di Adriano Sofri
da Notizie radicali
A trent’anni dalla pubblicazione, domani esce la riedizione del “Diario di una giurata popolare al processo delle brigate rosse” di Adelaide Aglietta.
La pubblicazione, per i tipi della Lindau Edizioni di Torino, comprende, oltre al diario vero e proprio delle convulse e tragiche giornate del primo processo alle BR scritto da Adelaide, la prefazione che scrisse allora Leonardo Sciascia e una nuova, molto pregnante premessa di Adriano Sofri.
Il volume è inoltre corredato da un inquadramento storico di Paolo Borgna, da un inserto fotografico e da alcune significative testimonianze, come quelle del Presidente del Tribunale Guido Barbaro e dell’avvocato Gianpaolo Zancan.
Il recupero di questa preziosa memoria con la ristampa, la distribuzione nelle librerie e - nelle prossime settimane - la diffusione nelle biblioteche civiche ed universitarie piemontesi è stata possibile grazie al lavoro dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta, alla disponibilità dell’editore Ezio Quarantelli ed all’intervento dell’Assessore alla Cultura della Regione Piemonte, Gianni Oliva.
Quella che segue è appunto la prefazione scritta da Sofri appositamente per questa nuova edizione.
Più che una premessa è un’avvertenza, come si dice. Un avvertimento. Quella che segue è una storia vera, verissima, di quelle che a ogni passo vi fanno tirare il fiato ed esclamare: Incredibile! E’ successa trent’anni fa o poco più (già? appena?) ma sembra appartenere a un’altra epoca, a un altro mondo. Farà questo effetto ai giovani, che la incontrino per la prima volta, e ne ricevano una rivelazione enigmatica e allarmante sul tempo dei loro padri e madri e, ormai, nonni; ma lo farà anche agli anziani, quelli che “c’erano”, e non seppero, o seppero solo un pezzo, il loro pezzo, e comunque poi dimenticarono e rimossero, e a ritornarci sopra, come cagnolini presi per la collottola e portati sul luogo del delitto, si sentono spaventati, mortificati e quasi offesi. Ha fatto questo effetto a me stesso, per intenderci.
A quel tempo fu coniata una famigerata massima di comportamento, o piuttosto di astensione: “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Per chi inizialmente la formulò, persone di quella Lotta Continua che nel 1978 si era sciolta da due anni e resisteva in un giornale quotidiano “del movimento”, era un ponte verso l’addio definitivo alla violenza politica; altri intendevano che per opporsi alle malefatte brigatiste non fosse necessario sventolare la bandiera dello Stato. Io, per esempio, non mi riconobbi in quella formula, proprio per il suo “astensionismo”: irrisolto anche nella versione emendata per combattività, “Contro lo Stato e contro le Brigate Rosse”, perché non c’era un modo autonomo di fermare davvero la sfrenatezza terrorista, come mostrarono più tragicamente i 55 giorni di Moro, e quella dissociazione equidistante, o quel far parte per se stessi, si condannò di fatto a un’estraneità pilatesca. Però ridurre il contrasto fra chi stava senz’altro dalla parte dello Stato e chi se ne faceva obiettore, alla differenza fra il coraggio e la viltà, era troppo facile e, in molti casi almeno, ingiusto. E’ vero che personalità pubbliche della cultura, letterati, artisti, giornalisti, si barcamenarono nei confronti della minaccia brigatista e delle altre formazioni “armate”, per le quali mutilazioni e omicidi diventavano sempre più capricciosi e facili. Ma c’erano anche persone che, fedeli a se stesse, rifiutarono ogni soggezione e censura, esponendosi apertamente: così, per restare al retaggio di Lotta Continua, il Marco Boato che al convegno bolognese del 1977 (e in tante altre occasioni, compreso il processo di Torino di cui qui si tratta) si rivolse a viso aperto ai fautori della violenza, o l’Enrico Deaglio (e i suoi collaboratori) che da direttore del giornale rispose alle minacce fornendo la lista dei propri orari e itinerari. E’ un fatto che per alcuni anni la vita delle persone finiva in gioco per niente, che lo scegliessero o che la sorte le mettesse nel posto sbagliato, e molte volte furono quelli che non avevano scelto per sè la professione del rischio a reagire con ammirevole dignità e coraggio. Fra quelli che più rigidamente propugnavano il dovere di stare dalla parte dello Stato, e anzi di “farsi Stato”, venivano primi molti dirigenti del Pci, mossi da un duplice impulso. Uno, il più ovvio e meno essenziale, ad allontanare da sè il sospetto di una infedeltà “nazionale”, scotto della residua obbedienza all’universo comunista e alla sua incarnazione reale nell’Unione Sovietica. L’altro, più solido e rigoroso fino alla superstizione, a prendere su sé la supplenza a uno Stato dichiarato sempre incompiuto, familista e vacillante nelle mani della Dc e del suo sistema di alleanze, e di una intellighenzia disfattista e “nicodemita”, come volle chiamarla Giorgio Amendola, rievocando le controversie religiose cinquecentesche. (Nicodemo era il fariseo che andava di notte a visitare Gesù, e di giorno si mostrava osservante dei precetti ortodossi). Di questa divisione del lavoro –il Pci che sta addosso alla Dc per impedirle di cedere e costringerla al senso dello Stato- i giorni e le notti del sequestro di Moro diedero una rappresentazione tragica e farsesca insieme. Leonardo Sciascia, che con più chiarezza si pronunciava e dunque diventava protagonista e bersaglio prediletto della polemica pubblica, fu associato alla formula “nè con lo Stato nè con le BR”, benchè forse più di lui le corrispondessero Alberto Moravia o Eugenio Montale. Più di lui, che precisava con puntiglio: Né con questo Stato. “Per questo Stato non farei il giudice popolare. Se fossi estratto a sorte accetterei per coerenza nei confronti di me stesso e dei valori nei quali credo”. Precisazione che non era cavillosa o retorica. Proprio nella ricostruzione di che cos’era questo Stato e come veniva sentito da tanta parte della società italiana –com’era stato sentito dal Pasolini del processo al Palazzo- è la possibile comprensione di una posizione che altrimenti non sarebbe che codardia o pazzia. Non provo nemmeno a misurarmi qui con questo tema cruciale, a partire dalla questione dello “Stato delle stragi” (lo faccio in un mio libro appena uscito per le edizioni Sellerio, “La notte che Pinelli”): piuttosto, il diario di Adelaide Aglietta e le sue appendici documentali sono un contributo impressionante alla questione. Più esattamente, alla comprensione del “contesto”. (Il “contesto” che induceva i brigatisti al delirio di accusare Aglietta e i radicali di “farsi Stato imperialista”!)
Si può cominciare, per esemplificare, da un testo diverso, la memoria, resa pubblica postumamente da moglie e figlia, del giudice Guido Barbaro, che può esser letta come un diario complementare a quello di Adelaide. Ho usato l’aggettivo: incredibile. Ebbene, lo ripeterete a ognuna di quelle pagine. Guido Barbaro è morto il 3 febbraio 2004. Aveva 78 anni. Dopo la pensione, era stato nominato e poi confermato difensore civico del Comune di Torino. Magistrato, era arrivato a capo della Corte d’assise torinese, e in quella veste aveva presieduto la giuria nel processo al “nucleo storico” delle Brigate Rosse -53 imputati, di cui 20 detenuti, nessuno per omicidio- aperto nel 1976, svolto e concluso nel 1978. Barbaro (lo ebbi per giudice in un processo torinese del 1970 cui arrivai da imputato dopo tre mesi di carcere, e fui assolto per non aver commesso il fatto –una manifestazione di senza casa cui davvero non avevo partecipato) era un magistrato conservatore e scrupoloso, legato all’Arma dei Carabinieri, con una carriera limpida, toccata più tardi dalla notizia dell’iscrizione alla P2. Si legge, nel suo memoriale, la frase di chiusura della lettera di auguri per la Pasqua del 1977 speditagli dal Questore di Torino: “Colgo l’occasione per comunicarle che verrà ucciso”!
Incaricato del processo allora più importante, Barbaro ricorda di essere stato lasciato solo al punto di dover contare sulla privata e taciuta cooperazione del Banco di San Paolo per procurare una copia delle carte processuali e assicurarne la protezione in una cassetta di sicurezza. Nel mezzo del suo incarico, mentre si susseguono gli omicidi di magistrati avvocati poliziotti e agenti penitenziari (16 morti ammazzati durante lo svolgimento del processo, fra loro l’avvocato Croce, il maresciallo Berardi, l’agente Cotugno), Barbaro si vede improvvisamente revocata la scorta, e solo per la sollecitudine di un ufficiale dei carabinieri ottiene un milite che gli faccia da autista fino al ripristino del servizio. Era così, questo Stato.
Il ritratto che Adelaide Aglietta fa di Barbaro è cauto dapprima, poi affettuoso. “Ha un’aria sorniona ma decisa, molto educato, formale, sorridente e un po’ paternalista”. Le ricorda in effetti suo padre, fin nell’abbigliamento. Ironicamente paternalista è, come quando ricorda la difficoltà a spiegare ad alcuni dei giurati “la differenza fra la banda armata e la banda musicale”. “Dà la sensazione – osserva più in là Aglietta- di sentirsi solo, lasciato solo a portare il carico e le responsabilità di questo processo”. Solo com’è, il giudice impiega ogni momento di pausa del processo per attaccarsi al telefono con sua moglie...
La memoria di Barbaro è punteggiata di episodi amari quanto caricaturali. Così l’evocazione di “quella volontà che da Roma mi veniva trasmessa anche per tramite del Consiglio Superiore, organo preposto anche alla tutela dei magistrati: dovere io evitare che gli imputati inveissero ‘contro questa disgraziata Italia’, come se fosse stato in mio potere divinatorio la previsione
di quanto sarebbe stato detto. Potevo sì interrompere una dichiarazione, come avvenne nel tentativo della rivendicazione dell’omicidio Coco /Francesco Coco, Procuratore Generale di Genova/ il 9 giugno 1976, ma non di più. Mi guardai bene dal prendere atto di questi segnali, lanciati da persone che forse un’aula penale non avevano mai neppure visto...”. Così, più grottescamente (più incredibilmente) la storia del falso comunicato del lago della Duchessa: “E non sapevo allora quanto con estrema amarezza e indignazione avrei appreso molti anni dopo con senso di ironica rabbia, e cioè che il comunicato Br n. 7, che nell’aprile 1978 segnalava la presenza dell’onorevole Moro in un lago ghiacciato dell’Abruzzo e che conteneva la postilla ‘stiano attenti i vari Sossi e Barbaro che sono soltanto in libertà provvisoria’, era stato redatto per determinazione dei servizi alle dipendenze di quello stesso Ministro dell’Interno”... Questo Stato.
A “questo Stato” si sentivano estranei e stranieri i radicali e la loro segretaria politica di allora, Adelaide Aglietta. Al contrario dei praticanti della lotta armata che sognavano di far prevalere la propria violenza su quella, vera e immaginata, dello Stato, i radicali erano da sempre fautori della nonviolenza e difensori strenui della legalità contro l’illegalità di fatto dello Stato. A loro modo, un modo opposto allo statalismo hegelian-poliziesco del Pci, volevano incarnare la cittadinanza di uno Stato di diritto e imporre con l’esempio allo Stato di conformarsi alle sue stesse leggi. Non solo non respingevano la “giustizia borghese”, ma ne pretendevano, a proprie spese, l’adempimento coerente. “Siamo imputati in centinaia di processi e chiediamo che essi si celebrino, così come ci battiamo perché si facciano quelli contro gli uomini di regime coinvolti nelle truffe, nei peculati di Stato, nella strategia della tensione. Altrimenti muore anche la speranza dello Stato di diritto”.
Pensavano di proporre, e di essere, l’autentica alternativa alla venerazione della violenza politica “rivoluzionaria”, nella quale denunciavano, al di là del riconoscimento della spinta iniziale a un mondo giusto, la parodia e il complemento della violenza delle istituzioni. La lotta armata era ai loro occhi il nemico che l’illegalità dello Stato prediligeva e assecondava per nutrirne il proprio disprezzo per la democrazia. Fra le innumerevoli cose che troverete “incredibili” in questa lettura ci sarà forse una dissociazione radicale (uso questo aggettivo, radicale, nel riferimento a quel partito) da questo Stato spinta a rivaleggiare con quella rivoluzionaria e armata, e a rivendicarsene ben altrimenti profonda. Ci si chiederà come quella rivendicazione di nonviolenza avrebbe potuto fermare o arginare una deriva sfrenata della violenza politica, trasportata ormai da un rincaro convulso di ferocia e gratuità, e vinta solo dalla forza pubblica militare e dall’implosione della tempra umana dei suoi militanti. La risposta è realisticamente facile se la si commisura al contesto cui le cose erano arrivate, per esempio in quel 1978, è indefinibile se si risale all’indietro, come ogni interrogativo sulle origini, su “che cosa è cominciato prima”. Sta di fatto che in misura e forma diversa, anche decisivamente diversa, l’adesione alla violenza politica ha impregnato pressoché tutte le correnti ideali e le forze politiche della nostra storia, compresa gran parte del mondo cristiano e cattolico, e, fra le forze organizzate, la minoranza radicale è stata la più coerente testimone pratica della concezione nonviolenta.
La quale fu messa a una prova imprevedibile, fortunosa e azzardata dal sorteggio del nome di Adelaide fra quelli dei giudici popolari del processo torinese. Che venisse estratta la segretaria di un partito politico, e di quel partito, sembrò a qualcuno la correzione di qualche zampino maligno nel gioco della sorte. La designazione veniva dopo una estenuante sequela di rinunce da parte di altri candidati a far parte della giuria. Rinviato nel 1976, il processo doveva inaugurarsi il 4 maggio del 1977. Alla vigilia, appena una settimana prima, venne assassinato il presidente degli avvocati torinesi, Fulvio Croce, che aveva approvato la difesa d’ufficio degli imputati brigatisti, nonostante il loro rifiuto. La gran maggioranza dei giudici popolari designati, titolari e supplenti, certificò allora la propria rinuncia, adducendo, come ricorda ancora l’ironia di Barbaro, “incontrollabili ragioni di salute che, sotto il termine tecnico di ‘sindrome depressiva’, mascheravano il reale stato psicologico: la paura. Del che io direttamente non ebbi dubbi quando una giovane signora cadde lunga distesa al suolo, pur se sorretta dal vigile consorte, quale segno di risposta alla convocazione nel mio ufficio”.
Alla vigilia della ripresa, sono ben sedici i certificati medici che lamentano la folgorante “sindrome depressiva” di chi é chiamato a giudicare “in nome del popolo italiano”. In tutto l’arco preliminare del processo, su un centinaio di candidati si conteranno sulle dita di una mano quelli che non si saranno tirati indietro. Quella reazione era stata oggetto di una disputa non nobilissima, fra quanti ritenevano di denunciarla come la vile diserzione da un dovere civico e quanti ne giustificavano l’umana –troppo umana- difesa della privata esistenza. Ancora una volta, il sospetto di un feticismo statalista (per di più per conto terzi) da un lato, la deplorazione dell’italianissimo “tengo famiglia” dall’altro. Preludio alla messinscena del conflitto fra “fermezza” e “trattativa”, di lì a un anno, nella vicissitudine di Moro, aperta nel pieno dello svolgimento del processo torinese. Quando si diffuse la voce del sorteggio del nome di Adelaide Aglietta –ne leggerete i vivi dettagli nel suo racconto- un coro pressoché unanime di suoi colleghi, segretari dei partiti parlamentari (tutti uomini, del resto, il che facilita la vocazione stentorea alla virilità) si levò a proclamare il dovere di adempiere alla missione civile del giurato, e a sbarrare a lei l’eventuale via di fuga. Non fu solo unanime nella presa di posizione, il coro, ma cantò le stesse parole. “Senza esitazione”. Quelle parole, che si volevano inflessibilmente coraggiose, potevano suonare stridule e sinistre, di fronte a una responsabilità che faceva tremare e doveva far pensare e ripensare. Leonardo Sciascia, per il quale la giustizia, e cioè l’ingiustizia, fu l’ossessione di una vita, colse subito un punto che quei frettolosi e drastici pronunciamenti avevano del tutto mancato, per eccesso di zelo e difetto di immedesimazione: che la paura per sé e la propria incolumità andava assieme, e poteva perfino venir dopo, la paura per la responsabilità di giudicare. La giustizia pubblica, e laica, è l’inevitabile e circoscritta eccezione al precetto morale: Tu non giudicherai; e si capisce che non possa essere maneggiata a cuor leggero dal cittadino che non abbia scelto per sè la professione del giudice. Tanto meno in un giudizio che deve riguardare atti circoscritti e provati, ma in realtà coinvolge persone verso le quali si può avvertire il massimo di lontananza e il massimo di vicinanza insieme. “Che cosa può spingere un uomo a diventare un terrorista?” Questo paradosso è il caso di Adelaide, che sente angosciosamente il peso di dover giudicare, e sente anche –per imputati, ripetiamolo, sui quali non pesava ancora nessuna imputazione di omicidio- il rovello di capire come siano arrivati alla loro scelta, avendone conosciuto o potendone immaginare un punto di partenza non così dissimile dal proprio. “Senza esitazione”, sarà la bandiera retorica ispiratrice della fermezza, e del rigor mortis, cui si vorrà improntare il corso tragico del sequestro di Moro, quasi temendo di ammettere con se stessi la propria vacillazione, e volendo serrare gli altri nella gabbia ferrea dell’inflessibilità.
Anche Adelaide impiega quella parola, per indicare subito quello che riconosce come giusto: “Non ho quindi avuto esitazioni nel comprendere quel che dovevo fare”. Ma fra il riconoscere il proprio dovere e il compierlo c’è ancora un buon tratto. C’è la paura per sé, e la decisione di vincerla. C’è l’angoscia per la propria famiglia, per le proprie bambine. C’è il proprio ruolo di responsabile di un partito, e di protagonista di battaglie decisive, scelte per convinzione e non imposte da un sorteggio. I referendum scandalosamente rigettati dalla Corte Costituzionale, l’impegno per la depenalizzazione dell’aborto, la decisione di cessare le attività nazionali del Partito. E c’è quella paura di giudicare... Bisogna passare attraverso la tempesta del dubbio –l’espressione non fu di un disfattista nicodemita, ma di Giuseppe Mazzini- per scegliere ciò che si sa giusto.
L’esitazione. Senza rileggere questo diario, non mi sarei accorto di una corrispondenza addirittura letterale, che fa del processo torinese, e degli atteggiamenti politici assunti nel suo antefatto, l’antecedente diretto della tragedia di Moro e degli uomini che lo scortavano. Mentre Adelaide Aglietta si interrogava sul proprio dovere e si risolveva infine ad accettare il compito di cui era stata investita, “certo non senza esitazione”, volle scrivere Sciascia, altri segretari e dirigenti di partito ostentavano il ripudio a priori di ogni esitazione, come se fosse un segno di debolezza (femminea?), un’anticamera del cedimento. Annota Adelaide: “Ritorno a leggere le dichiarazioni: Berlinguer, Zaccagnini, Romita - nessuno avrebbe esitazioni”. Sentite. Oddo Biasini, segretario del PRI: “Accetterei senza esitazione l’incarico”. Ugo Pecchioli, per il PCI: “Accetterei senza alcuna esitazione”. Enrico Berlinguer, segretario del PCI: “Accetterei senza alcuna esitazione”. E rileggete ora le parole di una lettera di Moro prigioniero, che non sa capacitarsi del ripudio del mondo di fuori, del suo mondo: del “rifiuto della più piccola concessione, del più modesto riesame critico, dell’esitazione, anche solo dell’esitazione”...
Con un brivido simile si legge la scelta di Adelaide, e dei suoi compagni, rispetto alla tutela della propria incolumità minacciata. Proteggersi con una scorta? Adelaide pensa che “la vita sia sacra, a cominciare da quella degli altri”. Sacra la vita altrui, sacra la propria. Tuttavia, anzi proprio perciò, “rifiuto di ritenere in pericolo la mia vita e quella di chiunque altro per il solo fatto che si compia un dovere di coscienza”. Un principio di un rigore propriamente evangelico coincide con un’argomentazione lucida: accettare la scorta vuol dire, di fronte alla decisione degli assassini, mettere a repentaglio, con la propria, la vita altrui. Il rifiuto della scorta non ha niente, in Adelaide, della spavalderia o della iattanza, né della sfida. Non teme di dirsi la propria paura, e di dirla qui ai suoi lettori: “A quali rischi vado incontro? Mi prende la paura, parecchia paura. Penso alle bambine e mi metto persino a piangere”. La decisione è dunque tanto più preziosa, compendiata in un telegramma alle autorità competenti: “Siamo armati di nonviolenza e non d’altro. Chi vuole, s’accomodi. Non rischia nulla se non d’essere un indiretto ‘boia di Stato’. Stop. Non conosco altra garanzia possibile di serenità e di sicurezza che quella derivante dall’assenza di armi e armati di qualsiasi tipo.
Adelaide Aglietta, segretaria nazionale del Partito radicale”. Piuttosto che un’interiezione telegrafica, quello “Stop” sembra la parola definitiva sulla questione della violenza. Marco Pannella conferma e illustra la decisione condivisa: “Non rischieranno nulla, o quasi nulla, i boia che si credono giustizieri e rivoluzionari. Le vittime saranno inermi. Non acquisteremo armi o armati per difenderci. Non tollereremo che l’assassinio impunito di Giorgiana Masi faccia rischiare vite di agenti di PS o di CC o dei servizi speciali per proteggerci”. Non rischieranno quasi nulla. Aggiunge Adelaide, in un punto, che farà, faranno, appello “alle famiglie delle vittime”. Il brivido viene quando si accostino quelle parole al massacro della scorta di Moro. Verso la conclusione del processo, Adelaide racconta un incontro toccante. “Uscendo dalla caserma Lamarmora mi si avvicinano alcuni carabinieri per salutarmi: uno di essi mi sussurra che – soprattutto dopo la strage di via Fani – si parla molto, fra loro, delle scorte e del mio rifiuto di protezione armata. Sarà per questo o per altre ragioni, ma sta di fatto che mi rendo conto di essere ben accetta a questi ragazzi, dei quali scopro tutta la drammaticità umana (i giornali li dipingono come ‘gli uomini di ferro’)...”.
C’è una circostanza peculiare, in quel rifiuto della scorta: un’altra che potrà suonare incredibile al lettore, se Francesco Cossiga non l’avesse voluta malauguratamente rinverdire di recente, a proposito del metodo da usare per maneggiare la mobilitazione studentesca cosiddetta dell’Onda. Cossiga sarebbe davvero una figura della tragedia italiana, se l’Italia pubblica fosse all’altezza della tragedia: e invece la rimuove e la impicciolisce a caricatura. Fa sul serio, o si fa il verso, il Cossiga che nell’autunno del 2008 cita il se stesso del 12 maggio 1977, e detta i suoi precetti forsennati: “Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano”? Forse il dubbio, e il gioco con il suo personale rovello, gli ha preso la mano al punto che lui stesso non sa più far la guardia al confine fra serietà e ridicolo. Forse non ha trovato né in sé né in altri il modo per tornare, e accomiatarsene finalmente, sul luogo di quei delitti, l’assassinio a freddo di Giorgiana Masi, e la strage brigatista della scorta di Moro e poi del Moro prigioniero. Poichè la catarsi italiana non arriva, non arriverà più, converremo che il Cossiga del 2008 sta facendo il verso a un passato che non passa. Il lettore di Adelaide scoprirà, o riscoprirà –ed esclamerà: Incredibile!- con quale emozione e quale sentimento fosse vissuta allora la realtà che oggi si replica in caricatura. (Salve le sciagure di percorso, come il sangue e la tortura e la fellonia di Genova 2001). “Dunque Francesco Cossiga tenga alla larga da me qualsiasi suo uomo, qualsiasi scorta. La ‘protezione’ di colui che, secondo noi, scientificamente, a tavolino, ha progettato, cercato, costruito e trovato l’evento criminale del 12 maggio, può solo costituire un grave pericolo, mai una sicurezza. Poi comprendo che il rischio non è nemmeno questo. La realtà è ben altra: se a servizi segreti o a ‘corpi separati’ di regime servisse politicamente far ricadere sui ‘terroristi’ un assassinio a sinistra, non esiterebbero. Ripercorro i più torbidi episodi della strategia della tensione: piazza Fontana, l’Italicus, la strage di Peteano, l’ambiguissima vicenda di Lo Muscio e Zicchitella /militanti dei “Nap” coi quali, vita e morte, gli affari riservati di polizia giocarono come il gatto col topo/”.
Era questa, l’aria del tempo. E in fondo a tutte queste ragione per aver paura, per vincere la paura, per rifiutare la scorta, per contare solo sulla propria inerme buona coscienza, c’era il rammarico più affettuoso: “Addio all’allegria di camminare fra la gente, una tra i tanti”.