d’averlo guardato con ben poco rispetto: a quell’epoca, coi pochi soldi che giravano, uno lavorava proprio per hobby!... Ecco, ho questo ricordo della perquisizione: io che continuo a brontolare mentre i poliziotti giravano per casa. Poi, ancora più tardi, arrivò la telefonata di Pino: mi disse solo che era in questura, c’era tanta gente e avrebbe tardato. Anche se era un momento drammatico, non fu una telefonata allarmante, ma rassicurante.
Tu riuscisti a vederlo, in quei giorni?
No, però ci riuscì mia suocera il giorno dopo, il 13 o forse il 14. Dopo la perquisizione, o dopo la telefonata di mio marito, l’avevo chiamata, le avevo spiegato la situazione. Tra l’altro proprio il 12 Pino aveva appena ritirato la tredicesima, per cui lei andò di persona in questura a farsela consegnare. Era anche un modo per vederlo ed essere rassicurate. Licia, scusa la domanda, ma con tutto quello che è accaduto, negli anni successivi ti è mai venuto di pensare che la sua attività politica era la causa di quanto vi era successo? Hai mai pensato (irrazionalmente, magari) a una sorta di ‘rimprovero’ verso tuo marito? No. Esiste il libero arbitrio... Capisco quel che volete dire, ma direi di no, non ho mai avuto quel pensiero. Vedi, per spiegarti bene questo aspetto devo fare un passo indietro nel tempo. C’è stato un momento, prima della militanza di Pino (prima della «militanza attiva», intendo, visto che liti comunque era ed è sempre stato anarchico), in cui avevamo le due bambine piccole, io avevo mille lavoretti, le tesi, eccetera, e Pino sembrava dibattersi in quella casa che sembrava così stretta. Io allora lo incitavo a trovarsi degli interessi al di fuori della vita familiare. Gli dissi «perché non vai dagli esperantisti , perché non riallacci quei rapporti?», visto che noi ci eravamo conosciuti nel’52, proprio a scuola di esperanto, e ricordavamo quell’ambiente come una bella esperienza. Lui accolse il mio consiglio... Solo che, invece di andare dagli amici di esperanto, andò a trovare gli anarchici del circolo. Scelse la sua passione più vera, la politica: come potrei rimproverarlo, anche irrazionalmente? No, non posso parlare di sue colpe, né di miei ripensamenti sulle sue scelte.
La notte fra il 15 e il 16 dicembre, che Pino è precipitato dalla finestra lo vieni a sapere dal giornalisti...
Sì, vengono a bussare da me verso l’una. Io, le bambine e mia suocera eravamo già a letto. Te lo dico perché in seguito ci fu persino chi disse che dormivo con un amante. Non è una cosa poi così strana: se devi infangare una vittima è meglio infangare anche i suoi parenti... Comunque sono andata ad aprire e ho trovato questi due giornalisti. Sembravano affannati, dopo 4 piani di scale senza ascensore, e soprattutto davano l’impressione di farsi forza l’un altro, cercavano le parole per dirmelo: «sembra che suo marito sia caduto da una finestra». Gli chiusi la porta in faccia e mi precipitai a telefonare alla questura. Chiesi di Calabresi e me lo passarono. Dissi che c’erano due giornalisti alla mia porta, - gli riferii cosa m’avevano detto; chiesi perché non m’avevano avvertito. «Sa; signora, noi abbiamo molto da fare»; mi rispose... Non so se gli ho detto ancora qualcosa, sicuramente. gli ho sbattuto la cornetta in faccia. Dalla questura non seppi nulla: mentre Pino era all’ospedale, invece di chiamarci loro avevano indetto la famosa conferenza stampa... Mia suocera si vestì e si precipitò all’ospedale, al Fatebenefratelli. Io dovevo aspettare, c’erano le bambine da guardare, non avevo altra scelta. A tanti anni di distanza i ricordi sono confusi, ma rammento bene mia suocera, alla sua età e senza una lira in tasca, precipitarsi in piena notte all’ospedale, dove nessuno le dice nulla, dove non le fanno. nemmeno vedere il figlio. Mi telefonò dall’ospedale, dicendomi che c’era un sacco di polizia e non la facevano passare. Poi mi disse «non so cosa sta succedendo, ma temo che...». Aveva capito che era morto perché aveva visto un inserviente tirare fuori i moduli.
La tua reazione quale fu?
Dopo un po’ ero riuscita a far portare via 1e bambine; che si fecero svegliare e vestire senza dire nulla. Sempre quella notte, o poco più tardi, arrivarono a casa mia Camilla Cederna, Stajano, un dottore dell’università cattolica per cui avevo lavorato (che sulla vicenda in seguito scrisse un lungo articolo sull’Europeo), e qualcun altro ancora. Ad un certo punto non ce la facevo più a stare in quella stanza, volevo andarmene da sola in camera. Mi venne dietro mia suocera. Mi disse: «Vedrà, domani daranno a lui la colpa di tutto». «Va bene», risposi, «ma ci siamo anche noi, con cui dovranno fare i conti». Il giorno successivo, in tribunale, ricordo i capannelli di gente... C’era davvero tantissima gente, la strage di piazza Fontana e la morte di Pino avevano destato uno scalpore enorme. C’erano dei giovani avvocati, che chiedevano (loro a me...) cosa si poteva fare. «Denunciare tutti quelli che erano in quella stanza», rispondevo. E da lì comincia tutta la storia delle varie istruttorie, che è finita come sai...
Licia, tu hai letto il libro di Mario Calabresi (figlio del commissario), «Spingendo la notte più in là?
No. Non voglio leggerlo, non m’interessa. Non potrei mai riconoscermi in quel testo. A volte penso che c’è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto. Ma così, con tutto quello che è successo, no. C’è una distinzione netta, fra noi. Io ho avuto la netta impressione che Calabresi eviti di affrontare la storia di Pino, se non di striscio, e questo mi ha dato fastidio: capisco l’esigenza di difendere la memoria deilpadre; però penso che con quell’operazione si neghino almeno due fatti: in primo luogo che le due vicende, piaccia o meno,. sono strettamente collegate; in secondo luogo che, indipendentemente dalle implicazioni sul fatto in sé, sul commissario gravano comunque responsabilità «sul dopo», sulle menzogne che raccontarono, il «Pinelli gravemente indiziato»... Direi non solo sul dopo: ricordiamo che Calabresi era titolare dell’ufficio da cui cadde mio marito. Dunque, indipendentemente dalla sua presenza, la responsabilità, anche diretta, c’era. Poi viene il resto, le menzogne su Pino gravemente indiziato eccetera... Tornando sulla presenza o meno di Calabresi nella stanza, non voglio riaprire polemiche, ma mi sembra giusto ricordare che uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti, sostenne di non aver visto Calabresi uscire dalla sua stanza prima che Pino cadesse, e successivamente confermò sempre la stessa versione, non solo non aveva visto Calabresi uscire dalla stanza; ma affermò pure che (considerata la posizione che occupava nel corridoio) avrebbe senz’altro notato sé il commissario fosse uscito. Quella dichiarazione la sostenne di fronte alla magistratura, ma non fu mai chiamato a deporre nuovamente davanti a D’Ambrosio, mi disse, nel corso dell’istruttoria decisiva. Tornando alle menzogne successive alla morte di Pino, alla sentenza D’Ambrosio almeno una cosa bisogna riconoscerla: esclude che Pino si sia suicidato, quindi conferma che tutti quelli che erano nella stanza e dichiararono il contrario mentirono. I 4 poliziotti e il carabiniere presenti hanno avuto conseguenze? Che io sappia no, la storia si è chiusa così. Anzi, per quanto ho saputo alcuni, se non tutti, sono stati promossi. Quando succede un fatto del genere, che vede coinvolti elementi delle forze dell’ordine, alla fine oltre a non arrivare alla verità si finisce con le promozioni. Lo stiamo vedendo anche oggi, per i fatti di Genova.
Negli anni successivi, hai mai avuto altre notizie, anche da fonti «strane» (voci, telefonate del soliti «bene informati») che ti facessero pensare di poter essere vicina a una nuova svolta?
Una volta mi arrivò una lettera anonima di questo tipo. La consegnai all’avvocato Carlo Smuraglia, ma non ne facemmo nulla, era una cosa totalmente delirante. Sono passati 38 anni da quei giorni, ma ne sono passati anche 25 da quando,hai raccontato la tua storia a Piero Scaramucci in «Una storia quasi soltanto mia». È cambiato qualcosa nella tua opinione circa lo svolgimento dei fatti? Quello che penso sia successo lo raccontai innanzitutto al magistrato e te lo confermo ora. È difficile da spiegare, ma si tratta di una convinzione talmente radicata in me che la sento come si trattasse di un avvenimento accaduto con me presente; se ci penso è come se io fossi stata li, in quella stanza. Quando sono stata interrogata da Bianchi d’Espinosa (procuratore generale a Milano che poi assegnò il fascicolo a D’Ambrosio) mi chiese proprio quale opinione mi fossi fatta sull’accaduto, e la stessa domanda in seguito me la pose lo stesso D’Ambrosio. Risposi molto semplicemente, come rispondo a voi ora: l’hanno picchiato, creduto morto e buttato giù: oppure l’hanno colpito al termine dell’interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure che dei 5 agenti solo uno (il carabiniere) si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta ancora oggi. Alla tesi del suicidio, poi, non ho mai creduto. Pino non l’avrebbe mai fatto, era un’eventualità che non ammetteva. Una volta avevamo parlato di una ragazza che conoscevamo, che aveva tentato il suicidio, e lui era stravolto. Non era una scelta che concepiva, amava la vita, non l’avrebbe mai fatto.
NOTE Quella che riportiamo in questa pagina è l’intervista che apre il libro «La piuma e la montagna», di Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia, di prossima uscita per la Manifestolibri (introduzione di Giovanni De Luna, postfazione di Haidi Giuliani). Il volume raccoglie una serie di interviste a parenti delle vittime della violenza politica. Ne anticipiamo la parte in cui si ricostruisce la vicenda di Pino Pinelli perché in questi giorni, a partire da un articolo di Adriano Sofri sul «Foglio», si è riaperto un dibattito anche aspro sul concetto di «terrorismo politico» e sugli anni ‘70 in Italia. Un confronto in qualche modo provocato dal libro di Mario Calabresi sul padre («Spingendo la notte più in là») e dalla giornata di commemorazione delle vittime del terrorismo nel mondo organizzata dall’Onu, in cui è intervenuto lo stesso Mario Calabresi. Adriano Sofri - nel suo articolo sul Foglio - ha respinto l’equazione «delitto Calabresi-inizio del terrorismo in Italia» e ha poi ricordato le amnesie di stato su Pino Pinelli. Di questo parla Licia in quest’intervista.

lunedì, settembre 22, 2008

Altro che lobby, di Pinelli parlo solo io. Sulla sua morte una sentenza paradossale

da Il Riformista del 22 settembre 2008,
di Adriano Sofri
Gentile Gerardo D’Ambrosio, pur così spazientito, consideri le mie obiezioni alla sua intervista di sabato al Riformista. Intanto lei è stato fuorviato: Licia Pinelli ha ripetuto i suoi pensieri non dopo che io ho «riaperto» il caso, bensì in un colloquio destinato a essere pubblicato in libro, dunque avvenuto parecchi mesi fa. Le mie osservazioni sulla sua sentenza del 1975 sono esposte, finora, nel volume da me curato che ne pubblicò il testo integrale, col titolo "Il malore attivo dell’anarchico Pinelli", Sellerio 1996. Le mie ulteriori osservazioni saranno espresse nel libro che sto scrivendo, e allora, se gliene resterà voglia, lei potrà valutarle. Intanto, le sarei grato se, nonostante la mia condanna ingiusta - lei prendesse in conto quello che dico, non quello che si dice che io dica. Quanto alla Corte che ci condannò, come ho più volte ricordato, essa accettò di giudicarci per un omicidio comune, evitando, nonché l’imputazione di terrorismo, quella stessa di associazione sovversiva. Dunque la magistratura fu, fin dall’istruttoria, la prima a servirsi di una distinzione fra un omicidio politico e il terrorismo, che oggi argomentata da me la scandalizza. E che cosa vuol dire che c’è una lobby interessata a sostenere che Pinelli fu assassinato? Io, per esempio, dubito fortemente che Pinelli sia stato assassinato. Inoltre trovo, non da oggi, del tutto convincenti i risultati della sua indagine su alcuni punti che lei ha ieri ricordato, come l’origine della puntura d’ago nella piega del gomito di Pinelli, e ovviamente il fatto che Pinelli arrivò vivo in ospedale, e fu certificato morto dopo quasi due ore. Come lei ricorderà, questa circostanza è anzi drammaticamente problematica, perché né Luigi Calabresi né i quattro sottufficiali presenti nella sua stanza del quarto piano al momento della precipitazione di Pinelli scesero nel cortile nel quale Pinelli agonizzava - lo fece solo, fra quei presenti, l’ufficiale dei carabinieri Lograno, e lo fecero moltissimi altri membri del personale di polizia. Eppure avrebbe potuto esserci un angosciato impulso umano - tanto più per quel Calabresi che ormai viene presentato come poco meno che «amico» di Pinelli - o l’interesse a raccogliere le ultime parole di un interrogato così fatale. Su questa circostanza lei nella sua sentenza pronunciò un giudizio moralmente severo, lo stesso dal quale la signora Gemma Capra si dichiarò tanto ferita (nel suo libro del 1990, "Mio marito il commissario Calabresi"). Lei ora dice con una certa impazienza: «Io so solo che non fu ucciso». Guardi che Licia Pinelli disse a suo tempo: «L’unica cosa di cui in tutti questi anni sono stata veramente certa, è che Pino non si è ucciso». In mezzo, c’è una gamma di possibilità. Quella che lei scelse, il malore con uno slancio attivo, fu motivata non dagli esperimenti scientifici - le prove di caduta coi manichini, quelle in piscina - ma, contro quelli, da una ardua escursione psicologica, che volle mettere assieme l’innocenza di Pinelli con quella dei suoi interroganti, così da accantonare questioni come l’eventuale responsabilità dei ripetuti "saltafossi" che addebitarono ad un tratto a Pinelli - trattenuto illegalmente - addirittura la colpa degli attentati del 25 aprile, dell’8 agosto, e del 12 dicembre 1969; o almeno questioni come l’omessa custodia. La sua sentenza venne cinque anni dopo la caduta di Pinelli, tre anni dopo l’assassinio di Calabresi. Lei intanto era diventato (prima di esserne espropriato) titolare dell’indagine su Piazza Fontana, e interamente consapevole della falsità della "pista anarchica" in tutta quella catena di attentati, culminata nella strage. La sua tesi conclusiva sulla morte di Pinelli suonava paradossale ed esclusa da tutti i periti, d’ufficio e di parte - verosimiglianza del malore, "non per collasso... ma per improvvisa alterazione del centro di equilibrio"- e oltretutto dichiarava false tutte le testimonianze dei presenti nella stanza (il balzo felino, il tuffo, il si è buttato...) e tuttavia non penalmente rilevanti. Essa aveva l’effetto di assolvere tutti gli imputati non solo dall’accusa di omicidio volontario, ma anche da quella di omicidio colposo, inevitabile se fosse stata accolta l’ipotesi del suicidio. Come vede, le convinzioni che lei mi attribuisce, per giunta macchiate d’infamia, non sono le mie, né quelle di oggi né quelle che avanzai da molti anni. Quanto alla sua insofferenza per quella che le sembra una - infame anche lei - campagna di una lobby interessata a sostenere che Pinelli fu assassinato, guardi che non è così: io sono pressoché solo a parlare di questo argomento, e come ho appena cercato di spiegarle ne parlo in tutt’altro modo. Dev’esserle nel frattempo sfuggito che, col favore degli anni e del vento, si sono moltiplicate le voci ardite che insinuano, quando non danno per scontata, la colpevolezza di Pinelli. Le ricorderò soltanto quel superiore del commissario Calabresi, Antonino Allegra, dalla sua sentenza del 1975 dichiarato colpevole di arresto illegale di Pinelli ma prosciolto per intervenuta amnistia, che trasse occasione dalla propria audizione alla cosiddetta Commissione Stragi (luglio 2000) per ripetere le insinuazioni su Pino Pinelli, trovando un significativo consenso in alcuni membri parlamentari di quella Commissione. Il losco Pinelli, per quel funzionario e non solo per lui, resta fortemente indiziato di tutto, compresa la strage, compresi gli attentati del ‘69 per i quali la giustizia italiana riuscì nella rara impresa di arrivare a sentenza definitiva nei confronti di Ordine Nuovo e della "cellula veneta". Lei può insultarmi - chiunque può, e intuisco che sia una vera pacchia - ma può anche provare a vedere che cosa in effetti dico. Della seconda cosa le sarei grato.

Ci si può accanire su Sofri, a certe condizioni.

da Il Foglio del 22 settembre 2008
di Giuliano Ferrara
Adriano Sofri non ha scritto niente di così scandaloso, niente che implichi la sua messa in stato di accusa sul piano morale o altre forme di risentimento. Capisco il dissenso o l’incomprensione, ma non le accuse risentite, che nel caso Sofri sono la regola da oltre vent’anni. Per come l’ho capita, ed è chiara, la tesi di Sofri è che, con il passare degli anni, un odioso delitto ha cambiato di significato. Chi ha ucciso il commissario non aveva un piano terroristico per attaccare il cuore dello Stato, voleva bensì vendicare la morte dell’anarchico Pinelli. Sono due cose completamente diverse, il terrorismo e l’assassinio di Luigi Calabresi. Chiunque ragioni con equilibrio capirà che questa differenza di significato, sanzionata per di più dal fatto che gli imputati sono stati condannati per un omicidio di diritto "comune", non è un dettaglio. Non è un dettaglio per due motivi almeno. Primo: se il delitto Calabresi fu un atto di terrorismo, Lotta continua fu un partito terrorista, ciò che Sofri e i suoi amici negano. (E che io, cacciatore di terroristi e di lottacontinuisti in quell’epoca ferrigna, nego con altrettanta convinzione per evidenti ragioni storiche: erano due cose diverse e antitetiche, due aspetti non assimilabili di un’unica grande crisi politica e sociale e della sua deriva violenta). Secondo: se fu un atto di terrorismo, scompare il movente specifico, e cioè tutta la storia torbida e insoluta, civilmente e storicamente devastante per una intera generazione politica, di Pinelli e della strage della Banca dell’Agricoltura e della caccia agli anarchici e di tutto il resto. Compreso il clima di menzogna in cui visse la Questura di Milano in quei giorni, un clima rievocato da Mario Calabresi nel suo libro a tutela della propria vita, dei propri affetti, della memoria delle vittime del terrorismo e della storia personale di suo padre. Certo, Sofri è sconfitto. Non è difficile accanirsi contro di lui. E’ stato condannato in via definitiva come mandante di quell’omicidio, ciò che è un’enormità bestiale ai suoi occhi e agli occhi di chi ha letto le carte del processo e sa chi è veramente Adriano Sofri. In più, pur essendo non colpevole, Sofri non è e non si considera "innocente", nel senso che la sua organizzazione scatenò contro il commissario una aberrante campagna di denuncia e di odio personale e simbolico al culmine della quale l’omicidio fu compiuto. E Sofri disse senza equivoci, in un discorso pubblico tenuto prima del suo arresto e della sua incriminazione, che a quell’epoca molti della sua generazione, lui compreso, erano pronti al delitto politico. Sofri si è assunto la responsabilità civile delle sue cattive azioni, e ha preso su di sé anche qualcosa di quelle degli altri. (Io aggiungo che il famoso appello degli intellettuali e dei notabili della sinistra contro il commissario dimostra che la responsabilità del clima in cui maturò l’omicidio Calabresi fu tragicamente condivisa da molti che poi hanno fatto finta di niente). Sofri si è pentito, e lo ha ripetuto nell’articolo del Foglio, di aver scritto che "in quell’atto gli sfruttati riconoscono la loro volontà di giustizia". Ha cercato con dignità e umiltà di stabilire un contatto psicologico e morale con il dolore della famiglia del commissario assassinato, senza cercare vantaggio personale. Ha subito un linciaggio forsennato, fino al paragone obliquo con il capitano Erich Priebke delle Fosse Ardeatine. Ha accettato senza vittimismi e senza piagnucolare una condanna penale che ritiene ingiusta. Perché dovrebbe accettare senza discutere anche il bollo di terrorista? Perché deve incassare senza fiatare l’oblio per Pinelli e per il dolore della vedova? In conclusione, a me sembra che per accanirsi su Sofri, per censurare moralmente la sua versione invece di discutere le sue tesi sul delitto Calabresi e sul terrorismo, occorra essere sicuri di alcune cose, tenerle per certe. Che Pinelli sia stato vittima di un "malore attivo", secondo la sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio. Che lo Stato italiano e i suoi rappresentanti a molti livelli fossero estranei a una torbida vicenda di depistaggi, di false accuse, di coperture in relazione alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

15-16-17 settembre 2008

Adriano Sofri da "Il Foglio"

15 settembre 2008
Salvo che si usi il termine terrorismo come un generico insulto, l’omicidio di Calabresi non può passare, nella versione che ne hanno dato imputazioni processi e sentenze, per un atto di terrorismo. Questa è la formulazione giudiziaria, questa è la mia ferma opinione. Che la si intenda come una “giustificazione” o è un frutto di pregiudizio e di malanimo, o di un grossolano fraintendimento. E’ superfluo dire che ci sono omicidi abominevoli, che non hanno niente a che fare con il terrorismo, e nemmeno con qualunque inclinazione politica, e non diventano per questo più giustificabili. Nel libro curato dalla Presidenza della Repubblica in memoria delle “vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana” viene commemorato Luigi Calabresi. Non viene citato Pino Pinelli. Io ho un’opinione diversa. Penso a Pinelli come a una vittima del terrorismo di stato, l’ultima vittima della strage di Piazza Fontana. Penso a Calabresi come alla vittima di una violenza politica omicida, che, salvo prova contraria, non aveva a che fare con un intento terrorista. Il che non tocca affatto la questione della giustificazione, tanto meno della giustificazione di trentasei anni dopo. Ma impedisce, così come impedì l’addebito giudiziario, di assimilare quell’attentato al sequestro e alla strage di bambini di Beslan. Questa è la mia opinione. Attribuirla a un mio spregevole malanimo verso Mario Calabresi e la sua famiglia è del tutto infondato. Vorrei dire ad Arrigo Levi, la cui interpretazione delle mie parole è troppo lontana dal segno, che, quando ho detto che non c’era una guerra, ma alcuni di noi si sentivano in guerra, intendevo salvaguardare le proporzioni, rispetto a chi parla alla leggera di “guerra civile” degli anni Settanta, ma anche ricordare che il primo a “sentirsi in guerra” e a chiedere ai suoi uomini di comportarsi di conseguenza fu lo stato italiano di piazza Fontana.
16 settembre 2008
Caro Giovanni Sabbatucci, come mi succede assai di frequente in questi giorni, vedo rimbalzarmi addosso argomenti che già furono miei, ed è possibile che me la sia cercata, ma vorrei sbrigarmene per parlare d’altro, dunque dichiarerò che purtroppo sono d’accordo con lei in generale. L’espressione “strage di Stato” fu al tempo stesso penetrante e deviante. Strada facendo, crebbe come certe ombre prepotenti che finiscono per ingoiare la luce, e diventò un luogo comune della paranoia politica degli anni ’70. Quando, più vicino a noi, fu riformulata dai volonterosi magistrati che cercarono di impedire la definitiva liquidazione giudiziaria del 12 dicembre (invano), ebbe un suono meno generico e più circostanziato. Ma era comunque consumata. Voglia credere che dico questo da decennii, e anche in questa usurpata sede (la più tollerante del mondo: e mi chiedo ogni giorno se non ne abbia abbastanza). Vediamo invece il dettaglio. C’è, nella primavera e nell’estate del ’69, una sequenza impressionante di attentati esplosivi fra loro collegati. Alcuni – quello alla Fiera, quelli ai treni – provocano decine e decine di feriti. Per quegli attentati l’Ufficio politico della questura milanese – Allegra, Calabresi – persegue dei militanti e simpatizzanti anarchici, che sono incarcerati. Qualunque sia il loro curriculum personale, tutti costoro sono estranei a quell’addebito, e ne saranno anche formalmente scagionati, non solo, ma per quegli attentati, 17, tra il 15 aprile e il 9 agosto 1969, saranno condannati con sentenza definitiva (una delle rarissime del nostro paese, a parte la mia) personaggi come Freda e Ventura e la cosiddetta cellula veneta. Il 12 dicembre, quando esplodono le bombe a Roma e Milano, e quella alla Banca dell’Agricoltura fa strage, è evidente la connessione fra quegli attentati e questo culmine terrorista. Appare evidente anche all’Ufficio politico milanese, che sceglie decisamente la stessa pista anarchica, sia che segua una propria convinzione effettiva, sia che si adatti, com’è evidente, a un orientamento grato ai suoi superiori gerarchici e politici. In questo frangente viene immediatamente indicato Valpreda come il mostro autore della strage (non lo è) e Pinelli, contro il quale si indaga da mesi come indiziato degli attentati del 25 aprile alla Fiera e dell’8 agosto ai treni, viene subito fermato, trattenuto illegalmente, e nel corso stesso delle ore del fermo accusato, con i famigerati “saltafossi” di Allegra e Calabresi, di quegli attentati e finalmente di un coinvolgimento nella strage di piazza Fontana. Pinelli è ora per loro l’anello di congiunzione fra gli attentati dei mesi precedenti e la strage. Appena uscito dalla finestra del quarto piano, Pinelli, nelle dichiarazioni del questore Guida completate dai suoi collaboratori, si è buttato giù perché “era fortemente indiziato di concorso in strage. Si era visto perduto. E’ stato un gesto disperato, una specie di autoaccusa”. Mi fermo qui, per ragioni di spazio: lei del resto conosce la storia meglio di me. Ma rispondo alla sua domanda: “Possibile che in quasi quarant’anni non sia saltato fuori un nome, un esponente politico istituzionale di rilievo, almeno uno!, al di là dei soliti Giannettini o Maletti…?” All’indomani del 12 dicembre è difficile trovare nomi di esponenti istituzionali (e non) che si dissocino dalla pista anarchica, che è di fatto una pista pregiudiziale dalle conseguenze enormi e micidiali, e un depistaggio meticoloso. Così, dal prefetto di Milano lo stesso 12 dicembre (“Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi…”) ai vertici dei servizi segreti, al governo, fino al presidente della Repubblica (“L’attentato di Milano è un anello di una tragica catena di atti terroristici che deve essere spezzata a ogni costo…”: affermazione vera, solo che non riguardava gli anarchici) si compie una univoca campagna. Non cito nemmeno la questione di personaggi e gruppi che macchinarono in quel frangente un colpo di Stato: del resto i colpi di Stato sono tutti pagliacceschi, salvo quando riescono. Ho scritto che “il primo a ‘sentirsi in guerra’ e a chiedere ai suoi uomini di comportarsi di conseguenza fu lo stato italiano di piazza Fontana”. A me continua a sembrare una affermazione circostanziata e nient’affatto ideologica. Abbia i miei saluti. (P.S. Guardi che io ho scritto: Stato, con la maiuscola. Poi l’ottimo computer di redazione se ne deve essere vendicato).
17 settembre 2008
Quell’anarchico di computer, benché avvertito, l’ha rifatto. Ha riscritto stato con la minuscola. Bisogna stare attenti ormai coi giochi di parole. Come quelli di tanti anni fa: Io non sono Stato. O quelli, serissimi, di oggi, sull’opportunità di portare le scolaresche in visita alle discariche. La scoria è maestra di vita.

In ricordo di Anna Politkovskaja

Da "La Repubblica" del 21 settembre

di Adriano Sofri

La Politkovskaja venne uccisa il 7 ottobre 2006. Aveva raccontato al mondo il lato oscuro della Russia di Putin. Due anni dopo, esce in Italia una raccolta di suoi reportage inediti dal fronte della guerra cecena: le testimonianze dei torturati e la vergogna delle donne violentate nelle pagine scritte per dare voce a un popolo senza difese
L a prima reazione è di incredulità. Sono proprio vere le storie raccontate da Anna Politkovskaja? Soldati e ufficiali russi che entrano nella moschea, ammassano tappeti, libri, Corano, e poi defecano in cima al mucchio? I tariffari dei militari per restituire alle famiglie il cadavere di un sequestrato (più caro) o di una sequestrata (meno cara)? E, la fila per una razione dei profughi ceceni esasperati dalla fame, e i tubercolotici che sputano addosso a quelli che ancora non sputano sangue, magari per diradare la coda? E la giovane al posto di blocco che chiede di passare per l´ospedale, e la fanno scendere e mettersi al muro con le mani in alto e le gambe aperte, finché si acquatta stremata e il bambino viene fuori, morto? E le torture subite da lei stessa, Anna, giornalista famosa, da parte dei militari suoi connazionali? Dice lei stessa, Anna: «Anche i miei più intimi amici non credono alle storie che racconto quando torno dalla Cecenia». La seconda reazione, lasciatemelo dire, è di una incresciosa avversione. Per involontaria che sia, è così. Storie così atroci non si ascoltano senza provare un rancore contro chi le racconta. Non si vogliono credere, non si vogliono sapere. E poi perché questa donna mette per tanti anni, con tanta pervicacia, a repentaglio la propria vita: non per un episodico reportage di guerra, ma per mischiarsi col sangue e il fango e le feci di un popolo schiacciato dalla guerra, senza distogliere lo sguardo da nessuna ferocia, senza risparmiare al lettore nessuna atrocità? Perché, infatti? Anna stessa deve esserselo chiesto. Una persona, in quella situazione, rischia la vita anche con un solo viaggio, anche per una sola pagina. Ma c´è una soglia oltre la quale non c´è più il rischio, ma la certezza che la vita è spacciata. Questione di tempo. E di luogo. Ogni giorno trascorso in quella Cecenia è strappato all´azzardo, e lei è tornata in Cecenia ogni mese, a partire dal luglio 1999, dall´inizio della seconda e mai finita guerra - seconda in un pugno di anni. E tuttavia è probabile che sentisse che la morte, dopo averla risparmiata capricciosamente in quel fazzoletto di terra martoriato e percorso da capo a fondo, l´aspettasse a un angolo di strada moscovita, dentro l´ascensore di casa sua. Questo nuovo libro è prezioso, perché raccoglie i primi testi di Anna P. dalla Cecenia. Passeranno poi altri anni, verranno tanti altri articoli e libri, e la fine. Qui c´è l´inizio. E le domande della prima riga del prologo alla raccolta: «Chi sono io? E perché scrivo della Seconda guerra cecena?». Chiuso il libro, il lettore spaventato e angosciato se lo chiede ancora. Non è difficile capire l´impulso che porta ad andare in un piccolo angolo d´inferno. La terra ne è piena, li vende addirittura nei dépliant del turismo estremo. Si parte, dopotutto si tratta della guerra, per una generazione che altrimenti ne é esclusa, e del proprio paese - perché la Cecenia è russa, e la Russia stermina i ceceni per confermarli russi! - e della propria professione di giornalista. L´azzardo è previsto, come in certe sfide di adolescenti: durerà il tempo della scommessa, poi, salvo complicazioni, si tornerà a casa, a raccontarlo e farsene belli. Ma a qualcuno succede di restarci preso dentro. Non è detto che sia coraggio, o forza. Al contrario: non si ha la forza di lasciare quei propri simili, non si ha il coraggio di riadattarsi alla vita normale, la casa i figli il cane l´ufficio il ristorante il traffico il cinema. La vita normale è a un passo dall´altra, dalle bombe gli stupri le razzie le torture l´inferno, ed è proprio la brevità di quel passo a farla ripudiare. Nei suoi racconti, anche dove non c´è, com´è a volte inevitabile, la descrizione del pericolo estremo condiviso, si capisce che la questione del pericolo è stata accantonata, non si pone neanche più. Dev´essere così la differenza fra guardare il vuoto da un cornicione, e lasciarsi andare. C´è il racconto, struggente, di uno dei viaggi di andata verso quel piccolo inferno. Anna è su un elicottero militare, con lei c´è un colonnello sconosciuto. Un contrattempo in extremis fa dirottare l´elicottero dalla meta cecena a Vladikavkaz, una città "normale" - senza guerra. L´ufficiale è anche lui a un ennesimo viaggio al fronte, e tuttavia il benedetto incidente, che gli regala un´altra sicura notte di vita, scatena in lui un´euforia da pazzo, e la sua euforia, salti e balli e urla di felicità, contagia tutti gli altri e anche Anna. È come se fossero, quelli che passano di qua e di là - lei per sapere e raccontare e aiutare, lui in servizio in un´armata ubriaca e banditesca - creature ibride, centauri fatti per metà di pace e per metà di guerra, se non fosse che il lato della guerra fa disperare per sempre della pace. L´amicizia di quella notte e la sua amara conclusione sono sconvolgenti - «il colonnello Mironov morirà per ferite incompatibili con la vita» -, anche se per una notte hanno lasciato da parte la folla di quelli che dalla guerra non escono mai. Anna ne ha fatto in realtà la propria gente. E non i capi, gli eroici sciagurati che hanno sfidato un impero, e si sono ridotti poi a calunniarsi spiarsi e ammazzarsi fra loro, e farsi scudo dei propri stessi villaggi e di donne e vecchi e bambini. Non ci sono granduomini nei racconti di Anna, da nessuna parte. Ci sono piccoli uomini ammirevoli e soprattutto donne, le donne cecene derubate, insultate, violentate, uccise. Le donne cecene «che non hanno paura di niente, perché hanno paura di tutto». Lo si comincerà a leggere a ritroso, com´è inevitabile, questo libro, e con lo sguardo fisso sull´autrice: come srotolando all´indietro il filo spezzato dal suo assassinio e dall´infamia della sua cancellazione. Tornando sui suoi passi. Però la lettura cambierà presto. Il filo apparirà di nuovo forte e fitto, le altre persone prenderanno la propria voce, che senza lei non avrebbero mai avuto. La voce dei torturati cui domanda che cosa si volesse sapere da loro, e rispondono: «Non mi hanno domandato niente». Il silenzio delle stuprate e degli stuprati, per i quali la vergogna è più insopportabile della violenza. Gli occhi asciutti delle donne: «Si sente raramente piangere a Grozny. Hanno finito le lacrime da un pezzo. Se una donna piange, significa che è tornata da poco da un campo profughi». La voce di Nadezda Ilinicna Baturinceva, russo-cecena - perché la ferocia dell´armata russa non ha avuto nessun riguardo nemmeno per i russi del luogo - che sospira: «Lo sai, la Seconda Guerra mondiale è stata una buona guerra», e si capisce, dice Anna, fino a che punto una persona debba essere disperata per chiamare buona una guerra che si portò via milioni di anime. «Questa invece è una guerra cattiva - conclude l´anziana Nadezda - Non si capisce chi è da una parte e chi dall´altra. Ma nessuno è dalla nostra, questo è sicuro». Anna è "dalla loro". Lo è in modo militante. Il suo giornalismo non può che esserlo, e non può piacere a nessuno - nemmeno tanto al suo stesso giornale. (Vi ricordate che abbiamo avuto un giornalista nostro, della Radio Radicale, Antonio Russo, povero e avventuroso, che morì ammazzato in terra di nessuno fra Cecenia e Georgia). C´è una bella frase, di un´ironia discreta e acuminata: «Il giornalismo è un bel lavoro: s´incontrano un sacco di persone, e molte sono disposte ad aiutarti se chiedi loro di farlo». Anna viene per loro anche nel resto del mondo, «ovunque mi invitano a parlare della "situazione cecena"... Ottengo solo compìti applausi occidentali». A Ginevra la ascoltano con paziente diffidenza. Anche in Cecenia deve vincere la diffidenza. C´è un ragazzo che le racconta il proprio calvario, ma in ceceno, e facendosi tradurre: lui stesso parla perfettamente russo, ma si rifiuta di farlo. Chiede perché Putin ha chiesto un momento di silenzio in onore delle vittime americane, e mai una parola per le vittime cecene. In un villaggio di montagna c´è un ragazzino, quattordici anni, che va al gabinetto: tutte le case dei villaggi ceceni hanno i gabinetti fuori e un po´ distanti. I federali russi lo tengono di mira, e muoiono dalle risate quando lo ammazzano con una granata mentre è intento ai suoi bisogni. E si citano la gran frase d´esordio di Putin: «Li staneremo fin dentro i cessi». Lo si leggerà anche, questo libro, misurandolo con la fiammata dell´Ossezia e dell´Abkhazia e della Georgia di poco fa, e l´incendio che ha lasciato intravvedere. Come a proposito della visita di Bush a Putin, maggio 2002, in nome della coalizione contro il terrorismo internazionale: «Bush viene a Mosca, la si definisce una visita storica, si parla di fraternizzare, ma si spende a malapena una parola sulla Cecenia, come se la guerra non esistesse». Introducendo l´edizione inglese di questa raccolta, Anna P. aveva concluso: «La cosa peggiore è che molte delle persone di cui ho scritto negli ultimi due anni e mezzo oggi sono morte». Era il 2002. Dopo di allora sono morte quasi tutte. Anche lei.