mercoledì, gennaio 28, 2009
martedì, gennaio 27, 2009
Il Concilio cancellato
da La Repubblica del 27 gennaio
di Adriano Prosperi
Domenica scorsa ricorrevano cinquant’anni esatti dall’annuncio del futuro concilio dato da papa Roncalli in una celebre allocuzione. L stata una ricorrenza importante.
Come l’abbia celebrata il mondo vaticano risulta dalla prima pagina dell’Osservatore Romano, appunto di domenica. Il commento del suo direttore aveva questo titolo: «Il Vaticano II e il gesto di pace del Papa». Nel breve spazio di una smilza colonnina erano messi insieme il ricordo dell’annuncio di cinquant’anni fa e il «gesto di pace» con cui il papa regnante ha cancellato la scomunica del plotoncino dei vescovi ordinati da monsignor Lefebvre. Dopo avere legato insieme le due cose l’articolo si concludeva così: «A mezzo secolo dall’annuncio, il Vaticano II è vivo nella Chiesa». Singolare affermazione, visto che la ragione della scomunica «latae sententiae» fulminata nel 1988 da papa Giovanni Paolo II era stato il rifiuto di quei vescovi di accettare il Concilio. E non sembra che i seguaci di monsignor Lefebvre abbiano cambiato idea al riguardo. Dunque chi ha cambiato idea è il Vaticano. Quel che se ne ricava è una semplice constatazione: non accettare il Concilio non costituisce una frattura con la Chiesa. Buono a sapersi per tanti cattolici: c’è ancora fra di loro qualcuno che non accetta il dogma dell’infallibilità papale stabilito dal Concilio Vaticano I? Bene, potrà prendere argomento da questa storia per mantenere le sue riserve, per fare per così dire «obiezione di coscienza», quella che secondo il vescovo Poletto dovrebbero fare i medici negli ospedali pubblici italiani per disobbedire alla sentenza della Cassazione sul caso Englaro.
Adesso possiamo mettere in serie tutti gli atti che hanno preparato questa scelta. Sono stati molti. E qui potremmo anche lasciare ai cattolici di tutto il mondo il compito di fare i conti con le svolte ad angolo acuto che il supremo timoniere imprime alla navicella di San Pietro. Ma non ce lo possiamo permettere. E non solo perché il modo in cui la Chiesa cattolica volta le spalle ali’ eredità del Concilio Vaticano Il comporta conseguenze pesanti per i valori della tolleranza e perii rispetto dei diritti di libertà. In questa decisione di abbracciare come fratelli quei quattro vescovi c’è qualcosa che iscrive d’ufficio le autorità della Chiesa cattolica tra coloro che Pierre Vidal-Naquet ha definito «gli assassini della memoria». Lo capiremo meglio se si terrà conto della singolare coincidenza tra questa decisione papale e la doppia ricorrenza non solo del cinquantenario del Concilio Vaticano II ma anche dell’appuntamento annuale del «giorno della memoria». L proprio la memoria della fesa diretta e frontale da questa decisione di papa Ratzinger. Non è certo un caso se proprio un vescovo di quel gruppetto dilefebvriani, monsignor Richard Williamson, ha scelto questa ricorrenza annuale per fare pubblica professione di negazionismo. Come abbiamo letto sui giornali nei giorni scorsi, il vescovo ha dichiarato al canale televisivo svedese Svtl che secondo lui«le camere a gas non sono mai esistite». Il monsignore si è addentrato con passione in calcoli precisi ai quali aveva evidentemente dedicato molto tempo: ha parlato di altezza e forma dei forni crematori dei lager e ha sostenuto che gli ebrei uccisi sarebbero stati non sei milioni ma «solo» due o trecentomila. Ma il suo non è un deprecabile caso privato, come vorrebbe far credere l’ineffabile direttore dell’Osservatore Romano. Monsignor Williamson non è un negazionista occasionale. Lui e i suoi compagni di ventura - lo svizzero Bernard Fellay, il francese Bernard Tissier de Maillerais e lo spagnolo Alfonso de Galarreta - seguirono monsignor Lefebvre sulla via del rifiuto del Concilio per ragioni che hanno a che fare proprio con la questione del giudizio della Chiesa cattolica sugli ebrei. Per questi uomini e per la piccola chiesa che hanno guidato finora Papa Giovanni XXIII era un infiltrato di una congiura giudaica, il suo concilio era il prodotto di un complotto contro la vera Chiesa, quella di San Pio V, quella della guerra senza quartiere agli eretici e agli ebrei. Forse non tutti sanno che le ragioni della scissione di monsignor Lefebvre hanno un rapporto molto preciso con lo sterminio degli ebrei. Ciò che spinse il prelato francese a ribellarsi alla Chiesa fu la dichiarazione sulla libertà religiosa e l’apertura verso l’ebraismo. Cercheremmo invano la sua firma sotto la «Nostra aetate», il documento fondamentale sulle relazioni tra la Chiesa cattolica e le altre religioni: un documento che si apriva con queste parole: «Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». E proseguiva con giudizi positivi sulla religione mussulmana e soprattutto su quella ebraica, voltandole spalle a secoli di aggressioni contro gli ebrei e affermando solennemente che «gli Ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura».
Quei documenti sono diventati sempre più desueti negli ultimi anni grazie a una serie continua di atti papali e di decisioni della Congregazione perla Dottrina della Fede. E la marcia di avvicinamento alle posizioni del nucleo dei lefebvriani si era resa evidente in molte scelte simboliche oltre che nell’impulso dato a quella Congregazione, dove si è rinverdita la radice antica dell’Inquisizione. Ma il direttore dell’Osservatore Romano si sbaglia se crede di potersela cavare con quelle parolette finali: secondo lui la bontà della scelta fatta «non sarà offuscata da inaccettabili opinioni negazioniste e atteggiamenti verso l’ebraismo di alcuni». E invece lo sarà, anzi lo è già, irrimediabilmente. Quella che è stata offuscata dalla decisione papale è l’immagine della Chiesa cattolica nella coscienza civile del mondo intero.
di Adriano Prosperi
Domenica scorsa ricorrevano cinquant’anni esatti dall’annuncio del futuro concilio dato da papa Roncalli in una celebre allocuzione. L stata una ricorrenza importante.
Come l’abbia celebrata il mondo vaticano risulta dalla prima pagina dell’Osservatore Romano, appunto di domenica. Il commento del suo direttore aveva questo titolo: «Il Vaticano II e il gesto di pace del Papa». Nel breve spazio di una smilza colonnina erano messi insieme il ricordo dell’annuncio di cinquant’anni fa e il «gesto di pace» con cui il papa regnante ha cancellato la scomunica del plotoncino dei vescovi ordinati da monsignor Lefebvre. Dopo avere legato insieme le due cose l’articolo si concludeva così: «A mezzo secolo dall’annuncio, il Vaticano II è vivo nella Chiesa». Singolare affermazione, visto che la ragione della scomunica «latae sententiae» fulminata nel 1988 da papa Giovanni Paolo II era stato il rifiuto di quei vescovi di accettare il Concilio. E non sembra che i seguaci di monsignor Lefebvre abbiano cambiato idea al riguardo. Dunque chi ha cambiato idea è il Vaticano. Quel che se ne ricava è una semplice constatazione: non accettare il Concilio non costituisce una frattura con la Chiesa. Buono a sapersi per tanti cattolici: c’è ancora fra di loro qualcuno che non accetta il dogma dell’infallibilità papale stabilito dal Concilio Vaticano I? Bene, potrà prendere argomento da questa storia per mantenere le sue riserve, per fare per così dire «obiezione di coscienza», quella che secondo il vescovo Poletto dovrebbero fare i medici negli ospedali pubblici italiani per disobbedire alla sentenza della Cassazione sul caso Englaro.
Adesso possiamo mettere in serie tutti gli atti che hanno preparato questa scelta. Sono stati molti. E qui potremmo anche lasciare ai cattolici di tutto il mondo il compito di fare i conti con le svolte ad angolo acuto che il supremo timoniere imprime alla navicella di San Pietro. Ma non ce lo possiamo permettere. E non solo perché il modo in cui la Chiesa cattolica volta le spalle ali’ eredità del Concilio Vaticano Il comporta conseguenze pesanti per i valori della tolleranza e perii rispetto dei diritti di libertà. In questa decisione di abbracciare come fratelli quei quattro vescovi c’è qualcosa che iscrive d’ufficio le autorità della Chiesa cattolica tra coloro che Pierre Vidal-Naquet ha definito «gli assassini della memoria». Lo capiremo meglio se si terrà conto della singolare coincidenza tra questa decisione papale e la doppia ricorrenza non solo del cinquantenario del Concilio Vaticano II ma anche dell’appuntamento annuale del «giorno della memoria». L proprio la memoria della fesa diretta e frontale da questa decisione di papa Ratzinger. Non è certo un caso se proprio un vescovo di quel gruppetto dilefebvriani, monsignor Richard Williamson, ha scelto questa ricorrenza annuale per fare pubblica professione di negazionismo. Come abbiamo letto sui giornali nei giorni scorsi, il vescovo ha dichiarato al canale televisivo svedese Svtl che secondo lui«le camere a gas non sono mai esistite». Il monsignore si è addentrato con passione in calcoli precisi ai quali aveva evidentemente dedicato molto tempo: ha parlato di altezza e forma dei forni crematori dei lager e ha sostenuto che gli ebrei uccisi sarebbero stati non sei milioni ma «solo» due o trecentomila. Ma il suo non è un deprecabile caso privato, come vorrebbe far credere l’ineffabile direttore dell’Osservatore Romano. Monsignor Williamson non è un negazionista occasionale. Lui e i suoi compagni di ventura - lo svizzero Bernard Fellay, il francese Bernard Tissier de Maillerais e lo spagnolo Alfonso de Galarreta - seguirono monsignor Lefebvre sulla via del rifiuto del Concilio per ragioni che hanno a che fare proprio con la questione del giudizio della Chiesa cattolica sugli ebrei. Per questi uomini e per la piccola chiesa che hanno guidato finora Papa Giovanni XXIII era un infiltrato di una congiura giudaica, il suo concilio era il prodotto di un complotto contro la vera Chiesa, quella di San Pio V, quella della guerra senza quartiere agli eretici e agli ebrei. Forse non tutti sanno che le ragioni della scissione di monsignor Lefebvre hanno un rapporto molto preciso con lo sterminio degli ebrei. Ciò che spinse il prelato francese a ribellarsi alla Chiesa fu la dichiarazione sulla libertà religiosa e l’apertura verso l’ebraismo. Cercheremmo invano la sua firma sotto la «Nostra aetate», il documento fondamentale sulle relazioni tra la Chiesa cattolica e le altre religioni: un documento che si apriva con queste parole: «Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». E proseguiva con giudizi positivi sulla religione mussulmana e soprattutto su quella ebraica, voltandole spalle a secoli di aggressioni contro gli ebrei e affermando solennemente che «gli Ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura».
Quei documenti sono diventati sempre più desueti negli ultimi anni grazie a una serie continua di atti papali e di decisioni della Congregazione perla Dottrina della Fede. E la marcia di avvicinamento alle posizioni del nucleo dei lefebvriani si era resa evidente in molte scelte simboliche oltre che nell’impulso dato a quella Congregazione, dove si è rinverdita la radice antica dell’Inquisizione. Ma il direttore dell’Osservatore Romano si sbaglia se crede di potersela cavare con quelle parolette finali: secondo lui la bontà della scelta fatta «non sarà offuscata da inaccettabili opinioni negazioniste e atteggiamenti verso l’ebraismo di alcuni». E invece lo sarà, anzi lo è già, irrimediabilmente. Quella che è stata offuscata dalla decisione papale è l’immagine della Chiesa cattolica nella coscienza civile del mondo intero.
lunedì, gennaio 26, 2009
Grandina, in Vaticano
di Angiolo Bandinelli *
Non solo piove, in Vaticano, ma forse grandina. E grandina non tanto per qualche bizzaria atmosferica o per una ignota decisione divina, ma per una diretta e deliberata volontà delle gerarchie d’Oltretevere. Data la qualità e l’intensità del fenomeno, c’è anzi da sospettare che il primo impulso per questa catastrofe meteorologico-teologico-pastorale venga direttamente da papa Ratzinger, Benedetto XVI. Ratzinger è stato professore di teologia, tedesco e dunque vicino e consonante con l’altro professore tedesco, seppure di sola filosofia, Martin Heidegger. Già i filosofi, da Platone a Hegel allo stesso Heidegger, quando si occupano di politica sono elitari e reazionari, figuriamoci quanto arriveranno ad essere assolutisti i teologi, che hanno il privilegio di poter non solo parlare di dio (come i filosofi), ma direttamente da lui sono ispirati: parlavano ex cathedra, un tempo, solo nelle occasioni e sui temi più solenni, oggi un papa presume di parlare ex cathedra anche quando si occupa di minuzie parrocchiali.
La notizia che segue, tratta da un sito abbastanza ben informato di cose clericali (e un po’ prono ad esse) ci parla di un teologo, Roger Haight, appartenente alla Compagnia di Gesù, che ha scritto su Gesù, la sua persona e il suo insegnamento, avanzando tesi che non sono piaciute alla Congregazione per la Dottrina della Fede, fin dall’epoca in cui la potente congregazione era presieduta proprio dal prof. Ratzinger. Oggi, le autorità vaticane sono arrivate ad ingiungere ad Haight di astenersi dall’insegnamento, anche in istituti non cattolici, “finché le sue posizioni non siano rettificate così da essere in piena conformità con la dottrina della Chiesa”.
Di questa vicenda non si è occupato nessuno, nessun organo di stampa ne ha parlato o scritto. Tutti, in questi giorni, commentano un’altra decisione papale, quella di sollevare dalla scomunica i vescovi della Fraternità San Pio X, i cosiddetti lefebrviani. I mass media seguono la vicenda non tanto per quel significa per sé (o anche per i malumori che ha suscitato presso il clero francese) ma per gli strascichi che ne sono seguiti. Uno dei vescovi della Fraternità, Richard Williamson, ha manifestato, in più di una occasione, sentimenti antiebraici, arrivando anche a negare la verità storica dell’Olocausto. Niente di strano in questo, la cultura cattolica più tradizionale è sempre stata, checché se ne dica, antiebraica: per quella cultura gli ebrei sono sempre i perfidi assassini di Gesù Cristo. Ma la decisione è stata aspramente commentata dal mondo ebraico, già da tempo insospettito di certi disinvolti atteggiamenti ratzingeriani nei loro confronti.
Certo, questa notizia fa scalpore. Noi però la leggiamo nella filigrana dell’altra, che qui riportiamo, relativa al teologo Haight. E perché? Perché, come ci dice esplicitamente la nota dell’agenzia diretta da Sndro Magister, dietro Haight quel che è preso di mira è probabilmente l’intero ordine dei gesuiti, e addirittura la persona del cardinal Martini, anche lui gesuita. Mettiamo in fila queste notizie, ed altre di cui la cronaca è da qualche tempo non avara, e noi avremo il quadro di un mondo cattolico abbastanza scosso, a disagio, sotto la guida di un pontefice che era stato (ci pare) chiamato a succedere all’estroverso Giovanni Paolo II per ridare certezze e unità alla Chiesa. Sta succedendo il contrario: oggi la chiesa è, in qualche modo, in una centrifuga, o almeno così appare, nonostante gli sforzi della Rai per patinarne (a spese del contribuente) l’immagine. Al centro del confronto è, va detto con tutta chiarezza, il Concilio Vaticano II, il suo tentativo di innovazione e di incardinamento della Chiesa cattolica nel mondo moderno. Questa fiammella viene tenuta accesa, con difficoltà, da qualche parte del mondo cattolico, per esempio nella scuola bolognese di Alberigo. Papa Ratzinger guida il tentativo, invece, di far trionfare ancora, sotto il baldacchino di San Pietro, il tradizionalismo più puro.
Secondo il teologo à la page Vito Mancuso, ci sarebbe il rischio di un po’ di reazione in agguato. No, no: qui siamo già dentro una vera e propria Controriforma. Ah, se invece di vaticanisti e di teologi ci fossero in giro giornalisti da inchiesta sul campo!
*Angiolo Bandinelli, toscano di Chianciano, ha diviso la sua vita tra passione letteraria, cultura, giornalismo e politica. Traduttore di Eliot, Coleridge, Stevenson e poeta lui stesso, è stato tra i primi iscritti del Partito radicale, di cui è stato segretario politico tra il 1969 e il 1972. Con la sua specifica caratura di intellettuale, si è battuto nelle grandi battaglie sui diritti civili, per il federalismo e per l’Europa. Ne ha raccontato in “Il radicale impunito - Diritti civili, nonviolenza, Europa”. A partire dagli anni Sessanta scrive di politica e cultura per il Mondo di Pannunzio, la Voce repubblicana, e innumerevoli altre testate. In “Opinioni per un anno”, ha raccolto articoli recenti scritti per tre quotidiani molto diversi fra loro: Il Foglio, L’Avanti e L’Opinione.
Non solo piove, in Vaticano, ma forse grandina. E grandina non tanto per qualche bizzaria atmosferica o per una ignota decisione divina, ma per una diretta e deliberata volontà delle gerarchie d’Oltretevere. Data la qualità e l’intensità del fenomeno, c’è anzi da sospettare che il primo impulso per questa catastrofe meteorologico-teologico-pastorale venga direttamente da papa Ratzinger, Benedetto XVI. Ratzinger è stato professore di teologia, tedesco e dunque vicino e consonante con l’altro professore tedesco, seppure di sola filosofia, Martin Heidegger. Già i filosofi, da Platone a Hegel allo stesso Heidegger, quando si occupano di politica sono elitari e reazionari, figuriamoci quanto arriveranno ad essere assolutisti i teologi, che hanno il privilegio di poter non solo parlare di dio (come i filosofi), ma direttamente da lui sono ispirati: parlavano ex cathedra, un tempo, solo nelle occasioni e sui temi più solenni, oggi un papa presume di parlare ex cathedra anche quando si occupa di minuzie parrocchiali.
La notizia che segue, tratta da un sito abbastanza ben informato di cose clericali (e un po’ prono ad esse) ci parla di un teologo, Roger Haight, appartenente alla Compagnia di Gesù, che ha scritto su Gesù, la sua persona e il suo insegnamento, avanzando tesi che non sono piaciute alla Congregazione per la Dottrina della Fede, fin dall’epoca in cui la potente congregazione era presieduta proprio dal prof. Ratzinger. Oggi, le autorità vaticane sono arrivate ad ingiungere ad Haight di astenersi dall’insegnamento, anche in istituti non cattolici, “finché le sue posizioni non siano rettificate così da essere in piena conformità con la dottrina della Chiesa”.
Di questa vicenda non si è occupato nessuno, nessun organo di stampa ne ha parlato o scritto. Tutti, in questi giorni, commentano un’altra decisione papale, quella di sollevare dalla scomunica i vescovi della Fraternità San Pio X, i cosiddetti lefebrviani. I mass media seguono la vicenda non tanto per quel significa per sé (o anche per i malumori che ha suscitato presso il clero francese) ma per gli strascichi che ne sono seguiti. Uno dei vescovi della Fraternità, Richard Williamson, ha manifestato, in più di una occasione, sentimenti antiebraici, arrivando anche a negare la verità storica dell’Olocausto. Niente di strano in questo, la cultura cattolica più tradizionale è sempre stata, checché se ne dica, antiebraica: per quella cultura gli ebrei sono sempre i perfidi assassini di Gesù Cristo. Ma la decisione è stata aspramente commentata dal mondo ebraico, già da tempo insospettito di certi disinvolti atteggiamenti ratzingeriani nei loro confronti.
Certo, questa notizia fa scalpore. Noi però la leggiamo nella filigrana dell’altra, che qui riportiamo, relativa al teologo Haight. E perché? Perché, come ci dice esplicitamente la nota dell’agenzia diretta da Sndro Magister, dietro Haight quel che è preso di mira è probabilmente l’intero ordine dei gesuiti, e addirittura la persona del cardinal Martini, anche lui gesuita. Mettiamo in fila queste notizie, ed altre di cui la cronaca è da qualche tempo non avara, e noi avremo il quadro di un mondo cattolico abbastanza scosso, a disagio, sotto la guida di un pontefice che era stato (ci pare) chiamato a succedere all’estroverso Giovanni Paolo II per ridare certezze e unità alla Chiesa. Sta succedendo il contrario: oggi la chiesa è, in qualche modo, in una centrifuga, o almeno così appare, nonostante gli sforzi della Rai per patinarne (a spese del contribuente) l’immagine. Al centro del confronto è, va detto con tutta chiarezza, il Concilio Vaticano II, il suo tentativo di innovazione e di incardinamento della Chiesa cattolica nel mondo moderno. Questa fiammella viene tenuta accesa, con difficoltà, da qualche parte del mondo cattolico, per esempio nella scuola bolognese di Alberigo. Papa Ratzinger guida il tentativo, invece, di far trionfare ancora, sotto il baldacchino di San Pietro, il tradizionalismo più puro.
Secondo il teologo à la page Vito Mancuso, ci sarebbe il rischio di un po’ di reazione in agguato. No, no: qui siamo già dentro una vera e propria Controriforma. Ah, se invece di vaticanisti e di teologi ci fossero in giro giornalisti da inchiesta sul campo!
*Angiolo Bandinelli, toscano di Chianciano, ha diviso la sua vita tra passione letteraria, cultura, giornalismo e politica. Traduttore di Eliot, Coleridge, Stevenson e poeta lui stesso, è stato tra i primi iscritti del Partito radicale, di cui è stato segretario politico tra il 1969 e il 1972. Con la sua specifica caratura di intellettuale, si è battuto nelle grandi battaglie sui diritti civili, per il federalismo e per l’Europa. Ne ha raccontato in “Il radicale impunito - Diritti civili, nonviolenza, Europa”. A partire dagli anni Sessanta scrive di politica e cultura per il Mondo di Pannunzio, la Voce repubblicana, e innumerevoli altre testate. In “Opinioni per un anno”, ha raccolto articoli recenti scritti per tre quotidiani molto diversi fra loro: Il Foglio, L’Avanti e L’Opinione.
Chiesa padrona
"Il Vaticano nei confronti della Repubblica italiananon sta certo con le mani in mano.Le usa entrambe: una per chiedere quattrini,l'altra per suonar ceffoni in faccia alla politica.Questo doppio registro si consuma all'ombradel diritto, anzi: l'alibi perfetto è la legge più alta,quella scolpita sulle tavole della Costituzione.Conviene allora dirlo con chiarezza:tutta questa ricostruzione è un falso giuridico...Non è vero che le ingerenze vaticane siano protettedalla libertà di parola o dalla libertà di religione:non è vero che il Concordato sia protettodalla Costituzione."
La Chiesa cattolica attinge abbondantemente alle risorse pubbliche dello Stato italiano: ogni anno milioni di euro vengono dirottati dal governo centrale e dagli enti locali, che si sono fatti di recente ancor più solerti. Questo tuttavia non impedisce al Vaticano pesanti incursioni nella vita pubblica del nostro paese: è pressoché impossibile che un provvedimento legislativo venga approvato senza il suo benestare; e quando accade, le resistenze della Chiesa cercano di impedirne l’applicazione. È una situazione abnorme, che trova il suo fondamento nel Concordato siglato l’11 febbraio 1929 da Pio IX con Benito Mussolini, che lo stesso pontefice aveva definito «l’uomo della Provvidenza». Quel patto venne accolto dalla Costituzione repubblicana attraverso l’articolo 7. Infine nel 1984 il Concordato fu rinnovato dall’accordo tra Craxi e Giovanni Paolo II. Oggi il trattamento privilegiato di cui gode il Vaticano non ha più alcun fondamento giuridico, argomenta Michele Ainis: l’articolo 7 era una norma provvisoria, e oggi è un farmaco scaduto. Oltretutto quelle dei vertici della Chiesa si configurano come vere e proprie ingerenze di uno stato straniero nei nostri affari interni. Infine, in una società sempre più complessa, i privilegi concordatari creano inevitabilmente una disparità di trattamento rispetto a cittadini italiani che seguono altre fedi (e soprattutto a quelli che non si sentono affiliati ad alcuna chiesa). Attento alla logica giuridica e alla storia, il saggio propone un nuovo fondamento al patto tra lo Stato italiano e il Vaticano. Un rapporto più limpido e corretto tutelerà in maniera più efficace la libertà e la dignità dei cittadini italiani; e aiuterà chi vuole davvero occuparsi della cura delle anime a farlo senza impastoiarsi nelle polemiche politiche.
La Chiesa cattolica attinge abbondantemente alle risorse pubbliche dello Stato italiano: ogni anno milioni di euro vengono dirottati dal governo centrale e dagli enti locali, che si sono fatti di recente ancor più solerti. Questo tuttavia non impedisce al Vaticano pesanti incursioni nella vita pubblica del nostro paese: è pressoché impossibile che un provvedimento legislativo venga approvato senza il suo benestare; e quando accade, le resistenze della Chiesa cercano di impedirne l’applicazione. È una situazione abnorme, che trova il suo fondamento nel Concordato siglato l’11 febbraio 1929 da Pio IX con Benito Mussolini, che lo stesso pontefice aveva definito «l’uomo della Provvidenza». Quel patto venne accolto dalla Costituzione repubblicana attraverso l’articolo 7. Infine nel 1984 il Concordato fu rinnovato dall’accordo tra Craxi e Giovanni Paolo II. Oggi il trattamento privilegiato di cui gode il Vaticano non ha più alcun fondamento giuridico, argomenta Michele Ainis: l’articolo 7 era una norma provvisoria, e oggi è un farmaco scaduto. Oltretutto quelle dei vertici della Chiesa si configurano come vere e proprie ingerenze di uno stato straniero nei nostri affari interni. Infine, in una società sempre più complessa, i privilegi concordatari creano inevitabilmente una disparità di trattamento rispetto a cittadini italiani che seguono altre fedi (e soprattutto a quelli che non si sentono affiliati ad alcuna chiesa). Attento alla logica giuridica e alla storia, il saggio propone un nuovo fondamento al patto tra lo Stato italiano e il Vaticano. Un rapporto più limpido e corretto tutelerà in maniera più efficace la libertà e la dignità dei cittadini italiani; e aiuterà chi vuole davvero occuparsi della cura delle anime a farlo senza impastoiarsi nelle polemiche politiche.
Michele Ainis
Chiesa padrona
un falso giuridico dai Patti Lateranensi a oggi
Ed. Garzanti13.00 €
sabato, gennaio 24, 2009
Obiezione senza coscienza
da La Repubblica del 23 gennaio
di Adriano Sofri
Cominciamo dallo Stato, un ministro, per passare poi alla Chiesa, un cardinale. Il ministro stava superior, più in alto, e longe inferior, di gran lunga più in basso, il direttore di clinica udinese. Il direttore aveva fatto sapere di essere pronto ad accogliere Eluana per dare esecuzione a una sentenza definitiva dello Stato di cui il ministro è provvisorio governante, passata attraverso tutti i gradi di giudizio e tutte le Corti immaginabili, Costituzionale compresa.
Il ministro gli ha indirizzato una circolare: "Mi intorbidi le acque", gli ha detto. Ma tu stai lì in alto, a Roma, e io qui in basso, in Friuli, ha belato il direttore, persona degnissima, ma, siccome al copione non si sfugge, né un lupo, né un cuor di leone, bensì un mite agnello, oltretutto spaventato per la responsabilità di tanti suoi pazienti e dipendenti. Devo cedere all’intimidazione ha detto. Allora il ministro, con una veemente logica ministeriale, ha ringhiato: "Io non sono un tipo che si lasci intimidire". Se l’agnello, cioè il direttore, avesse avuto la forza d’animo di prendere su sé i peccati del mondo ministeriale, avrebbe avuto dalla propria la legge e la coscienza, avrebbe tirato dritto per la sua strada, pregiudicando la propria carriera e mettendo a repentaglio le persone a lui affidate, in nome di quello che sentiva giusto. Nessuno può rimproverarlo per non averlo fatto, ma molti avrebbero approvato di tutto cuore se l’avesse fatto. La coscienza, e il suo corollario, l’obiezione di coscienza, hanno infatti un costo molto alto. O, se volete vederla dalla parte in alto, ministri e sottosegretarie hanno una gran fame. Tuttavia il direttore ci ha provato, e il presidente della sua nobile regione, indipendentemente dalla sua affiliazione politica (centro destra) ha voluto testimoniare a Beppino Englaro la fedeltà a un’ antica amicizia e la solidarietà con la sua battaglia.
Fin qui lo Stato. Ora la Chiesa. La Presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso (centrosinistra, ma non importa), ha dichiarato di voler offrire alla legalità, oltre che all’umanità offesa di una famiglia, la realizzazione di quella sentenza definitiva e illesa dai più furbeschi espedienti. In una struttura pubblica, perché ministri e sottosegretarie non possono tagliare l’acqua a un ospedale pubblico (non potrebbero nemmeno con una clinica convenzionata, ma sai com’è), tanto più quando si tratta di applicare la legge. Il cardinale arcivescovo di Torino è una forte autorità, ma non sta più in alto. A seguire quella storia della moneta, a Cesare quel che è di Cesare eccetera, Arcivescovo e Presidente della Regione (anzi: più esattamente, sindaco, che nel nostro caso la pensa come la Presidente) si abbeverano alla stessa altezza del Po: uno su una riva, per così dire, l’altra sulla riva opposta. L’acqua scorre torbida, ma non se la possono rinfacciare. Un momento: non è affatto detto. Perché qualcuno che stia più in alto, ha osservato l’arcivescovo, c’è: se non io, Dio. Il precetto evangelico non dice: "... e al cardinale quel che è del cardinale". Dice: A Dio. E Dio stat superior, sta più in alto, per definizione; e presidenti di regione e sindaci longe inferiores, molto, molto più in basso. E "la legge di Dio è superiore a quella degli uomini" (e delle donne, s’intende). Ora, questo è vero, ma a un paio almeno di condizioni. Che si creda in Dio, altrimenti la frase è senza senso. Lo Stato infatti si deve guardare dal credere in Dio almeno quanto dal non crederci. L’altra condizione è che Dio sia senz’altro dell’opinione dell’arcivescovo: illazione di cui è lecito anche ai credenti più fervidi dubitare in parecchi casi, e in questo più robustamente. I credenti hanno bensì nel loro Dio - salvo equivocarne le intenzioni - una guida superiore e anzi suprema alle loro scelte. Ma esattamente allo stesso modo i non credenti hanno nella propria coscienza una guida limpida, salvo scegliere di seguirla o no. Quando l’arcivescovo, in nome della propria interpretazione della volontà di Dio, invita apertamente il suo gregge, diciamo così, a farsi fuorilegge, compie un passo molto azzardato. Perché tramuta un’opinione affatto controversa - e nell’ambito della stessa Chiesa - in un dogma di fede, e perché tramuta la coscienza personale in una coscienza collettiva e gregaria. Questo sarebbe accettabile e anzi ammirevole, se avvenisse in una circostanza in cui l’obiezione di coscienza costasse cara ai suoi autori. L’obiezione di coscienza è la più nobile delle espressioni personali, al costo della vita quieta, della libertà e fino della vita. Tutto il mai spento, e mai spegnibile, tormentarsi sul cosiddetto silenzio della Chiesa di fronte allo sterminio, ha a che fare con questo. E possono, i difensori della Chiesa, rivendicare che non fu vero silenzio, e soprattutto che prevalse il senso di responsabilità verso il proprio gregge. Motivo che somiglierebbe a quello addotto francamente dal direttore della clinica convenzionata, benché con conseguenze del tutto incomparabili. Ora, l’obiezione di coscienza cui chiama l’arcivescovo torinese assomiglia alle troppe altre invalse nel nostro secolo nuovo di intrepidi, per esempio nei reparti in cui rifiutare l’aborto terapeutico o anche la somministrazione di una pillola giova alla carriera, quando non ne diventi una condizione necessaria. Non c’è galera, né martirio, né morte per i fedeli che si uniformino alla chiamata dell’arcivescovo. Semplicemente, una felice combinazione fra aspettativa ministeriale e aspettativa cardinalizia. Il rebus cavouriano risolto in un colpo. Una circolare ministeriale sul taglio dei finanziamenti-"Io non mi faccio intimidire!" - e una circolare arcivescovile sulla dannazione delle anime- "La legge di Dio è superiore a quella degli uomini" (e delle donne).
Ho un vero rispetto per le convinzioni altrui, anche le più diverse dalle mie, che intuisco sincere e sofferte. L’amore per la vita di Eluana può essere bellissimo, a qualunque augurio dia origine, quello di una suorina o del signor Beppino. Ma l’ appetito proprietario per il corpo di Eluana mi allarma come un proclama di annessione del corpo di ciascun altro, e del mio. Siamo arrivati, a passo di sottosegretarie, a negare il diritto di ciascuno a curarsi o a non curarsi. Siamo sul punto di stabilire che non sia diritto di ciascuno nutrirsi o non nutrirsi. Stiamo rifacendo a ritroso la strada della depenalizzazione - e della demoralizzazione del suicidio. Fra poco, se non è già avvenuto, il mio amico Ignazio Marino rimpiangerà di essersi prodigato per una disposizione sulla fine della vita che obbligherà per legge all’alimentazione artificiale. Ho letto anche qui che la convinzione della cosiddetta "indisponibilità della vita, anche della propria" è un’acquisizione condivisa di credenti e no. Io mi strofino gli occhi e mi pizzico le guance. La vita altrui non può essere manomessa, e guai a noi se lo dimentichiamo, in guerra e in pace. Ma la propria! Il fatto è che si continua a chiedersi: "Di chi è la mia vita?", e non ci si accorge più del gioco di parole della domanda. La stessa dichiarazione che la mia vita sia mia suppone che ci sia io da una parte, e la mia vita dall’altra. Che io non sia la mia vita, ma qualcosa d’altro - l’anima che mi sopravviverà? lo scimpanzé che fui e la tartaruga che diventerò? La domanda ha bisogno solo di rinunciare per un momento a quella minuscola preposizione, "di". "Chi è la mia vita?". Il ministro, l’arcivescovo, il medico, il consigliere di Cassazione, il segretario del Partito o il colonnello del Distretto? O io?
di Adriano Sofri
Cominciamo dallo Stato, un ministro, per passare poi alla Chiesa, un cardinale. Il ministro stava superior, più in alto, e longe inferior, di gran lunga più in basso, il direttore di clinica udinese. Il direttore aveva fatto sapere di essere pronto ad accogliere Eluana per dare esecuzione a una sentenza definitiva dello Stato di cui il ministro è provvisorio governante, passata attraverso tutti i gradi di giudizio e tutte le Corti immaginabili, Costituzionale compresa.
Il ministro gli ha indirizzato una circolare: "Mi intorbidi le acque", gli ha detto. Ma tu stai lì in alto, a Roma, e io qui in basso, in Friuli, ha belato il direttore, persona degnissima, ma, siccome al copione non si sfugge, né un lupo, né un cuor di leone, bensì un mite agnello, oltretutto spaventato per la responsabilità di tanti suoi pazienti e dipendenti. Devo cedere all’intimidazione ha detto. Allora il ministro, con una veemente logica ministeriale, ha ringhiato: "Io non sono un tipo che si lasci intimidire". Se l’agnello, cioè il direttore, avesse avuto la forza d’animo di prendere su sé i peccati del mondo ministeriale, avrebbe avuto dalla propria la legge e la coscienza, avrebbe tirato dritto per la sua strada, pregiudicando la propria carriera e mettendo a repentaglio le persone a lui affidate, in nome di quello che sentiva giusto. Nessuno può rimproverarlo per non averlo fatto, ma molti avrebbero approvato di tutto cuore se l’avesse fatto. La coscienza, e il suo corollario, l’obiezione di coscienza, hanno infatti un costo molto alto. O, se volete vederla dalla parte in alto, ministri e sottosegretarie hanno una gran fame. Tuttavia il direttore ci ha provato, e il presidente della sua nobile regione, indipendentemente dalla sua affiliazione politica (centro destra) ha voluto testimoniare a Beppino Englaro la fedeltà a un’ antica amicizia e la solidarietà con la sua battaglia.
Fin qui lo Stato. Ora la Chiesa. La Presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso (centrosinistra, ma non importa), ha dichiarato di voler offrire alla legalità, oltre che all’umanità offesa di una famiglia, la realizzazione di quella sentenza definitiva e illesa dai più furbeschi espedienti. In una struttura pubblica, perché ministri e sottosegretarie non possono tagliare l’acqua a un ospedale pubblico (non potrebbero nemmeno con una clinica convenzionata, ma sai com’è), tanto più quando si tratta di applicare la legge. Il cardinale arcivescovo di Torino è una forte autorità, ma non sta più in alto. A seguire quella storia della moneta, a Cesare quel che è di Cesare eccetera, Arcivescovo e Presidente della Regione (anzi: più esattamente, sindaco, che nel nostro caso la pensa come la Presidente) si abbeverano alla stessa altezza del Po: uno su una riva, per così dire, l’altra sulla riva opposta. L’acqua scorre torbida, ma non se la possono rinfacciare. Un momento: non è affatto detto. Perché qualcuno che stia più in alto, ha osservato l’arcivescovo, c’è: se non io, Dio. Il precetto evangelico non dice: "... e al cardinale quel che è del cardinale". Dice: A Dio. E Dio stat superior, sta più in alto, per definizione; e presidenti di regione e sindaci longe inferiores, molto, molto più in basso. E "la legge di Dio è superiore a quella degli uomini" (e delle donne, s’intende). Ora, questo è vero, ma a un paio almeno di condizioni. Che si creda in Dio, altrimenti la frase è senza senso. Lo Stato infatti si deve guardare dal credere in Dio almeno quanto dal non crederci. L’altra condizione è che Dio sia senz’altro dell’opinione dell’arcivescovo: illazione di cui è lecito anche ai credenti più fervidi dubitare in parecchi casi, e in questo più robustamente. I credenti hanno bensì nel loro Dio - salvo equivocarne le intenzioni - una guida superiore e anzi suprema alle loro scelte. Ma esattamente allo stesso modo i non credenti hanno nella propria coscienza una guida limpida, salvo scegliere di seguirla o no. Quando l’arcivescovo, in nome della propria interpretazione della volontà di Dio, invita apertamente il suo gregge, diciamo così, a farsi fuorilegge, compie un passo molto azzardato. Perché tramuta un’opinione affatto controversa - e nell’ambito della stessa Chiesa - in un dogma di fede, e perché tramuta la coscienza personale in una coscienza collettiva e gregaria. Questo sarebbe accettabile e anzi ammirevole, se avvenisse in una circostanza in cui l’obiezione di coscienza costasse cara ai suoi autori. L’obiezione di coscienza è la più nobile delle espressioni personali, al costo della vita quieta, della libertà e fino della vita. Tutto il mai spento, e mai spegnibile, tormentarsi sul cosiddetto silenzio della Chiesa di fronte allo sterminio, ha a che fare con questo. E possono, i difensori della Chiesa, rivendicare che non fu vero silenzio, e soprattutto che prevalse il senso di responsabilità verso il proprio gregge. Motivo che somiglierebbe a quello addotto francamente dal direttore della clinica convenzionata, benché con conseguenze del tutto incomparabili. Ora, l’obiezione di coscienza cui chiama l’arcivescovo torinese assomiglia alle troppe altre invalse nel nostro secolo nuovo di intrepidi, per esempio nei reparti in cui rifiutare l’aborto terapeutico o anche la somministrazione di una pillola giova alla carriera, quando non ne diventi una condizione necessaria. Non c’è galera, né martirio, né morte per i fedeli che si uniformino alla chiamata dell’arcivescovo. Semplicemente, una felice combinazione fra aspettativa ministeriale e aspettativa cardinalizia. Il rebus cavouriano risolto in un colpo. Una circolare ministeriale sul taglio dei finanziamenti-"Io non mi faccio intimidire!" - e una circolare arcivescovile sulla dannazione delle anime- "La legge di Dio è superiore a quella degli uomini" (e delle donne).
Ho un vero rispetto per le convinzioni altrui, anche le più diverse dalle mie, che intuisco sincere e sofferte. L’amore per la vita di Eluana può essere bellissimo, a qualunque augurio dia origine, quello di una suorina o del signor Beppino. Ma l’ appetito proprietario per il corpo di Eluana mi allarma come un proclama di annessione del corpo di ciascun altro, e del mio. Siamo arrivati, a passo di sottosegretarie, a negare il diritto di ciascuno a curarsi o a non curarsi. Siamo sul punto di stabilire che non sia diritto di ciascuno nutrirsi o non nutrirsi. Stiamo rifacendo a ritroso la strada della depenalizzazione - e della demoralizzazione del suicidio. Fra poco, se non è già avvenuto, il mio amico Ignazio Marino rimpiangerà di essersi prodigato per una disposizione sulla fine della vita che obbligherà per legge all’alimentazione artificiale. Ho letto anche qui che la convinzione della cosiddetta "indisponibilità della vita, anche della propria" è un’acquisizione condivisa di credenti e no. Io mi strofino gli occhi e mi pizzico le guance. La vita altrui non può essere manomessa, e guai a noi se lo dimentichiamo, in guerra e in pace. Ma la propria! Il fatto è che si continua a chiedersi: "Di chi è la mia vita?", e non ci si accorge più del gioco di parole della domanda. La stessa dichiarazione che la mia vita sia mia suppone che ci sia io da una parte, e la mia vita dall’altra. Che io non sia la mia vita, ma qualcosa d’altro - l’anima che mi sopravviverà? lo scimpanzé che fui e la tartaruga che diventerò? La domanda ha bisogno solo di rinunciare per un momento a quella minuscola preposizione, "di". "Chi è la mia vita?". Il ministro, l’arcivescovo, il medico, il consigliere di Cassazione, il segretario del Partito o il colonnello del Distretto? O io?
sabato, gennaio 17, 2009
Vergognoso linciaggio del corpo e della volontà di Eluana
Dichiarazione di Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale e co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni:
Il ricatto del ministro del Welfare Sacconi ha raggiunto dunque il suo scopo. Con una interferenza arrogante e prepotente che non ha riscontro, il ministro – e con lui il Governo – hanno odiosamente intimidito la clinica che era disposta a rendere esecutiva la sentenza della Corte di Cassazione e della Corte d'Appello di Milano. E' un oltraggio e una ferita gravissima che viene inferta con cinismo e senza misericordia: quella misericordia che – ricordo – ebbe Papa Giovanni Paolo II, quando chiese – e venne esaudito – di essere libero di poter "andare alla casa del padre. Non posso che manifestare una profonda amarezza e indignazione per quello che sta accadendo: un vero e proprio oltraggio al diritto, alla legge, alle leggi dell'umanità. Esprimo piena, incondizionata, totale solidarietà alla famiglia di Eluana Englaro, sottoposta a un incredibile e vergognoso linciaggio. Sono stata vicino a papà Beppino nella sua coraggiosa battaglia, continuerò a sostenerlo e mi batterò con i miei compagni radicali per una buona legge sul testamento biologico e di fine vita. Tornerò da Eluana, come ho fatto un anno fa. Siamo con loro, per affermare il diritto a una vita degna di questo nome ed assicurare una morte senza dolore quando la vita non è più vita.
Eluana, Viale: clinica di Udine costretta a cedere alle minacce di ritorsione del governo Berlusconi. Domenica fiaccolata a Lecco a 17 anni dall’incidente
Silvio Viale ribadisce la propria disponibilità ad aiutare Eluana nelle forme che il Tutore ed il Curatore riterranno più opportune.
Torino, 16 gennaio 2009
Dichiarazione di Silvio Viale, medico, dirigente radicale e di EXIT-Italia
E’ chiaro che l’obiettivo del Governo di Berlusconi è quello di impedire l’attuazione di una sentenza della magistratura con qualunque mezzo, anche se l’ipocrisia mantiene il Presidente del Consiglio apparentemente lontano dalla questione. La Clinica di Udine ha dovuto cedere alle minacce di ritorsione inviate attraverso una circolare illegittima. Domenica saranno trascorsi 17 anni dall’incidente e una fiaccolata manifesterà solidarietà a Eluana ed alla sua famiglia. Eluana, purtroppo, non c’è più da allora. La miopia dei vitalisti estremi, di quelli che nel non rispetto della vita degli altri vedono la realizzazione della propria, è tale che non si accorgono nemmeno che la vicenda di Eluana è destinata a smuovere sempre di più le coscienze. Più manterranno Eluana prigioniera del proprio sarcofago, senza più alcuna consapevolezza vitale, ingozzata come le oche, e più forte crescerà la battaglia per l’autodeterminazione e la vera eutanasia volontaria. Io, come tantissimi medici di coscienza, sono pronto ad aiutare Eluana nelle forme che il Tutore ed il Curatore riterranno più opportune, ma devo dire anche grazie a chi sta sempre più trasformando Eluana, suo malgrado, nel più efficace simbolo permanente di una battaglia di libertà contro il governo dell’antilibertà. Il sentimento popolare è con Eluana e non tarderà a farlo capire anche agli imbalsamatori del governo di Berlusconi.
Silvio Viale
Il ricatto del ministro del Welfare Sacconi ha raggiunto dunque il suo scopo. Con una interferenza arrogante e prepotente che non ha riscontro, il ministro – e con lui il Governo – hanno odiosamente intimidito la clinica che era disposta a rendere esecutiva la sentenza della Corte di Cassazione e della Corte d'Appello di Milano. E' un oltraggio e una ferita gravissima che viene inferta con cinismo e senza misericordia: quella misericordia che – ricordo – ebbe Papa Giovanni Paolo II, quando chiese – e venne esaudito – di essere libero di poter "andare alla casa del padre. Non posso che manifestare una profonda amarezza e indignazione per quello che sta accadendo: un vero e proprio oltraggio al diritto, alla legge, alle leggi dell'umanità. Esprimo piena, incondizionata, totale solidarietà alla famiglia di Eluana Englaro, sottoposta a un incredibile e vergognoso linciaggio. Sono stata vicino a papà Beppino nella sua coraggiosa battaglia, continuerò a sostenerlo e mi batterò con i miei compagni radicali per una buona legge sul testamento biologico e di fine vita. Tornerò da Eluana, come ho fatto un anno fa. Siamo con loro, per affermare il diritto a una vita degna di questo nome ed assicurare una morte senza dolore quando la vita non è più vita.
Eluana, Viale: clinica di Udine costretta a cedere alle minacce di ritorsione del governo Berlusconi. Domenica fiaccolata a Lecco a 17 anni dall’incidente
Silvio Viale ribadisce la propria disponibilità ad aiutare Eluana nelle forme che il Tutore ed il Curatore riterranno più opportune.
Torino, 16 gennaio 2009
Dichiarazione di Silvio Viale, medico, dirigente radicale e di EXIT-Italia
E’ chiaro che l’obiettivo del Governo di Berlusconi è quello di impedire l’attuazione di una sentenza della magistratura con qualunque mezzo, anche se l’ipocrisia mantiene il Presidente del Consiglio apparentemente lontano dalla questione. La Clinica di Udine ha dovuto cedere alle minacce di ritorsione inviate attraverso una circolare illegittima. Domenica saranno trascorsi 17 anni dall’incidente e una fiaccolata manifesterà solidarietà a Eluana ed alla sua famiglia. Eluana, purtroppo, non c’è più da allora. La miopia dei vitalisti estremi, di quelli che nel non rispetto della vita degli altri vedono la realizzazione della propria, è tale che non si accorgono nemmeno che la vicenda di Eluana è destinata a smuovere sempre di più le coscienze. Più manterranno Eluana prigioniera del proprio sarcofago, senza più alcuna consapevolezza vitale, ingozzata come le oche, e più forte crescerà la battaglia per l’autodeterminazione e la vera eutanasia volontaria. Io, come tantissimi medici di coscienza, sono pronto ad aiutare Eluana nelle forme che il Tutore ed il Curatore riterranno più opportune, ma devo dire anche grazie a chi sta sempre più trasformando Eluana, suo malgrado, nel più efficace simbolo permanente di una battaglia di libertà contro il governo dell’antilibertà. Il sentimento popolare è con Eluana e non tarderà a farlo capire anche agli imbalsamatori del governo di Berlusconi.
Silvio Viale
Vedova Pinelli: Calabresi, mai creduto alla colpevolezza di Sofri
'Mio marito ucciso in questura: e' una ferita che va riparata'
Roma, 15 gen. (Apcom) - L'anarchico Pino Pinelli è stato ucciso in questura e dell'omicidio del commissario Calabresi non è colpevole Adriano Sofri. A ribadire le sue convinzioni, a quasi quarant'anni di distanza da quei tragici episodi, è la vedova di Pinelli, Licia Rognini, intervistata dall'Espresso per commentare il libro di Adriano Sofri sull'assassinio del commissario Calabresi. "L'ho detto anche ai giudici che me l'hanno chiesto, ne sono così convinta - dice - che è come se l'avessi visto con i miei occhi. L'hanno colpito, l'hanno creduto morto e l'hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che era in quella stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di sperarlo".
Alla domanda se pensi che suo marito, che era stato arrestato come indiziato della strage dio piazza Fontana, abbia cercato di dire qualcosa prima di morire, la vedova risponde: "Non ne ho nessuna prova. Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta".
"La morte di mio marito, a 40 anni di distanza, è una ferita aperta, un'ingiustizia - dice la signora Rognini - che deve essere riparata". Secondo la vedova Pinelli "sono troppe le bugie di quei processi, le contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che archivia il fatto come morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio e D'Ambrosio che conclude per il 'malore attivo'. Non posso credere che questa tragedia sia sepolta senza una verità".
Quanto a Sofri, che è stato condannato per l'omicidio Calabresi dopo una lunga serie di procedimenti, ha sempre negato la sua colpevolezza e nel suo ultimo libro ammette una responsabilità 'politica' per la campagna contro il funzionario di polizia che all'eopca fu ritenuto da molti responsabile della fine di Pinelli, "non ho mai creduto - dice Licia Rognini - alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche come ispiratori di quel delitto. E' mia convinzione che i responsabili vadano cercati altrove. So che è un'opinione poco condivisa, ma credo che Calabresi sia stato ammazzato perché non potesse più parlare, come tanti altri che avevano avuto a che fare con la strage di piazza
Roma, 15 gen. (Apcom) - L'anarchico Pino Pinelli è stato ucciso in questura e dell'omicidio del commissario Calabresi non è colpevole Adriano Sofri. A ribadire le sue convinzioni, a quasi quarant'anni di distanza da quei tragici episodi, è la vedova di Pinelli, Licia Rognini, intervistata dall'Espresso per commentare il libro di Adriano Sofri sull'assassinio del commissario Calabresi. "L'ho detto anche ai giudici che me l'hanno chiesto, ne sono così convinta - dice - che è come se l'avessi visto con i miei occhi. L'hanno colpito, l'hanno creduto morto e l'hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che era in quella stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di sperarlo".
Alla domanda se pensi che suo marito, che era stato arrestato come indiziato della strage dio piazza Fontana, abbia cercato di dire qualcosa prima di morire, la vedova risponde: "Non ne ho nessuna prova. Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta".
"La morte di mio marito, a 40 anni di distanza, è una ferita aperta, un'ingiustizia - dice la signora Rognini - che deve essere riparata". Secondo la vedova Pinelli "sono troppe le bugie di quei processi, le contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che archivia il fatto come morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio e D'Ambrosio che conclude per il 'malore attivo'. Non posso credere che questa tragedia sia sepolta senza una verità".
Quanto a Sofri, che è stato condannato per l'omicidio Calabresi dopo una lunga serie di procedimenti, ha sempre negato la sua colpevolezza e nel suo ultimo libro ammette una responsabilità 'politica' per la campagna contro il funzionario di polizia che all'eopca fu ritenuto da molti responsabile della fine di Pinelli, "non ho mai creduto - dice Licia Rognini - alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche come ispiratori di quel delitto. E' mia convinzione che i responsabili vadano cercati altrove. So che è un'opinione poco condivisa, ma credo che Calabresi sia stato ammazzato perché non potesse più parlare, come tanti altri che avevano avuto a che fare con la strage di piazza
venerdì, gennaio 16, 2009
Adriano Sofri, La Notte che Pinelli
in libreria dal 15 gennaio
Adriano Sofri (su 'Il Foglio')
Allora: vent’anni fa – ventuno, quasi – Leonardo Marino, già mio compagno e amico, si intrattenne segretamente per un mesetto con un alto ufficiale dei carabinieri, cui era stato avviato da un alto ufficiale del Pci. Quando finalmente fu portato davanti a un magistrato, e mise a verbale la sua confessione, io e altre due persone fummo arrestati. Marino disse – in rapida successione – le seguenti cose. Che la sera di un mio comizio pisano che commemorava la morte in carcere per bastonate del ragazzo Franco Serantini, “era stato avvicinato da Pietrostefani e da Sofri”. Pietrostefani potè subito dimostrare di non essersi trovato a Pisa quel giorno – era colpito da un mandato di cattura per un volantino, e le meticolose fonti di polizia escludevano la sua presenza. Allora Marino retrocesse i colloqui con Pietrostefani, e disse di essere stato lui ad avvicinare me, solo, a un angolo di strada, dopo un tranquillo sciamare collettivo alla conclusione del comizio. Però io avevo testimoni sui miei movimenti – compresa la persona che alla fine del comizio mi aveva accompagnato a casa. E Marino si era dimenticato che durante e dopo quel comizio era caduta una pioggia “battente e insistente”, un “acquazzone” ecc. (così i quotidiani di destra e di sinistra del tempo, oltre che decine di fotografie e centinaia di testimonianze), ciò che rendeva implausibile la passeggiata al termine della quale piazzava il colloquio con me. Colloquio il cui contenuto variò turbinosamente, riducendosi via via, da una dettagliata discussione politica e trattazione di istruzioni operative, “una decina di minuti”, a un mio frettoloso assenso alla domanda sull’intenzione di uccidere Calabresi – “una conferma”, “trenta secondi”. Dopo di che, riferisce Marino, “salutai e ripartii per Torino”. Però io osservai che, mentre non c’era stata nessuna passeggiata e nessun bar e nessun colloquio (e c’era stata quella pioggia dirotta, che alcune sentenze, maghe della pioggia, hanno poi deciso di abolire, o di assottigliare fino a una amena pioggerellina), in realtà quella sera, di lì a qualche ora, dopo cena, Marino era venuto a casa mia (la casa pisana della mia famiglia, da lui già frequentata in passato) insieme a numerose altre persone, come avveniva dopo una manifestazione. Anche di questo c’erano numerosi testimoni. Allora Marino disse che sì, ora si ricordava, era venuto, del resto che c’era di strano che lui venisse da me, “quella casa era un porto di mare”. C’era di strano che si era inventato un colloquio stradale nella folla e nella pioggia mai avvenuto, e si era dimenticato una comoda visita domestica. Questo – riassunto in breve, ma è più grottesco – è tutto il complesso di prove che mi hanno fatto condannare (benché strada facendo ci sia stato un annullamento della Cassazione a Sezioni Unite, un’assoluzione in Corte d’Assise d’Appello per tutti, compreso il pentito, una riapertura e richiusura del processo per revisione) come mandante di un omicidio. Non ne avrei riscritto qua, se non perché faccia da premessa all’intervista di domenica di Marino al quotidiano L’Avvenire. (La storia è ricostruita da me nella “Memoria” uscita in volume da Sellerio, 1990, e in molte successive occasioni). Ora Marino è fra i commentatori del “contenuto del libro di Sofri” che non hanno ancora visto nemmeno da lontano il libro di Sofri. Nel quale, fin dal titolo dato all’intervista, si parla di “prime ammissioni”. “Vedo qualcosa di nuovo in queste parole”, decreta Marino, che però non può accontentarsene: esige una confessione completa. “Per la prima volta Sofri dice che Calabresi... non era nella sua stanza”. Bene: tralascio il resto (Marino che conferma l’impossibilità di darmi la grazia, e così via) e osservo che la bagarre preventiva sul mio libro ne ha provocato una distorsione tale che chi lo leggerà sarà indotto a rilevarne la distanza dalle “anticipazioni”. Io stesso, costretto come sono a correre dietro ai fraintendimenti e alla sequela di commenti campati in aria, mi rammarico di pregiudicare una lettura netta e delicata. Un aspetto impressionante del fraintendimento è che le frasi sulle quali si è concentrato il chiasso – con lo strillo: “Per la prima volta Sofri ammette...”, il dettaglio su Calabresi assente, “probabilmente”, dalla sua stanza ecc. – sono le stesse sulle quali poco fa si scatenò il chiasso – “Sofri rivendica l’omicidio”... Vedrete. Che abbia contribuito a questo in modo decisivo un “lancio” di Repubblica, che doveva conoscere un po’ meglio me e i miei pensieri, e ha invece sottolineato “la prima volta” di mie parole scelte a presentare il libro, non poteva che dispiacermi doppiamente. Per concludere su Marino. Penso poco a lui. Che cosa fareste con una persona che, per uscire da una sua disperazione, vende calunniosamente il prossimo, e ne viene premiato non facendo un solo giorno di carcere, e passando per cristiano esemplare sulle pagine dell’Avvenire? Io inclino da tempo alla considerazione revisionista della figura di Giuda, strumento da compiangere di un disegno provvidenziale, o traditore per troppo amore, e comunque bersaglio – “Porco Giuda” – di un odio assai imparentato all’antigiudaismo. Però a volte vacillo. Sono variamente detenuto da più di undici anni, e non devo vergognarmi di me a ogni nuova mattina. Chissà con che beati pensieri chiude Marino ognuna delle sue oneste giornate.
La notte che Pinelli Una storia di ieri, raccontata a chi c’era, e forse pensa di conoscerla, e specialmente a chi non c’era e ha voglia di sapere e capire.
304 pagine 12.00 Euro
Adriano Sofri (su 'Il Foglio')
Allora: vent’anni fa – ventuno, quasi – Leonardo Marino, già mio compagno e amico, si intrattenne segretamente per un mesetto con un alto ufficiale dei carabinieri, cui era stato avviato da un alto ufficiale del Pci. Quando finalmente fu portato davanti a un magistrato, e mise a verbale la sua confessione, io e altre due persone fummo arrestati. Marino disse – in rapida successione – le seguenti cose. Che la sera di un mio comizio pisano che commemorava la morte in carcere per bastonate del ragazzo Franco Serantini, “era stato avvicinato da Pietrostefani e da Sofri”. Pietrostefani potè subito dimostrare di non essersi trovato a Pisa quel giorno – era colpito da un mandato di cattura per un volantino, e le meticolose fonti di polizia escludevano la sua presenza. Allora Marino retrocesse i colloqui con Pietrostefani, e disse di essere stato lui ad avvicinare me, solo, a un angolo di strada, dopo un tranquillo sciamare collettivo alla conclusione del comizio. Però io avevo testimoni sui miei movimenti – compresa la persona che alla fine del comizio mi aveva accompagnato a casa. E Marino si era dimenticato che durante e dopo quel comizio era caduta una pioggia “battente e insistente”, un “acquazzone” ecc. (così i quotidiani di destra e di sinistra del tempo, oltre che decine di fotografie e centinaia di testimonianze), ciò che rendeva implausibile la passeggiata al termine della quale piazzava il colloquio con me. Colloquio il cui contenuto variò turbinosamente, riducendosi via via, da una dettagliata discussione politica e trattazione di istruzioni operative, “una decina di minuti”, a un mio frettoloso assenso alla domanda sull’intenzione di uccidere Calabresi – “una conferma”, “trenta secondi”. Dopo di che, riferisce Marino, “salutai e ripartii per Torino”. Però io osservai che, mentre non c’era stata nessuna passeggiata e nessun bar e nessun colloquio (e c’era stata quella pioggia dirotta, che alcune sentenze, maghe della pioggia, hanno poi deciso di abolire, o di assottigliare fino a una amena pioggerellina), in realtà quella sera, di lì a qualche ora, dopo cena, Marino era venuto a casa mia (la casa pisana della mia famiglia, da lui già frequentata in passato) insieme a numerose altre persone, come avveniva dopo una manifestazione. Anche di questo c’erano numerosi testimoni. Allora Marino disse che sì, ora si ricordava, era venuto, del resto che c’era di strano che lui venisse da me, “quella casa era un porto di mare”. C’era di strano che si era inventato un colloquio stradale nella folla e nella pioggia mai avvenuto, e si era dimenticato una comoda visita domestica. Questo – riassunto in breve, ma è più grottesco – è tutto il complesso di prove che mi hanno fatto condannare (benché strada facendo ci sia stato un annullamento della Cassazione a Sezioni Unite, un’assoluzione in Corte d’Assise d’Appello per tutti, compreso il pentito, una riapertura e richiusura del processo per revisione) come mandante di un omicidio. Non ne avrei riscritto qua, se non perché faccia da premessa all’intervista di domenica di Marino al quotidiano L’Avvenire. (La storia è ricostruita da me nella “Memoria” uscita in volume da Sellerio, 1990, e in molte successive occasioni). Ora Marino è fra i commentatori del “contenuto del libro di Sofri” che non hanno ancora visto nemmeno da lontano il libro di Sofri. Nel quale, fin dal titolo dato all’intervista, si parla di “prime ammissioni”. “Vedo qualcosa di nuovo in queste parole”, decreta Marino, che però non può accontentarsene: esige una confessione completa. “Per la prima volta Sofri dice che Calabresi... non era nella sua stanza”. Bene: tralascio il resto (Marino che conferma l’impossibilità di darmi la grazia, e così via) e osservo che la bagarre preventiva sul mio libro ne ha provocato una distorsione tale che chi lo leggerà sarà indotto a rilevarne la distanza dalle “anticipazioni”. Io stesso, costretto come sono a correre dietro ai fraintendimenti e alla sequela di commenti campati in aria, mi rammarico di pregiudicare una lettura netta e delicata. Un aspetto impressionante del fraintendimento è che le frasi sulle quali si è concentrato il chiasso – con lo strillo: “Per la prima volta Sofri ammette...”, il dettaglio su Calabresi assente, “probabilmente”, dalla sua stanza ecc. – sono le stesse sulle quali poco fa si scatenò il chiasso – “Sofri rivendica l’omicidio”... Vedrete. Che abbia contribuito a questo in modo decisivo un “lancio” di Repubblica, che doveva conoscere un po’ meglio me e i miei pensieri, e ha invece sottolineato “la prima volta” di mie parole scelte a presentare il libro, non poteva che dispiacermi doppiamente. Per concludere su Marino. Penso poco a lui. Che cosa fareste con una persona che, per uscire da una sua disperazione, vende calunniosamente il prossimo, e ne viene premiato non facendo un solo giorno di carcere, e passando per cristiano esemplare sulle pagine dell’Avvenire? Io inclino da tempo alla considerazione revisionista della figura di Giuda, strumento da compiangere di un disegno provvidenziale, o traditore per troppo amore, e comunque bersaglio – “Porco Giuda” – di un odio assai imparentato all’antigiudaismo. Però a volte vacillo. Sono variamente detenuto da più di undici anni, e non devo vergognarmi di me a ogni nuova mattina. Chissà con che beati pensieri chiude Marino ognuna delle sue oneste giornate.
La notte che Pinelli Una storia di ieri, raccontata a chi c’era, e forse pensa di conoscerla, e specialmente a chi non c’era e ha voglia di sapere e capire.
304 pagine 12.00 Euro
venerdì, gennaio 09, 2009
Eluana, la controffensiva di papà Englaro.
Pronto il ricorso al Tar contro Formigoni
da Repubblica.it del 8 gennaio 2009
di Piero Colaprico
Si chiama "atto d'urgenza". I legali dicono di non averlo ancora organizzato, papà Beppino Englaro mantiene il silenzio che s'è imposto sulle questioni legali (e sabato sarà ospite a Che tempo che fa, Raitre). Ma risulta a Repubblica che la decisione sia stata presa, nel giorno della Befana. E che la controffensiva degli Englaro, "in nome dello Stato di diritto", sia pronta. Ed è pronta a scattare se la clinica di Udine, ancora impegnata a interrogarsi se e quando accettare la paziente Eluana, dovesse fare marcia indietro e dire di no. La decisione, in Friuli, forse slitterà ai primi giorni della prossima settimana, fa capire l'amministratore delegato della clinica Claudio Riccobon. E anche l'udienza per far ripartire la procedura di ricovero coatto della donna in stato vegetativo da oltre diciassette anni potrebbe celebrarsi, davanti al Tar, il tribunale amministrativo regionale, tra meno di due settimane. Le sentenze dei tribunali danno ragione ai ricorsi per conto di Eluana. Ma la Regione Lombardia a settembre si è rifiutata di fornire un hospice: lo stesso governatore Roberto Formigoni ha spiegato i criteri politici, ma anche religiosi, di questa scelta, restando sordo a ogni obiezione. Anzi, aggiungendo che "il Servizio sanitario nazionale dà compito alla Regione di assistere, curare, tentare di guarire, non esiste l'obbligo alle Regioni di dare la morte". E che la sentenza così com'era non gli bastava: "Ci dicano intanto che abbiamo un obbligo, sinora non l'hanno fatto". Inoltre, nei giorni di una campagna politico-religiosa contro le scelte degli Englaro, la Regione Lombardia ha accolto e ritrasmesso immediatamente la direttiva sui disabili emessa dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi. Un atto amministrativo che, nella notte tra il 16 e il 17 dicembre, aveva avuto la forza di dirottare l'autoambulanza che stava per prelevare Eluana Englaro dalle suore Misericordine di Lecco per trasportarla al terzo piano, reparto privato, della clinica "Città di Udine", dove tutto era pronto per "l'ultimo viaggio".
L'avvocato Vittorio Angiolini, d'accordo con la curatrice speciale di Eluana, Franca Alessio, ha dunque deciso di ricorrere contro la Regione. E lo scenario che si profila può portare a conseguenze che forse i politici non avevano preventivato. E cioè che, se verrà dichiarato illegittimo dal Tar della Lombardia il rifiuto del servizio sanitario a rispettare una sentenza (dello scorso luglio) confermata dalla Cassazione, il primo passo sarà la nomina di un commissario. Questo commissario speciale si sostituisce ai funzionari della Regione. E quindi ordina - ne ha il potere - di rispettare la sentenza. Cioè indica (impone) il luogo dove consentire a questa paziente di riprendere il cammino naturale della morte per incidente d'auto, bloccato da una rianimazione che non ha rianimato, inceppato da terapie e pratiche che Eluana, in vita, aveva dichiarato di non voler accettare. Eluana, quindi, potrebbe persino essere accompagna da una scorta di carabinieri o poliziotti per far valere i suoi diritti, calpestati - se gli Englaro otterranno ragione - dalla Regione e dal Welfare. Già all'indomani delle prese di posizione politiche contro le sentenze, alcuni magistrati e tecnici avevano eplicitamente suggerito di rivolgersi alla forza pubblica. Resta da aggiungere che questo ricorso era stato accantonato dagli Englaro solo quando i friulani avevano firmato il protocollo che stabiliva i criteri medici, umani e giuridici per gli ultimi giorni di una persona che, a detta della medicina internazionale più accreditata, vive "staccata" dal mondo esterno. E c'era (e c'è ancora) un primario dell'ospedale pubblico, Amato Da Monte, che s'era detto disponibile ad accompagnare Eluana alla morte, insieme con un'équipe di volontari (che ci sono ancora, senza defezioni).
da Repubblica.it del 8 gennaio 2009
di Piero Colaprico
Si chiama "atto d'urgenza". I legali dicono di non averlo ancora organizzato, papà Beppino Englaro mantiene il silenzio che s'è imposto sulle questioni legali (e sabato sarà ospite a Che tempo che fa, Raitre). Ma risulta a Repubblica che la decisione sia stata presa, nel giorno della Befana. E che la controffensiva degli Englaro, "in nome dello Stato di diritto", sia pronta. Ed è pronta a scattare se la clinica di Udine, ancora impegnata a interrogarsi se e quando accettare la paziente Eluana, dovesse fare marcia indietro e dire di no. La decisione, in Friuli, forse slitterà ai primi giorni della prossima settimana, fa capire l'amministratore delegato della clinica Claudio Riccobon. E anche l'udienza per far ripartire la procedura di ricovero coatto della donna in stato vegetativo da oltre diciassette anni potrebbe celebrarsi, davanti al Tar, il tribunale amministrativo regionale, tra meno di due settimane. Le sentenze dei tribunali danno ragione ai ricorsi per conto di Eluana. Ma la Regione Lombardia a settembre si è rifiutata di fornire un hospice: lo stesso governatore Roberto Formigoni ha spiegato i criteri politici, ma anche religiosi, di questa scelta, restando sordo a ogni obiezione. Anzi, aggiungendo che "il Servizio sanitario nazionale dà compito alla Regione di assistere, curare, tentare di guarire, non esiste l'obbligo alle Regioni di dare la morte". E che la sentenza così com'era non gli bastava: "Ci dicano intanto che abbiamo un obbligo, sinora non l'hanno fatto". Inoltre, nei giorni di una campagna politico-religiosa contro le scelte degli Englaro, la Regione Lombardia ha accolto e ritrasmesso immediatamente la direttiva sui disabili emessa dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi. Un atto amministrativo che, nella notte tra il 16 e il 17 dicembre, aveva avuto la forza di dirottare l'autoambulanza che stava per prelevare Eluana Englaro dalle suore Misericordine di Lecco per trasportarla al terzo piano, reparto privato, della clinica "Città di Udine", dove tutto era pronto per "l'ultimo viaggio".
L'avvocato Vittorio Angiolini, d'accordo con la curatrice speciale di Eluana, Franca Alessio, ha dunque deciso di ricorrere contro la Regione. E lo scenario che si profila può portare a conseguenze che forse i politici non avevano preventivato. E cioè che, se verrà dichiarato illegittimo dal Tar della Lombardia il rifiuto del servizio sanitario a rispettare una sentenza (dello scorso luglio) confermata dalla Cassazione, il primo passo sarà la nomina di un commissario. Questo commissario speciale si sostituisce ai funzionari della Regione. E quindi ordina - ne ha il potere - di rispettare la sentenza. Cioè indica (impone) il luogo dove consentire a questa paziente di riprendere il cammino naturale della morte per incidente d'auto, bloccato da una rianimazione che non ha rianimato, inceppato da terapie e pratiche che Eluana, in vita, aveva dichiarato di non voler accettare. Eluana, quindi, potrebbe persino essere accompagna da una scorta di carabinieri o poliziotti per far valere i suoi diritti, calpestati - se gli Englaro otterranno ragione - dalla Regione e dal Welfare. Già all'indomani delle prese di posizione politiche contro le sentenze, alcuni magistrati e tecnici avevano eplicitamente suggerito di rivolgersi alla forza pubblica. Resta da aggiungere che questo ricorso era stato accantonato dagli Englaro solo quando i friulani avevano firmato il protocollo che stabiliva i criteri medici, umani e giuridici per gli ultimi giorni di una persona che, a detta della medicina internazionale più accreditata, vive "staccata" dal mondo esterno. E c'era (e c'è ancora) un primario dell'ospedale pubblico, Amato Da Monte, che s'era detto disponibile ad accompagnare Eluana alla morte, insieme con un'équipe di volontari (che ci sono ancora, senza defezioni).
giovedì, gennaio 08, 2009
Il sacrificio dei bambini
da La Repubblica del 7 gennaio 2009
di Adriano Sofri
Quando i grandi giocano alla guerra, i bambini muoiono. Da Gaza, le immagini dei bambini ammazzati, mutilati, terrorizzati invadono i mezzi di comunicazione. Al Jazeera le trasmette in continuazione, inframmezzate a servizi e commenti. A sinistra, Hilmi al Samuli piange accanto ai corpi di due figlioletti e di un nipote. A destra, il corpo di una bimba emerge dai resti della sua casa a Zeitun.
Le redazioni dei giornali le accumulano, e si chiedono se metterle in pagina o no, e come. La risposta è facile quando l'esitazione è legata alla crudezza eccessiva, che può ferire lo spettatore. Ma già il verbo "ferire", impiegato nel suo senso traslato in un contesto simile, fa vergognare di averlo pronunciato. Siano pure feriti, gli occhi distratti e illesi degli spettatori: l'eccesso di crudezza non è dei fotogrammi, ma della realtà. Alla realtà si può scegliere di aprire o chiudere gli occhi, chi abbia la provvisoria fortuna di starne alla larga: ma vedere è una condizione per decidere meglio come destinare la propria voce pubblica, o la propria privata preghiera, o anche solo il proprio pianto. Bisogna risparmiarne la vista ai bambini, si avverte giustamente. Tuttavia c'è un doppio inciampo. Il primo: che ci si adopera per sottrarre bambini alla vista di bambini. Il secondo: che i bambini, anche i più premurosamente protetti, vengono sempre a sapere, per certe loro vie misteriose, le cose dalle quali i grandi vogliono ripararli, e ricevono e custodiscono in silenzio la notizia che nel mondo scoppiano guerre che uccidono e spaventano i bambini.
Più complicata è la decisione di chi fa i giornali quando si sa che sui bambini, sul loro dolore e il loro spavento, si combatte una guerra di propaganda brutale quanto quella delle armi. Basterebbe allargare l'obiettivo per inquadrare, attorno al primo piano di una vittima bambina, la ressa delle macchine fotografiche e delle telecamere. Morte amputazione e pianto di bambini vengono esibiti per guadagnare un consenso alla propria causa e una ribellione alle ragioni del nemico.
E non ci si limita all'esibizione: si può spingersi, come volontari terzi e disperati confidano in privato, a esporre deliberatamente all'azzardo peggiore i bambini della propria stessa gente, e perfino a ostacolarne il soccorso per rincarare la rendita del lutto e della commozione universale. Il cinismo politico e il fanatismo religioso cospirano alla lugubre venerazione del martirio dei bambini. Fra gli uomini che ostentano i piccoli corpi esanimi ce ne sono che hanno auspicato e provocato l'orrore che si va consumando. Tutto questo si sa, nelle redazioni dei giornali. A tutto questo si pensa. Ma non può bastare. Non può indurre a tenere per sé gli occhi rossi e accantonare le fotografie che spezzano il cuore. Una di queste fotografie l'ho appena ricevuta, attraverso la posta elettronica, e chi mi ha avvisato dell'inoltro non ha potuto trattenersi dall'avvisare: "E' tremenda". Le guerre, quelle vere e orrende, e quelle orrende che ne usurpano il nome, si trovano sempre qualche viso, qualche corpo infantile a ricordarle e deprecarle. C'è una ragione mista, di angoscia soffocante e di compiacimento della brutalità, che spiega la fortuna enorme di un tema come la strage degli innocenti nelle arti figurative.
La strage di Erode: non ci fu, probabilmente. Se ci fu, calcolano i demografi sulla base della popolazione presunta di Betlemme, uccise una ventina di bambini sotto i due anni. La demografia di Gaza diventa agghiacciante, quando suona la sirena delle bombe. La maggioranza della popolazione ammassata in quel fazzoletto di terra è composta di bambini e ragazzini: un giardino d'infanzia in un miserando zoo umano.
Non c'è nessun Erode geloso a mandare aerei e carri sulla striscia di miseria e rancore. Gli israeliani vogliono davvero ridurre al minimo le vittime civili. Non possono essere così disumani né così imbecilli da mirare a colpire i bambini. Ma quando si interviene con un simile spiegamento di forza in un enorme giardino d'infanzia, tanti (quanti?) bambini moriranno, resteranno feriti e mutilati, e, quelli che sopravviveranno, non lo dimenticheranno più, e assicureranno altre generazioni al trionfo dell'odio e della vendetta.
La gente di Israele e i suoi governanti ha un (provvisorio, minacciato, odiato) vantaggio nelle risorse possibili della forza e della ragione. Hamas bersaglia da anni case, scuole, strade di una popolazione civile israeliana cui è impedita una normale vita quotidiana. Hamas giura la distruzione di ogni cittadino di Israele e di ogni ebreo sulla terra. Hamas addestra ed esalta gli assassini suicidi. Hamas si serve vilmente degli scudi umani, predilige bambini donne e vecchi, tramuta moschee e pareti domestiche in ripari di armi e mine. Ma lo spregevole cinismo di Hamas libera Israele dalla responsabilità verso quelle donne, quei vecchi, quegli uomini, quei bambini? Che il mio nemico si nasconda dietro scudi umani mi autorizza a colpire? Potrò guardare quelle fotografie diffuse e ostentate dal mio nemico - una testa di bambina ingoiata dai detriti della sua stanza, gli occhi chiusi, la nera bocca spalancata a inghiottire la terra; tre piccoli cadaveri deposti su un pavimento di obitorio fortunoso, fratellini di Zejtun come messi a dormire vicini dopo una giornata di giochi, se non fosse per il sangue che ne allaga le vesti - con una commozione compensata dalla persuasione che non è colpa mia? Molti altri pensieri, molte altre emozioni contrastanti e laceranti suscitano queste immagini. Con una sola cosa certa: che bisogna pubblicarle.
di Adriano Sofri
Quando i grandi giocano alla guerra, i bambini muoiono. Da Gaza, le immagini dei bambini ammazzati, mutilati, terrorizzati invadono i mezzi di comunicazione. Al Jazeera le trasmette in continuazione, inframmezzate a servizi e commenti. A sinistra, Hilmi al Samuli piange accanto ai corpi di due figlioletti e di un nipote. A destra, il corpo di una bimba emerge dai resti della sua casa a Zeitun.
Le redazioni dei giornali le accumulano, e si chiedono se metterle in pagina o no, e come. La risposta è facile quando l'esitazione è legata alla crudezza eccessiva, che può ferire lo spettatore. Ma già il verbo "ferire", impiegato nel suo senso traslato in un contesto simile, fa vergognare di averlo pronunciato. Siano pure feriti, gli occhi distratti e illesi degli spettatori: l'eccesso di crudezza non è dei fotogrammi, ma della realtà. Alla realtà si può scegliere di aprire o chiudere gli occhi, chi abbia la provvisoria fortuna di starne alla larga: ma vedere è una condizione per decidere meglio come destinare la propria voce pubblica, o la propria privata preghiera, o anche solo il proprio pianto. Bisogna risparmiarne la vista ai bambini, si avverte giustamente. Tuttavia c'è un doppio inciampo. Il primo: che ci si adopera per sottrarre bambini alla vista di bambini. Il secondo: che i bambini, anche i più premurosamente protetti, vengono sempre a sapere, per certe loro vie misteriose, le cose dalle quali i grandi vogliono ripararli, e ricevono e custodiscono in silenzio la notizia che nel mondo scoppiano guerre che uccidono e spaventano i bambini.
Più complicata è la decisione di chi fa i giornali quando si sa che sui bambini, sul loro dolore e il loro spavento, si combatte una guerra di propaganda brutale quanto quella delle armi. Basterebbe allargare l'obiettivo per inquadrare, attorno al primo piano di una vittima bambina, la ressa delle macchine fotografiche e delle telecamere. Morte amputazione e pianto di bambini vengono esibiti per guadagnare un consenso alla propria causa e una ribellione alle ragioni del nemico.
E non ci si limita all'esibizione: si può spingersi, come volontari terzi e disperati confidano in privato, a esporre deliberatamente all'azzardo peggiore i bambini della propria stessa gente, e perfino a ostacolarne il soccorso per rincarare la rendita del lutto e della commozione universale. Il cinismo politico e il fanatismo religioso cospirano alla lugubre venerazione del martirio dei bambini. Fra gli uomini che ostentano i piccoli corpi esanimi ce ne sono che hanno auspicato e provocato l'orrore che si va consumando. Tutto questo si sa, nelle redazioni dei giornali. A tutto questo si pensa. Ma non può bastare. Non può indurre a tenere per sé gli occhi rossi e accantonare le fotografie che spezzano il cuore. Una di queste fotografie l'ho appena ricevuta, attraverso la posta elettronica, e chi mi ha avvisato dell'inoltro non ha potuto trattenersi dall'avvisare: "E' tremenda". Le guerre, quelle vere e orrende, e quelle orrende che ne usurpano il nome, si trovano sempre qualche viso, qualche corpo infantile a ricordarle e deprecarle. C'è una ragione mista, di angoscia soffocante e di compiacimento della brutalità, che spiega la fortuna enorme di un tema come la strage degli innocenti nelle arti figurative.
La strage di Erode: non ci fu, probabilmente. Se ci fu, calcolano i demografi sulla base della popolazione presunta di Betlemme, uccise una ventina di bambini sotto i due anni. La demografia di Gaza diventa agghiacciante, quando suona la sirena delle bombe. La maggioranza della popolazione ammassata in quel fazzoletto di terra è composta di bambini e ragazzini: un giardino d'infanzia in un miserando zoo umano.
Non c'è nessun Erode geloso a mandare aerei e carri sulla striscia di miseria e rancore. Gli israeliani vogliono davvero ridurre al minimo le vittime civili. Non possono essere così disumani né così imbecilli da mirare a colpire i bambini. Ma quando si interviene con un simile spiegamento di forza in un enorme giardino d'infanzia, tanti (quanti?) bambini moriranno, resteranno feriti e mutilati, e, quelli che sopravviveranno, non lo dimenticheranno più, e assicureranno altre generazioni al trionfo dell'odio e della vendetta.
La gente di Israele e i suoi governanti ha un (provvisorio, minacciato, odiato) vantaggio nelle risorse possibili della forza e della ragione. Hamas bersaglia da anni case, scuole, strade di una popolazione civile israeliana cui è impedita una normale vita quotidiana. Hamas giura la distruzione di ogni cittadino di Israele e di ogni ebreo sulla terra. Hamas addestra ed esalta gli assassini suicidi. Hamas si serve vilmente degli scudi umani, predilige bambini donne e vecchi, tramuta moschee e pareti domestiche in ripari di armi e mine. Ma lo spregevole cinismo di Hamas libera Israele dalla responsabilità verso quelle donne, quei vecchi, quegli uomini, quei bambini? Che il mio nemico si nasconda dietro scudi umani mi autorizza a colpire? Potrò guardare quelle fotografie diffuse e ostentate dal mio nemico - una testa di bambina ingoiata dai detriti della sua stanza, gli occhi chiusi, la nera bocca spalancata a inghiottire la terra; tre piccoli cadaveri deposti su un pavimento di obitorio fortunoso, fratellini di Zejtun come messi a dormire vicini dopo una giornata di giochi, se non fosse per il sangue che ne allaga le vesti - con una commozione compensata dalla persuasione che non è colpa mia? Molti altri pensieri, molte altre emozioni contrastanti e laceranti suscitano queste immagini. Con una sola cosa certa: che bisogna pubblicarle.